Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Terza parte: Fattore capitale e processi di internazionalizzazione produttiva
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Si nota, invece, per il Giappone negli ultimi anni una
situazione economica che continua a peggiorare, realizzando un calo del PIL di
circa il 3%, e un crollo degli investimenti fissi con variazioni spesso
negative, rispetto all’anno precedente; si tratta inoltre di crisi che ha
colpito fortemente l’andamento occupazionale dei salari. Nonostante alcuni
interventi sul mercato monetario che per favorire la domanda e gli investimenti
hanno portato i tassi di interesse a brevissimo termine ad una percentuale molto
vicina allo zero, è avvenuto che l’enorme liquidità così liberata è
continuata ad affluire sui mercati internazionali e non sul mercato interno,
accentuando la posizione netta sull’estero del Giappone. Ciò comporta alti
rischi sul mercato internazionale di cambi visto che gli Stati Uniti registrano
invece un disavanzo corrente per il 1998 di 80 miliardi di dollari e l’area
dell’euro evidenzia una diminuzione di 20 miliardi dell’attivo.
Sempre per il 1998 i paesi dell’area dell’euro hanno
registrato un incremento del PIL del 2,9% contro l’aumento del 2,5% del 1997;
tale performance è stata la più alta degli ultimi dieci anni, dovuta anche ad
un buon andamento della domanda interna, anche se all’incremento del prodotto
nell’Unione Europea non è però corrisposto un miglioramento dell’andamento
del mercato del lavoro che segnala ancora circa un 11% medio del tasso di
disoccupazione.
Anche dai dati precedentemente analizzati si può evincere
che il sistema mondiale riproduce su scala ampliata la contraddizione
centro-periferia, (vedi ad esempio precedente Tab.2), tenendo ancorati,
ad un luogo e ad una funzione determinanti per la propria produzione interna o
per l’esportazione, i diversi paesi che ne fanno parte. Questa tendenza
configura una struttura mondiale che permette ai paesi sviluppati di giocare un
ruolo dominante nel settore industriale, agricolo, finanziario, militare e
tecnologico, che può essere accresciuto attraverso la lotta
economico-finanziaria e dei mercati del capitale soprattutto contro il Terzo
Mondo.
La “globalizzazione dell’economia” è voluta dal libero
gioco delle leggi del mercato, ma bisogna valutare questo gioco di mercati in
tutta la sua pienezza, mettendo l’accento principalmente sulla globalizzazione
della concorrenza, sull’effetto supposto dell’apertura delle frontiere per
la crescita degli scambi di beni e servizi e anche sulle dinamiche dei flussi
internazionali di capitali a breve termine. Tutto ciò non è a vantaggio del
consumatore, apparentemente libero di acquistare i prodotti ai prezzi più bassi
grazie all’apertura dei mercati, allo smantellamento delle regolamentazioni
pubbliche e al totale regime di concorrenza tra le imprese.
Il contenuto effettivo della globalizzazione è dato, non
dalla mondializzazione degli scambi, ma da quella delle operazioni del capitale,
tanto sotto la forma industriale che finanziaria. All’origine della crescita
della sfera finanziaria esistono dei flussi verso questo settore di frazioni di
ricchezza che sono nate all’interno della produzione e che, prima di essere
travasati nelle diverse forme nei vari paesi attraverso la via delle imposte e
trasferiti verso la sfera finanziaria a titolo di pagamento degli interessi e di
rimborso di una frazione del debito pubblico, avevano assunto la forma di salari
e di stipendi, o di redditi operai, contadini e artigiani. Questi flussi sono
all’origine dei meccanismi di accumulazione perversi in cui la caccia alle
economie nazionali sono finalizzate al dominio del capitale finanziario e sono
parte del rapporto di competizione internazionale tra poli imperialisti, mediati
da compromessi all’interno delle organizzazioni sovranazionali del capitale
finanziario (G8, BM, FMI, OCSE, BEI, BRI, ONU) ed in quest’ambito deve, o almeno
dovrebbe, giocare il suo ruolo l’UE, e quindi l’euro, con una funzione,
inizialmente utile anche agli USA, come meglio si vedrà successivamente.
