Il contraddittorio legame tra le trasformazioni economico-produttive e alcuni passaggi-chiave della storia del movimento sindacale dal dopoguerra ad oggi (Prima parte)
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Sabino Venezia
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3. La ricostruzione economica e politica
Gli anni che seguono la fine del secondo conflitto mondiale vengono, usualmente,
ricordati come il periodo della ricostruzione e del miracolo economico, che
vanno dal 1945 al 1963. Il quadro politico, economico e sociale che si prospetta
delinea molteplici realtà.
L’Italia esce dal secondo conflitto mondiale con due
ordini di problemi: immediati e di fondo. Le tematiche immediate che
la classe politica - allora nascente - si trova ad affrontare sono legate ai
danni provocati dagli effetti della guerra e dal ventennio fascista. I problemi
di fondo, invece, sono da attribuirsi alla disoccupazione strutturale
italiana e al profondo divario produttivo presente tra il Nord e il Mezzogiorno
italiano.
A seguito del secondo conflitto mondiale, i danni diretti
apportati dalla guerra sono evidenti; non tanto dal punto di vista produttivo [1],
quanto per i danneggiamenti che i bombardamenti hanno provocato alle infrastrutture,
alle vie di comunicazione, terrestri e marittime [2], e al patrimonio
abitativo italiano.
Ai danni fisici si aggiunge l’esplosione dell’inflazione
nell’Italia liberata, fenomeno che nasce al Sud, principalmente per le
spese delle truppe di occupazione, e che in seguito interessa e coinvolge tutto
il paese.

Affiancati ai problemi direttamente collegati alla guerra,
la classe dirigente italiana si trova a dover gestire molteplici altri disagi:
• Un’estesa disoccupazione strutturale [3], che contenuta
durante la prima guerra mondiale, con flussi migratori verso l’estero,
esplode nel ventennio fascista, dando vita a una devastante pressione demografica
nelle campagne.
• A causa della politica fascista, avversa alle importazioni,
l’attività agricola presenta, specialmente nel mezzogiorno,
gravi disagi strutturali, dovuti principalmente alla sovrapproduzione cerealicola
e alla limitazione degli allevamenti zootecnici.
• Per quanto riguarda l’industria, anche se vi
sono stati sviluppi nella produzione degli autoveicoli e dei prodotti petroliferi,
questi hanno uno scarso impatto sull’ economia del paese; infatti,
il settore alimentare, tessile e delle costruzioni risulta ancora tecnologicamente
arretrato. A questo va aggiunto che la grande industria è concentrata
in pochi gruppi-famiglie finanziari [4].
La ricostruzione economica e politica nell’Italia del
dopoguerra può essere suddivisa in tre principali fasi:
• ’44-maggio ’46, stabilità dei
prezzi e stagnazione produttiva;
• giugno ’46-ottobre ’47, acuto periodo
di inflazione e ripresa produttiva;
• novembre ’47-agosto ’48: drastica deflazione
e aperta recessione.
Il passaggio dall’economia di guerra a quella di pace
in effetti determinò: inflazione, disoccupazione, scarso sfruttamento
degli impianti, diminuzione degli investimenti (né in macchinari né per
la razionalizzazione del ciclo produttivo), il mercato nero.
La situazione si ’normalizzò’ solo quando
fattori strutturali prevalsero su quelli congiunturali: ad es. l’inflazione
dei primi mesi del ’47 non derivò solo dallo squilibrio tra domanda
e offerta di beni, ma fu una manovra per attirare ingenti risorse finanziarie
ed economiche per rilanciare la produzione italiana. Il blocco dei salari contribuì a
rafforzare i principali gruppi industriali, in particolare quelli monopolistici,
gettando così in crisi le piccole medie imprese.
La disoccupazione della fine del ’46 (circa 2 milioni
di disoccupati) fu il risultato, oltre che della forza lavoro non più utilizzata
in campo militare, anche dei licenziamenti dalle aziende in seguito allo sblocco
dei licenziamenti concordato tra CGIL e Confindustria.
Va inoltre ricordato che lo Stato decise di non intervenire
più in caso di squilibri del sistema economico produttivo e ciò,
unito alla crisi inflattiva del ’47 e alla scelta di una strategia politica
liberista, produsse una grave crisi del mercato del lavoro.
La liberalizzazione del mercato dei capitali e delle merci,
attuata tramite la rinuncia alla disciplina dei cambi, la concessione di favori
agli esportatori per le valute e l’abbattimento dei controlli sulle importazioni
di merci, provocò la grave crisi speculativa ed inflattiva dell’inizio
del ’47. Fu così che fu avviata la manovra deflattiva di Einaudi
(Ministro del Tesoro Democristiano).
La linea politica che prevale, al fine di risolvere i molteplici
problemi italiani, è quella di abbandonare la chiusura degli scambi
con l’estero e la politica di protezionismo che aveva caratterizzato
il fascismo, per avviare una progressiva liberalizzazione del mercato, volta
a rafforzare gli scambi esteri. Nel dibattito politico questa sembra l’unica
strada percorribile, sia perché l’Italia è carente di materie
prime, ma anche perché l’esportazione di prodotti finiti all’estero
permettono di ridimensionare il galoppante fenomeno inflazionistico.
Tutto questo si esplicita negli anni con molteplici accordi,
sia di carattere nazionale che internazionale. Si ricordano tra gli altri gli
interventi della Banca d’Italia a sostegno dell’economia nazionale,
la politica della Confindustria volta a dare all’imprenditoria italiana
nuove credenziali, l’adesione dell’Italia al Fondo Monetario Internazionale,
alla Banca Mondiale e alla CECA (Comunità Europea del Carbone e Acciaio).
