Il meritorio rilancio di una discussione - da troppo tempo
desueta - sulla caratterizzazione odierna dell’Università particolarmente in
Italia, rilancio documentato dagli interventi in “Proteo” nonché nel “Primo
Quaderno del Laboratorio per la critica sociale” (2000), consente di collocare
i puntuali rilievi critici di A. Crescimanni e di A. Ciattini sulle tendenze
legislative recenti e in corso in un quadro di riferimento generale che aiuti a
cogliere sia il concorso di cause che hanno condotto all’attuale
burocratizzazione dell’Università, sia a prospettare il tipo di percorso
critico da seguire nel rapporto tra breve e medio termine, in nome di una
esigenza di socializzazione delle istituzioni oggi drasticamente rimossa dall’imperversare
dall’economicismo tecnocratico sotto l’egida della ideologia del capitalismo
allo stesso tempo privato e di Stato.
Al di là, infatti, dello stravolgente “settorialismo”
con cui matura una legislazione dominata dal tendenziale ribaltamento dell’asse
di principi costituzionali - volti a dare il primato ai valori “sociali o
generali” su quelli “economico - privati” pur entro le ben note
contraddizioni dello scontro l’”est-ovest” degenerato a partire dall’89
occorre ripristinare una analisi critica che tenga conto della reale
unitarietà dell’organizzazione del potere, la cui complessità e conseguente
articolazione è solo apparentemente componibile in ambiti presentati come
segmenti tecnicisticamente regolabili da una ideologia del potere che ha avuto
storicamente bisogno di neutralizzare le forze sociali impegnate a contrapporre
una autonoma visione del mondo ad una organizzazione che - trasformando le
proprie “tecniche” nelle varie fasi dello scontro dì classe - riesce a
condizionare sino a rimuovere l’istanza della “democrazia sostanziale”
passando attraverso lo stravolgimento della “democrazia formale” nel nome
della “governabilità” imperante nei sistemi britannico e nordamericano.
Se infatti, si ripercorre senza nostalgie improduttive, ma
con la dovuta consapevolezza, la parabola iscritta nel passaggio dagli anni
I967-68 a questo inizio del 2000, si può cogliere il senso di un vero e proprio
rovesciamento che nella trama dei rapporti tra società e Stato si è venuto
determinando per impulsi successivi come reazione a quella crisi sociale
incombente in tutto l’occidente quando non più solo il movimento operaio
organizzato nelle forme storiche ma anche altri movimenti avviarono la denuncia
dei guasti crescenti ed irreversibili provocati da un capitalismo incontrollato
e non conseguentemente contrastato. Nelle esperienze del “socialismo reale”
e in tale contesto dell’acme della contrapposizione ideologica trovò la sua
collocazione più significativa nella presa di coscienza del movimento degli
studenti, degli scienziati e dei tecnici resisi tempestivamente consapevoli
delle ambiguità contraddittorie insite nella rivoluzione scientifica e
tecnologia pervenuta oggi al suo massimo dispiegarsi, non solo ma al contrario
che negli anni sessanta e settanta in una cornice di enfatica glorificazione di
quella che si è convenuto di chiamare “globalizzazione”. Il punto si rivela
per allora e per oggi fatte le debite differenze socio-istituzionali -
decisivo per intendere come e perché si sta imponendo l’attuale
ristrutturazione dell’Università, poiché quella in atto è la dura e
stringente replica del potere dominante al contenuto della contestazione “globale”
che le forze sociali subalterne tentarono di lanciare ponendo una stretta
relazione tra ruolo del capitale e ruolo della scienza, tra potere dell’economia
e potere della cultura: si che - come ben ricorda Stefano Garroni - prevalse nel
’68 l’idea che è troppo stretta l’interrelazione tra rivoluzione sociale
e rivoluzione culturale perché potesse farsi strada una riforma universitaria
in contrasto con il modello socio-istituzionale proprio dell’organizzazione
capitalistica. Al di là delle scelte e delle responsabilità di chi a sinistra
optava per la priorità della lotta nella società o nelle istituzioni, certo è
quanto documentato dalla Commissione “Trilateral” alla cui relazione -
preoccupata di “ridurre” la complessità indotta dall’espandersi della
democrazia in Europa - fu premessa una introduzione contenente un allarme per
rischi di caduta dell’autorità accademica conseguente alla svolta politica di
una parte del corpo docente influenzata dall’ideologia marxista; sicché
occorre procedere ad una reinterpretazione del processo storico degli ultimi
trent’anni per spiegare come una fase che ha trovato il suo epicentro nella
lotta all’università e comunque sul ruolo delle strutture di potere
scientifico e culturale trovi ancora - al culmine della parabola discendente
iniziata dopo la metà degli anni settanta - l’Università come terreno di una
restaurazione favorita da quella stessa sinistra che sia pure in forme reticenti
ed ambigue- tale restaurazione aveva frenato ed ostacolato quando era stata
proposta nel segno di un progetto governativo di quel centro-sinistra noto nel
segno della scandito “ventitre e quattordici” (il numero dello stampato
parlamentare contro cui avevano fatto una relazione di minoranza sia Rossana
Rossanda sia - sìc! - Luigi Berlinguer).