1.2. L’andamento del fattore capitale in Italia
Prima di analizzare i caratteri dello scontro
politico-economico fra il polo imperialista statunitense e quello europeo è
interessante verificare alcune tendenze avute dai margini di profitto, e in
genere dai parametri riferiti al fattore capitale, nel nostro paese negli ultimi
anni per cercare di comprendere se e in che modo agisce la competitività delle
imprese italiane nei confronti degli altri paesi occidentali nel nuovo contesto
di globalizzazione.
Dal trend di crescita economica di quasi tutta l’area
dell’euro, si discosta completamente l’Italia (cfr. Tab.7 e Tab.8) che
evidenziano negli ultimi anni tra le peggiori performance dell’area euro per i
più importanti indicatori macroeconomici, compresa una scarsissima dinamicità
positiva degli investimenti, come si era già evidenziato in precedenza.

Le tabelle indicano una economia sicuramente in difficoltà,
in particolare con forme dirette o indirette di contrazioni del reddito. Ad
esempio a fronte di un sempre alto tasso di disoccupazione (sempre superiore al
12%) e a bassi incrementi occupazionali (dovuti esclusivamente a forme di lavoro
atipico, interinale, part-time, LSU, ecc.) si realizzano nel contempo scarsi
incrementi dei consumi privati a causa di una contrazione dei redditi da lavoro
e una scarsa propensione agli investimenti privati interni, anche perchè i
capitali fuggono sempre di più all’estero alla ricerca di paradisi fiscali, di
speculazione finanziaria e di costi del lavoro sempre più bassi.
Si noti invece l’enorme incremento in Italia dei profitti.
Infatti ricordando che la redditività viene valutata attraverso il tasso di
profitto, ossia il profitto in rapporto al valore del capitale, e il margine di
profitto, ossia il profitto in rapporto al valore aggiunto, va evidenziato che
la tendenza alla diminuzione dei margini di profitto avutasi in Italia negli
anni 1988-1992 è stata sostituita da una forte crescita di tale margine negli
anni successivi dovuta soprattutto alla svalutazione della lira, alla
diminuzione dei costi di produzione (principalmente il lavoro) e all’aumento
dei prezzi dei prodotti destinati all’esportazione. Negli anni 1993-1995 si è
avuto un incremento della domanda interna per beni di uso durevole e di
investimento; il fatturato è aumentato del 15,7% ( in termini nominali) e del
7,4% (in termini reali). Nel 1995 si è avuto nel complesso un utile netto
rettificato di oltre 6.600 miliardi (ossia l’1,4% del fatturato), con un
apporto di oltre 1.150 miliardi da parte delle imprese pubbliche (ossia il 2,2%
del fatturato). Sempre in questi anni si è realizzato un incremento del 5,5%
della remunerazione lorda del capitale in termini di valore aggiunto, ciò è
stato dovuto soprattutto ad uno sviluppo della produttività del lavoro (14%)
rispetto a quello del costo del lavoro unitario (5%).
In sostanza la Centrale dei Bilanci registra che “la fase
di espansione delle attività produttive ha ulteriormente incrementato i
fabbisogni operativi derivanti sia dall’intensità degli investimenti tecnici
sia dalla lievitazione del capitale circolante, raggiungendo il 7% del fatturato
rispetto al 6.5% del 1994. La crescita dei margini si è tradotta in un
incremento dell’autofinanziamento ante gestione finanziaria ed imposte di 1,5
punti percentuali, al 10,5% in termini di fatturato, mentre a livello di
autofinanziamento netto la crescita è stata più contenuta (+0,8 punti
percentuali, al 6,8%) per un aumento delle componenti distributive".