Questo processo di integrazione alla comunità internazionale da origine
nel 1957, con la stipula del trattato di Roma, al Mercato Comune Europeo.
La creazione di detti accordi, affiancati al piano Marshall [5], volto ad accelerare la ricostruzione in Europa, hanno come obiettivo
quello di sventare una eventuale crisi depressiva economica conseguente alla
fine delle spese belliche, privilegiando la creazione di un mercato di interscambio
internazionale.
Gli aiuti e la scelta di una politica di libero mercato, si
manifestano in Italia con forti cambiamenti sia nel tessuto sociale che nella
struttura lavorativa.
Alle concessioni fatte dalla CGIL al Governo circa la tregua
salariale e lo sblocco dei licenziamenti, non seguirono quelle condizioni che
essa aveva chiesto come contropartita (blocco prezzi, contingentamento importazioni,
riforma fiscale). Così, da una parte il blocco dei salari e dall’altra
i licenziamenti (che divennero massicci tra il novembre ’47 e l’agosto ’48),
non rappresentarono il volano per la ripresa della produzione e degli investimenti
ma furono utilizzate dalla borghesia produttiva per colpire l’intero
assetto dei rapporti con la classe operaia e con il sindacato.
Tra febbraio ed aprile 1947 si avviò poi a conclusione
il Governo tripartito di alleanza nazionale con forti ripercussioni tra la
maggioranza e le minoranze della CGIL, la situazione non fu certo aiutata dal
congresso di giugno a Firenze che ratificò il passaggio dalla gestione
paritetica a quella proporzionale al peso delle correnti ma si spaccò sulla
questione dello sciopero politico [6]; si accentuarono
così i dissapori tra comunisti e socialisti da una parte e socialdemocratici,
repubblicani e cattolici dall’altra, fino alla rottura dell’unità sindacale
ed alla non attuazione delle rappresentanze unitarie previste dall’art.
39. L CGIL unitaria era caratterizzata dalle due principali componenti politiche
presenti nel paese: i comunisti ed i cattolici; nei primi era pressoché assente
un percorso di esperienza di gestione di un sindacato confederale, ma erano
forti i concetti di sindacato di massa di Di Vittorio e chiare le prospettive
di sviluppo della via italiana al socialismo di Togliatti; nei secondi era
forte la necessità di strutturare un sindacato come espressione della
società civile, ma il peso del partito e del Vaticano finirono per legittimare
la funzione di collegamento tra i lavoratori e le nuove strutture dello Stato.
Il ruolo della CGIL unitaria, indispensabile nella prima fase,
si protrarrà però ben oltre il necessario, rischiando di rappresentare
un modello inadeguato al cambiamento di fase.
Di fatto il “compromesso costituzionale che si era
realizzato in sede di Assemblea Costituente...” e “ l’accettazione
del regime di protezione americana nell’ambito degli aiuti del piano
Marshall”, [7] spinsero diversi
soggetti politici e istituzionali, dallo Stato alle organizzazioni padronali
ed imprenditoriali, ad esprimere i propri interessi ed a sperimentare i nuovi
meccanismi di democrazia, legittimando quindi le proprie identità.
A questo va anche aggiunto il mancato rispetto di Governo
e borghesia imprenditoriale a garantire il blocco dei prezzi, il contingentamento
delle importazioni e la riforma fiscale come contropartita allo sblocco dei
licenziamenti che comunque la CGIL garantì e che si applicò con
forza; l’insieme di questi fattori, agevolarono (quando addirittura non
determinarono compiutamente) i dissapori interni al sindacato, decretandone
definitivamente la scissione e la ricomposizione in strutture sindacali “cinghia
di trasmissione” dei partiti politici di riferimento.
Sarà questa la fase dell’egemonia, fase in cui
il rapporto di massa dei partiti si sviluppa grazie al ruolo dei sindacati
da essi diretti (spesso non formalmente schierati politicamente) anche solo
ideologicamente, ma sarà anche la fase dell’avanzata e delle grandi
conquiste del movimento sindacale di classe che durerà fino agli anni ’70
e che segnerà un ragguardevole arretramento del capitalismo, successivo
ad una crisi che per la prima volta assumerà un carattere in apparenza
irreversibile.
[1] A
eccezione del settore siderurgico italiano che aveva perduto un quarto degli
impianti di produzione; a esempio lo stabilimento di Cornigliano (Lo sviluppo
dell’economia italiana di A. Graziani, 1998, Bollati Boringhieri).
[2] Si ricorda che oltre la metà delle
locomotive e delle vetture furono distrutte e che la marina mercantile si trovò a
perdere il 90% del naviglio (A. Graziani, ... op. cit.).
[3] “...le
stime ufficiali ponevano il numero dei disoccupati intorno ai due milioni,
ma con ogni probabilità peccavano per difetto, in quanto trascuravano
i sottooccupati...”; A. Graziani, . op. cit., pag.22.
[4] F. Barca, (a cura di) Storia del
Capitalismo italiano, Progetti Donzelli, pag. 117 ss.
[5] European
Recovery Program, meglio conosciuto come piano Marshall, dal nome del segretario
di Stato americano George Marshall. “...può così realizzarsi,
come nel resto d’Europa, l’effetto più rilevante del piano
Marshall: la creazione di condizioni che consentano l’avvio della liberalizzazione
commerciale e riducano le tensioni sociali della ricostruzione...” F.
Barca (a cura di), Storia del capitalismo italiano, 1997, Progetti Donzelli,
pag. 31.
[6] L.Lama, Cari compagni, a cura di
P.Cascella, EDIESSE, srl, febbraio 1986, Roma, pag. 22.
[7] A. Pepe, P.Iuso, S. Misiani, La CGIL e la costruzione
della democrazia Ediesse, Roma, ’01 pag. 51 e seg.