La via alle privatizzazioni nel modello capitalistico italiano. Un’indagine statistico-aziendale
Luciano Vasapollo
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Negli anni ‘70 l’importanza di questi enti di gestione è cresciuta
ancora, soprattutto in relazione alla necessità di arginare la crisi che ha
colpito la maggior parte delle imprese private e alla volontà di concentrare
gli sforzi pubblici a favore delle aree depresse del Mezzogiorno. Basta riflettere
a questo proposito sull’alta incidenza degli investimenti nelle Partecipazioni
Statali in Italia e la percentuale nel Sud; in particolare si osservi l’alta
percentuale rispetto al totale degli investimenti realizzati tra il 1970 e il
1972 da questi enti. (Cfr. Tab.2 e Graf.3)


Va ricordato che in tale situazione, fino a inizio anni ‘80, l’unico azionista
di questi enti di gestione è lo Stato; il capitale sociale, chiamato fondo
di gestione, finanzia le società delle partecipazioni statali attraverso l’acquisto
delle azioni o attraverso la concessione di prestiti.
La massiccia quantità di investimenti che questi enti hanno
realizzato nel corso degli anni ha portato spesso a una carenza del fondo che,
pur essendo stata risolta attraverso l’emissione di obbligazioni o l’ottenimento
di prestiti da parte delle banche, ha portato a lungo andare a una situazione
di sottocapitalizzazione ed alla crescita del rapporto tra indebitamento e fatturato.
Si è avuta in tal modo una sempre maggiore dipendenza dal flusso di trasferimenti
monetari da parte del Ministero del Tesoro e quindi un indebolimento dell’autonomia
gestionale degli enti di gestione.
La crisi finanziaria del sistema, le discipline dei prezzi
imposti che vincolavano la redditività delle imprese a partecipazione statale
e la sempre maggiore dipendenza verso il potere politico che ha creato il perverso
intreccio tra economia, affari e partitocrazia, e la decisa spinta verso un
modello liberista puro, da “capitalismo selvaggio”, ha portato a prendere in
seria considerazione l’idea di attuare un vasto programma di privatizzazioni.
Il programma di privatizzazioni prende definitiva forma nel
nostro Paese negli anni ‘80 e si realizza seguendo tipologie diverse, soprattutto
per tentare di rispondere a logiche macro di politica-economica a connotati
di liberismo puro, e a logiche micro legate a modalità produttive e finalità
gestionali adatte al tipo di azienda considerata.
In Italia, a differenza degli altri paesi europei, non è stata
promulgata inizialmente alcuna legge, né si è svolto alcun tipo di dibattito
politico o sindacale sul processo di privatizzazione. L’unica forma di controllo
che si è stabilita è stata quella che prevedeva di informare il Ministero delle
Partecipazioni Statali della possibile vendita e il CIPI (Comitato Interministeriale
per la Politica Industriale) della possibilità offerta al fine di ottenere l’approvazione
per la privatizzazione. Questa situazione ha permesso ai grandi gruppi privati
di diventare i maggiori acquirenti delle imprese da cedere ed ha relegato i
piccoli risparmiatori al ruolo di spettatori ai margini del processo di privatizzazione.
Guardando alla storia dei paesi moderni, soprattutto agli ultimi
150 anni, si può rilevare come processi di nazionalizzazione e di privatizzazione
della proprietà si siano succeduti nel tempo un pò in tutto il mondo.
Le spinte sottostanti a queste ripetute inversioni di tendenza
possono essere ricondotte a:
- motivazioni in merito alla scelta dei principi che devono
presiedere al funzionamento del contesto economico - politico - sociale di un
paese, ed alla loro evoluzione, nonché al ruolo dello Stato nell’economia. Le
nazionalizzazioni sono spesso nate dall’esigenza di raggiungere obiettivi socialmente
rilevanti. Di converso, le privatizzazioni rispondono, nelle apparenze, a obiettivi
di miglioramento della competitività dell’economia e dell’efficienza del sistema;
- motivazioni legate a “patologie” del sistema economico -
sociale, e a compatibilità del capitale internazionale.
In merito alle privatizzazioni, lo spunto é stato - soprattutto
negli ultimi dieci anni - la necessità di risanare le finanze pubbliche, anche
a seguito delle pressioni derivarti dai processo di unificazione europea, e
dei conseguneti parametri di Maastricht di vero “soffocamento di ogni comaptibilità
sociale”
Le privatizzazioni sono processi complessi che comportano,
tra l’altro, la definizione degli obiettivi ultimi dell’operazione, la verifica
dei presupposti giuridico-economici e delle compatibilità di politica economica,
la selezione dei beni oggetto di privatizzazione, la definizione dell’entità,
delle modalità e dei tempi della cessione ai privati. In particolare, la scelta
degli obiettivi è un’operazione di carattere essenzialmente politico e, in quanto
tale, implica metodi che variano da un paese all’altro, senza però trascurare
il mantenimento, per quanto possibile, occupazionale.
Ciò premesso, gli obiettivi finali di un programma di privatizzazione,
sono riconducibili, in primo luogo, al ridimensionamento dell’intervento dello
Stato nel settore economico, in secondo luogo, ad un ipotizzato, ma la realtà
fattuale dimostra il contrario, miglioramento della struttura organizzativa,
economica e finanziaria delle imprese pubbliche; infine, ma non da ultimo, all’ampliamento
del numero degli investitori nel mercato finanziario (obiettivo conosciuto sotto
il nome di “azionariato popolare” o “diffuso”), che di fatto significa contributo
alla “bolla finanziaria”, alla finanziarizzazione dell’economia.