Ciò significa che si deve risalire alla spiegazione di
quella che si è convenuto di chiamare la “anomalia del caso italiano” per
dare risposte adeguate ad una vicenda che - appunto - non è settoriale, ma
altamente qualificatrice della portata complessiva delle forme dello scontro di
classe sperimentato particolarmente in Italia secondo i connotati specifici (a
suo tempo sottovalutati, quando non addirittura denigrati) del modello di
costituzione di “democrazia sociale” costantemente posto in discussione
dalle forze conservatrici e moderate, ed oggi nel mirino di quanti -
concentricamente da sinistra come da destra - puntano ad una “modernizzazione”
anticipata con l’erosione dei principi costituzionale in corso dal 1978 in
poi, avendo come traguardo sempre più ostentato la vera e propria sostituzione
della repubblica “fondata sul lavoro”, con la “repubblica fondata sul
mercato”, cercando di capire e far capire alle masse oggi sempre più
disorientate e perciò astensioniste come mai le forze politiche sociali
omologhe agli interessi del capitale puntino sulle “riforme istituzionali“-
tema ostico alle classi subalterne, anche per la responsabilità di certo
marxismo - per aggirare i termini di uno scontro che ha comunque come obiettivo
i rapporti di classe, in tutti gli ambiti in cui la nostra costituzione ha
cercato di alimentare una dialettica tra democrazia formale e democrazia
sostanziale.
Per quanto siano cosi mutate da apparire anche lontane le
circostanze in cui si disputava sulle differenze tra lotta per il socialismo e
il tatticismo riformista di stampo social democratico, senza richiamarsi ai
contenuti di quelle dispute così accese (in cui il riferimento al modello
costituzionale contribuiva a fare da spartiacque) non sarebbe possibile
identificare - oggi che vengono chiamare “riforme” tuot tourt gli assetti
normativi che vanno conferendo un primato al quel “privato” che la
costituzione subordinava al “sociale” - gli aspetti più salienti di quel
processo di democratizzazione che tra immani difficoltà entro lo scontro
ideologico “est-ovest” fu parzialmente avviato nella breve stagione degli
anni 1968-1975, cercando di coniugare in stretta interdipendenza “riforme
sociali” e “riforme istituzionali” facendo leva sull’autonomia delle
forze sociali e sull’autonomia - al centro e in periferia - degli istituti
rappresentativi, sino a legittimare forme di democrazia di base e diretta in
gradi di spostare l’asse del potere dai vertici degli apparati della società
civile come della società politica, verso la comunità di lavoratori e di
portatori di interessi sociali: non solo nella fabbrica, ma anche nello Stato e
nelle sue variegate istituzioni.
In tal senso quello che viene demonizzato - dalla stessa
destra comunista - come “assemblea rismo”, risaltava come il tentativo di
portare alla più penetrante capacità di intervento quello che la costituzione
legittimava con la pienezza del pluralismo sociale e politico e dei diritti di
autorganizzazione e di sciopero dei lavoratori, si che non è un caso che
proprio nella scuola e nell’Università - luoghi della formazione del sapere,
dello sviluppo della cultura e della selezione della classe dirigente- la
capacità di tenuta del potere dominante abbia potuto essere maggiore che nel
luogo dei rapporti sociali di produzione in quanto - ecco il punto sul quale
occorre portare una riflessione articolata e rigorosa - alla linearità della
contrapposizione tra proprietà e management dell’impresa da un lato e classe
lavoratrice dall’altro, non ha corrisposto una simmetrica caratterizzazione
antagonista tra le forze sociali presenti nell’Università, con la conseguenza
che più che incidere studenti e personale non docente sulle strutture del
potere accademico, sono state queste a irretire l’autonomia delle “componenti”
universitarie, anche a causa del mancato dispiegarsi di un autonomo movimento di
docenti consapevoli della necessità di democratizzare gli apparati di ogni
specie, ivi comprese le dirigenze amministrative e tecniche che in uno Stato di
democrazia sociale (a differenza che nelle varianti di Stato autoritario
storicamente affermatosi) devono ridislocarsi, riqualificando in senso sociale
ed egualitario l’esercizio di attribuzioni che devono acquisire autorevolezza
e non autorità, in nome del soddisfacimento dei valori sociali cui la scuola e
l’Università pubblica - al pari di ogni altra istituzione non privata - è
preordinata se, appunto, lo Stato è uno “Stato comunità” e non uno Stato
apparato verticistico e burocratico.