Ricordando che, secondo la definizione fornita dall’ISTAT,
il fatturato è dato da: “l’ammontare di tutte le fatture emesse nel periodo
di riferimento per vendite sul mercato interno e su quelli esteri. In esso sono
comprese anche le vendite di prodotti non trasformati dall’impresa e le
fatture per prestazioni di servizi e per lavorazioni eseguite per conto terzi su
materie prime da essi fornite; sono però escluse le vendite di capitali fissi
dell’impresa” [1] , è interessante mostrare
l’evoluzione di tale parametro negli anni 1983-1998 distinguendo la parte
interna da quella estera.
Il Graf.6 e la relativa tabella dei dati mostrano
chiaramente che la distribuzione fra il fatturato interno e quello esterno è
quasi sempre intorno al 50% (l’unica vera eccezione si riscontra nel 1991
quando il fatturato interno è il 90% e quello estero il 10%). L’evidente
tendenza all’aumento del fatturato estero rispetto a quello interno registrata
dal 1996 in poi è dovuta all’internazionalizzazione dei mercati e alla
conseguente sempre maggiore presenza di imprese italiane all’estero.
Nei Graff. 7,8,9,10,11,12 seguenti si evidenzia l’andamento
a livello settoriale del fatturato mostrando il fatturato totale e accanto il
fatturato all’esportazione. Si evince immediatamente che sia nel settore dell’abbigliamento
(in cui il valore del fatturato estero è quasi triplicato nel 1997 rispetto al
1988) sia nel settore meccanico ed in quelli siderurgico e dei trasporti ( i cui
valori sono più che raddoppiati) si può riscontrare, così come ad esempio per
il settore energetico, un significativo numero di imprese che hanno deciso di delocalizzarsi
o che sono entrate a far parte di filiere estere di produzione.

E’ importante a questo punto analizzare anche l’indice
del fatturato, ossia la variazione del valore delle vendite (sul mercato interno
e su quello estero) delle imprese industriali a prezzi correnti (Istat) per
meglio comprendere le dinamiche dell’evoluzione economica e industriale dell’Italia.

Nelle Tabb.9, 10, ponendo come base per l’indice
nella prima tabella l’anno 1980 uguale a 100 e l’anno 1990 uguale a 100
nella seconda, si nota immediatamente che specialmente negli ultimi anni si è
registrata una notevole crescita dell’indice dovuta soprattutto al forte
ampliamento della parte estera e quindi ai processi di internazionalizzazione
produttiva delle imprese italiane. Questo aumento dell’indice del fatturato ha
toccato quasi tutti i settori economici ed in particolare i settori dell’industria
che più si sono mostrati dinamici nel realizzare filiere produttive
internazionali. Solo nel 1996 si è registrato un leggero calo da imputare alla
diminuzione del fatturato interno (quello estero è invece cresciuto ancora). Si
è avuto inoltre un forte aumento, negli ultimi anni, del fatturato per i beni
finali di consumo e per i beni finali di investimento; i beni intermedi,
significativamente cresciuti nel 1994 e 1995 hanno registrato un lieve calo nel
1996.
I Graff. 13,14,15,16,17,18 evidenziano con
immediatezza i risultati ottenuti dalle imprese distinte per settori [2]. Appare chiaro
che il settore chimico, quello dei trasporti, siderurgico e metallurgico hanno
fatto registrare degli utili negativi; va rilevato però che essendo la voce
ammortamento molto elevata per tutti questi settori, tali risultati potrebbero
essere spiegati in parte dalla facile usura degli impianti e in parte dal fatto
che essendo comunque l’ammortamento una voce “negativa” in un bilancio
contabile, questo ha avuto un peso significativo fra i costi rispetto
all’andamento delle voci di ricavo.