Per contro, la scelta degli strumenti destinati a perseguire
questi obiettivi dipende sia dalla considerazione di ciò che sembra possibile
ad un dato momento, tenuto conto dell’ambiente sociale e politico, sia delle
teorie economiche di chi decide le misure di politica economica.
Dal punto di vista tecnico, le fattispecie operative sono riconducibili
alle seguenti:
- vendita diretta ad un unico acquirente;
- management employee buy-out;
- trattativa privata (private placing) ovvero vendita ad investitori
istituzionali;
- vendita ad asta (asta pubblica) od a prezzo fisso (offerta
pubblica di vendita - OPV - a prezzo fisso).
La scelta dipende da considerazioni che possono concernere
sia il particolare tipo di attività che si intende smobilizzare sia il mercato
in cui si intende effettuare la vendita.
Vi è una profonda specificità delle politiche e dei programmi
di privatizzazione, a seconda dei paese e dei periodi.
E’ stato molto interessante ad esempio, seguire l’opera della
apposita commissione tedesca che ha praticamente, in poco tempo, partecipato,
venduto o riconvertito tutto il patrimonio statale della ex Germania dell’est.
Per quanto riguarda l’Italia, dopo un lungo dibattito il Governo
presieduto da Giuliano Amato ha dato ufficialmente il via ad un processo di
privatizzazione di imprese pubbliche mediante l’emanazione del Decreto Legge
11 luglio 1992, n° 333, convertito nella Legge 8 agosto 1992, n° 359, contenente
“misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica”.
Per il raggiungimento di questo obiettivo, il Governo ha redatto
un piano di politica economica e sociale nel quale sono stati indicati gli strumenti
- alcuni di natura tipicamente congiunturali, Atri volti a modificare la struttura
del nostro sistema economico e sociale - ritenuti più idonei.
Nella categoria degli strumenti di intervento strutturale,
rientrano le proposte di privatizzazione di parte delle imprese attualmente
in mano pubblica, previste dalla Legge 23 ottobre 1992, n° 421. Il provvedimento
prevede, fra l’altro, la trasformazione in S.p.A. di IRI, ENI, INA ed ENEL e
l’attribuzione al Ministero del Tesoro delle azioni della Cassa Depositi e Prestiti
nel capitale dell’IMI.
Le direttive fissate dal CIPE, con delibera del 30 dicembre
1992, stabiliscono che le dismissioni dovranno essere effettuate mediante offerta
pubblica di vendita a prezzo fisso (OPV), offerta pubblica ad asta (o asta pubblica)
ovvero trattativa privata.
Tra i principi generali, si dispone in primo luogo che la determinazione
del valore delle partecipazioni da dismettere dovrà essere effettuata mediante
l’assistenza di “primari o intermediari specializzati”, nazionali o internazionali,
in secondo luogo, negli statuti delle società da privatizzare dovranno essere
introdotti meccanismi di tutela degli azionisti di minoranza.
Nel caso di cessione mediante OPV, dovrà essere garantita la
massima diffusione dell’azionariato, mentre il ricorso alla trattativa privata
potrà essere utilizzato solo in presenza di interessi pubblici di particolare
rilevanza.
Il ricavato delle operazioni di privatizzazione andrà ad alimentare
uno speciale Fondo di Ammortamento che dovrà essere utilizzato per acquistare
sul mercato ed estinguere contestualmente titoli rappresentativi del debito
pubblico in circolazione (Bot, Cct, ecc.) per un pari importo.
Il primo grande smobilizzo di attività nel sistema delle Partecipazioni
Statali si è avuto negli anni ‘80 con oltre 70 casi di dismissione dei principali
enti di gestione (39 attribuibili all’IRI, 15 all’EFIM e 21 all’ENI). Questo
fenomeno si è rivelato però nei fatti molto ridotto, anche se identifica una
particolare volontà politica di inversione di tendenza. Infatti se si considera
che negli anni 1983-86 le imprese pubbliche acquisite hanno raggiunto il 6%
del totale a fronte di un 10,4% di casi in cui appaiono come acquirenti, allora
questi dati dimostrano che in effetti in tale periodo il settore pubblico non
ha diminuito la propria presenza nel sistema produttivo ma al contrario l’ha
ampliata (vedi Tab.3 e Graf.4).


Tra gli altri, va ricordato che nel 1986 c’è stato il passaggio
della società Alfa Romeo (IRI) alla FIAT, del gruppo Lanerossi (ENI) alla Marzotto;
ci sono anche stati tentativi di privatizzazione che non hanno avuto successo:
si pensi al caso dell’ENIMONT (società costituita con l’accordo tra l’ENI e
il gruppo privato Montedison) conclusasi con lo scioglimento e il ritorno di
tutte le sue attività all’ENI.
Le operazioni di cessione hanno riguardato solo quote di minoranza
e spesso hanno interessato imprese, come l’Alfa Romeo o la Lanerossi, che si
trovavano in condizioni di evidente difficoltà economica, anche se bisognerebbe
indagare in maniera approfondita sulle reali cause politico-economiche di tali
dissesti gestionali. In questi casi si è potuto addurre a motivazione il fatto
che le operazioni di vendita siano state dettate più da un intento di risanamento
finanziario ed economico che da una reale intenzione di natura squisitamente
politico-monetarista che impone il passaggio del controllo dal settore pubblico
al settore privato.
Per quanto riguarda poi le imprese di pubblica utilità, non
si è verificato in questi anni un processo di privatizzazione inteso come vero
e proprio trasferimento della proprietà pubblica al settore privato.