L’ultimo rapporto di Mediobanca del 1999, che analizza i
dati aggregati di 1755 società italiane (un campione che rappresenta oltre il
40% del fatturato complessivo), dati riferiti all’anno 1998, mette in evidenza
quanto già si era sostenuto in questa parte del’analisi-inchiesta e nelle due
parti precedenti (vedi Proteo 3/98 e Proteo 1/99). Infatti le imprese italiane
hanno raggiunto nel 1998 un vero e proprio record per i profitti, con un
incremento del 53% rispetto all’anno precedente degli utili netti. Ma ciò è
avvenuto senza un corrispondente aumento del fatturato, con investimenti che
continuano ad essere inferiori a quelli di dieci anni fa e a scapito dell’occupazione,
che prosegue il suo trend ormai pluriennale al ribasso.
Per evidenziare soltanto alcuni dati si tenga conto che, per
lo stesso campione di imprese e rispetto all’anno 1997, gli utili netti nel
1998 si sono incrementati di 8.000 miliardi di lire, passando da 15.000 miliardi
di lire a 23.000 miliardi (nel 1996 gli utili netti erano 10.000 miliardi di
lire). In particolare tale incremento complessivo del 53% è avvenuto con pesi
diversi rispetto alle tipologie d’impresa: ad esempio l’utile netto delle
imprese pubbliche è aumentato del 36% mentre quello delle private del 32%, ed
il settore terziario ha evidenziato il miglior risultato con un incremento annuo
del 70%. Nel 1998 il giro di affari complessivo ha segnato un incremento totale
del fatturato soltanto dell’1% sull’anno precedente, con un 6,9% di
incremento del giro di affari nel terziario e una diminuzione dello 0,3% per il
totale dell’industria; in più si tenga conto che il mercato interno ha segnato
un aumento delle vendite soltanto dello 0,4%, contro il 6% del 1997 a conferma
di una domanda interna molto debole, mentre le esportazioni sono cresciute del
2,7%, dato inferiore al 1997 anche a causa di una maggiore dinamica e
aggressività da parte dei paesi asiatici. Si consideri, inoltre, che si deve
evidenziare una flessione delle esportazioni in settori di importanza primaria
come il tessile-abbigliamento, il chimico-energetico, mentre andamenti positivi
nell’esport vengono segnalati per il settore meccanico-elettronico, i
trasporti e le imprese di impiantistica e costruzioni.
Si noti che il forte incremento dei profitti non è stato,
quindi, dovuto a particolari incrementi delle vendite, cioè del fatturato, né
a particolari risultati positivi nell’andamento del valore aggiunto,
nonostante il netto calo dei prezzi dei prodotti di base e delle materie prime,
con un abbattimento sostanziale nel prezzo del petrolio. Se a ciò si aggiunge
una buona tenuta del Margine Operativo Lordo Globale, ciò sta a significare che
l’incremento degli utili netti, e quindi dei profitti, è derivato da una
forte compressione del costo del lavoro, diminuzione dovuta anche ai continui
incrementi di produttività [3]. Infatti per il 1998 nell’industria
si è avuta una diminuzione del costo del lavoro dello 0,2% e dell’1,7% nel
terziario, a ciò si aggiunga che si è verificata una diminuzione dell’1,4%
medio nel costo del denaro e l’abolizione dei contributi delle imprese al
Servizio Sanitario Nazionale, oltre a una diminuzione complessiva delle imposte
sul reddito. Si segnala, dunque, una riduzione dell’aliquota fiscale media di
circa tre punti percentuali per il settore dell’industria (che passa dal 53 %
al 50%) e di circa l’11% nel terziario (un’aliquota media che passa dal 54%
al 43%) e ciò grazie all’introduzione dell’IRAP e della riforma tributaria
che ha favorito fortemente le grandi imprese.
Tale quadro sta anche a dimostrare una continua tendenza
verso i processi di finanziarizzazione dell’economia, in quanto se è vero che
i profitti si sono realizzati anche a causa dei minori oneri finanziari e della
minore incidenza tributaria è anche vero che l’elevato importo dei profitti
è stato solo in parte correlato a incrementi di valore aggiunto. Pertanto è
desumibile che una parte degli utili netti è da attribuire ad operazioni di
rendita finanziaria e ciò è anche confermato dalla mancanza di seri programmi
di investimenti, nonostante la riduzione del costo del denaro. Ne segue che il
vantaggio derivato dal calo dei tassi di interesse non ha comportato consistenti
programmi di investimento, infatti gli investimenti tecnici e finanziari
delle imprese private italiane continuano ad andare più all’estero che al
mercato interno, ciò a conferma del processo intenso di
internazionalizzazione che da qualche anno sta interessando le imprese italiane.
Tant’è che nel 1998 gli investimenti tecnici delle società del campione sono
aumentati globalmente del 5,4%, rimanendo ancora più bassi del 18% di quelli di
inizio decennio. Va anche segnalato che per ogni 100 lire di investimenti
realizzati nel 1998 ci sono state quasi 39 lire di disinvestimenti; ciò a
dimostrare il continuo processo di esternalizzazione produttiva e di
delocalizzazione internazionale che fanno sì che le imprese italiane si
concentrino soltanto sulla parte del ciclo produttivo ad alti margini e sulle
lavorazioni ad alto valore aggiunto, dismettendo le funzioni aziendali e le fasi
del ciclo non strategiche a scarso contenuto di know how e quindi realizzabili
in quei paesi dove più basso è il costo del lavoro e scarsi sono i diritti del
lavoro.
Si consideri, inoltre, che le imprese hanno continuato a
generare molto denaro che è affluito spesso a speculazioni finanziarie e in
incrementi di dividendi distribuiti. Ciò è spiegabile attraverso un semplice
ragionamento per punti:
a) si realizza un aumento record degli utili netti;
b) a ciò non corrispondono significativi incrementi né di
fatturato né di valore aggiunto;
c) sostanziale tenuta dei Margini Operativi Lordi e dei
Margini Operativi Netti;
d) il valore aggiunto deve essere redistribuito al fattore
lavoro e al fattore capitale, ma al fattore lavoro non sono andati incrementi
nè di salario diretto nè di salario indiretto;
e) le imposte fiscali e tributarie diminuiscono;
f) gli oneri finanziari sull’indebitamento calano come
conseguenza del minor costo del denaro;
g) i maggiori flussi di denaro realizzati dalle imprese non
vanno ad investimenti, anzi si realizza anche un 39% di dismissioni di
attività;
h) per il terzo anno consecutivo i dividendi distribuiti (nel
1998 circa 8.500 milioni di euro) sono stati maggiori degli aumenti di
capitale a pagamento (nel 1998 meno di 7.500 milioni di euro), realizzando
un saldo negativo fra dividendi e aumenti di capitale di oltre 1000 milioni di
euro, penalizzando di fatto l’autofinanziamento in quanto i detentori di
azioni in pratica continuano a ricevere più di quanto danno;
i) deciso miglioramento della struttura patrimoniale delle
società e il rapporto tra debiti finanziari e patrimonio netto diminuisce
toccando il valore più basso degli utlimi dieci anni, anche per la diminuita
quota di debiti contratti con le banche a vantaggio di finanziamenti a breve
realizzati con le consociate dovuti all’accentramento a livello di gruppo
della gestione finanziaria.
Con il quadro rappresentato nei punti precedenti si evince
chiaramente che i vantaggi di cui hanno potuto usufruire le imprese italiane
sono rimasti esclusivamente nelle tasche degli imprenditori, dei manager,
degli azionisti i quali non hanno “socializzato” in alcun modo le condizioni
ottimali di crescita di questi ultimi anni e in particolare del 1998, anno in
cui si sono registrati i migliori risultati dell’ultimo decennio.
Il Profit State continua a omaggiare di condizioni
favorevolissime gli imprenditori e a operare sconti eccezionali al profitto e
ciò non si traduce neppure in miglioramenti di spesa sociale ( diminuisce
il peso contributivo delle imprese), né in incrementi di investimenti sul
mercato italiano, né in riduzione di orario di lavoro, né in incrementi di
salario e in operazioni redistributive a favore del lavoro, né, come si
vedrà meglio di seguito nel dettaglio, aumenta l’occupazione.
Infatti, sempre in riferimento al campione di Mediobanca, si
ha che negli ultimi tre anni sono stati espulsi dal processo produttivo
58.518, lavoratori di cui 19.867 nel 1998, 16.573 nel 1997 e circa 22.000 nel
1996; evidenziando così un intenso processo di deindustrializzazione nel nostro
Paese, poiché dei 58.518 posti di lavoro persi ben 54.928 sono in imprese
industriali mentre i restanti 3.590 sono lavoratori espulsi dai processi
produttivi delle imprese terziarie. Solo nel 1998, sempre in riferimento al
campione di Mediobanca di 1755 imprese si rileva che mentre le imprese terziarie
registrano un aumento di 1.400 unità di lavoro essenzialmente nel comparto
delle telecomuncazioni per lo sviluppo della telefonia mobile (anche se si
tratta spesso di contratti part time) e di formazione, le imprese industriali
invece evidenziano una perdita di 21.667 posti di lavoro.
Si consideri inoltre che il lieve incremento registrato nelle
retribuzioni dirette è stato ampiamente bilanciato, sempre nel 1998, dall’abolizione
degli oneri a carico delle imprese per i contributi al Servizio Sanitario
Nazionale e all’incidenza dell’imposizione fiscale che, come si è detto
precedentemente, è fortemente variata in senso favorevole alle imprese,
soprattutto per quelle di grande dimensione (si parla infatti che con l’introduzione
dell’IRAP e della DIT, la Dual Income Tax, le grandi imprese e le banche
abbiano risparmiato oltre 10.000 miliardi); va infine considerata anche la
diminuzione degli oneri finanziari grazie al calo dei tassi di interesse.
In pratica il capitalismo italiano continua ad intascare
profitti senza creare opportunità di occupazione, ristrutturando per seguire
esclusivamente un’ottica di competitività internazionale basata su processi
di delocalizzazione produttiva all’estero, decrementi occupazionali all’interno
del Paese, supersfruttamento del lavoro con incrementi degli straordinari e dei
ritmi, uso di lavoro nero e precario e con scarsi diritti riconosciuti ai
lavoratori, in particolare le nuove figure del lavoro atipico, con flessibilità
del salario e del lavoro, con tagli continui alla spesa sociale, quindi con
salari reali sempre a minore capacità di acquisto. Il tutto finalizzato a
determinare utili che, nonostante le condizioni favorevoli di cui si è detto,
non vengono utilizzati in investimenti produttivi nel Paese ma inseguono la
speculazione finanziaria e l’investimento produttivo estero percorrendo
traiettorie verso i paesi dove si può avere un lavoro specializzato a basso
costo e a basso contenuto normativo.
1.3. L’internazionalizzazione italiana
Le Tabb.11,12,13 aiutano a comprendere più
chiaramente che anche in questi ultimi anni, come già si era visto nella
Seconda Parte dell’analisi-inchiesta (vedi Proteo 1/99), le imprese italiane non
risultano essere molto competitive, non riescono a rimanere stabilmente sul
mercato e i beni e servizi vengono venduti a prezzi troppo elevati rispetto alla
concorrenza.


[1] Annuario 1997, ISTAT
[2] Nei
grafici è evidenziato il Risultato rettificato a nuovo; si ricorda che
con questo termine si intende il risultato d’esercizio depurato di
rivalutazioni, svalutazioni, stanziamenti e prelievi, riportato a nuovo dopo le
attribuzioni deliberate dalle assemblee dei soci (Mediobanca).
[3] Si ricorda infatti che il valore aggiunto
rappresenta il quantum che va a remunerare il fattore produttivo lavoro e il
fattore produttivo capitale e che il margine operativo lordo è ottenuto dalla
sottrazione dal valore aggiunto del costo del lavoro. Pertanto la sostanziale
stabilità del Margine Operativo Lordo denota che non ci sono state tendenze
redistributive a favore del fattore lavoro