L’ampiezza del fronte di lotta dalla fabbrica all’Università,
vedeva coinvolti quelli che Bobbio ha definito “i due grandi blocchi di potere
discendente gerarchico in una società complessa”, cioè da un lato l’impresa
e dall’altro lato l’apparato amministrativo, nel cui ambito un ruolo
decisivo svolgono scuola e Università, comprovando il fondamento della teoria
di Althusser sugli apparati ideologici di Stato laddove ha affermato che il
potere politico non può fare a meno del potere ideologico, potere “immenso”
monopolizzato - è sempre Bobbio che parla - “da un gruppo di possessori e
trasmettitori della dottrina cui spetta di dichiarare quali siano le idee giuste
e quali quelle sbagliate”: fronte che in modo diseguale presentava un
ideologia autoritaria come referente di un processo di socializzazione pervenuto
a qualche “spezzone” di riforma giudicato comunque pericoloso ed
inaccettabile dalle forze capitalistiche - più nell’ambito del sistema delle
imprese che in quello degli apparati “centrali” dello Stato cui l’Università
appartiene, come si ricava dalle conquiste pur transeunti dei delegati in
fabbrica, rispetto ala scarsa consistenza degli esiti delle rivendicazioni
studentesche.
Se invece di fare un’operazione meccanicisticamente
liquidatoria delle esperienze degli ani 60/70 e dare per scontata l’attuale
fase contrariformatrice, si analizzano gli aspetti differenziali del procedere
della lotte antiautoritarie e le cadenze degli atti restauratori imposti negli
anni 80/90, si può meglio identificare il nesso determinante che si è posto
fra le cause di una mancata riforma universitaria- che in qualche modo si è
tentata, in linea con quella strategia che dalla riforma regionalista ha
condotto almeno alla riforma sanitaria del 1978 - e le cause dello strisciante
processo di “modernizzazione” che ha portato all’attuale stravolgimento
dei principi nel cui ambito la costituzione del 1948 aveva inscritto il ruolo e
della scuola e dell’Università. Ponendoci in tale ottica, va infatti
rammentato come negli anni 1967-1976 - per ammissione dello stesso Bobbio - il
punto di riferimento centrale di ogni lotta sociale o politica sia stato colto
nella “partecipazione” di massa ad un processo di democratizzazione inteso
come espansione del potere “ascendente” e nella sfera dei rapporti civili e
politici e nella sfera dei rapporti sociali, per cui non solo lo status di
cittadino, ma anche quello di “padre e di figlio, di coniuge, di impresario e
di lavoratore, di insegnante e di studente” e cosi via sono stati investiti da
un nuovo modo di far politica, imperniati su attori e strumenti nuovi come “assemblee,
manifestazioni e agitazioni di piazza, occupazioni di sedi pubbliche
interruzioni di lezioni e di riunioni accademiche”: partecipazione, che
comportava l’apertura di un nuovo corso nei rapporti tra democrazia di base e
democrazia rappresentativa, e quindi l’introduzione nelle varie normative -
compresa quella sull’Università - di inedite forme di regolazione dei
rapporti tra interessi sociali/generali e forma organizzative di funzionamento
delle istituzioni.
E proprio con riguardo a quegli aspetti partecipativi, che
avevano dischiuso la strada ad un potere sindacale di tipo nuovo e alla
istituzionalizzazione dei “consigli di quartiere sia nella scuola che
soprattutto nell’Università il movimento ha subito un immediato impatto di
cui occorre vagliare in modo analitico cause ed effetti specifici, dai quali
alla lunga è derivato quel progressivo deterioramento sia a carico delle
riforme democratiche variamente avviate sul “territorio” - divenuto l’emblema
della strategia del potere “dal basso” - sia a carico della scuola e dell’Università,
luoghi rimasti sostanzialmente sguarniti in ragione del ruolo qualificante
generale che le sedi di formazione intellettuale rivestono nella complessiva
organizzazione del potere. Non si può non convenire - almeno oggi, visto che
ciò è sfuggito o è stato trascurato, specie dopo il dpr.382/80- che la
sconfitta della democrazia, invano perseguita ricorrentemente da movimenti
studenteschi via via riprodottisi con sempre minore capacità egemonica, si è
tradotta in un immiserimento corporativistico di un problema pur reale di “rappresentatività”
delle componenti universitarie diverse da quelli che allora (ma non più oggi)
venivano bollati come “baroni”, e in una mistificatoria
distinzione/separazione tra gestione “amministrativa” e gestione “sociale”
dell’Università, che ha impedito di affrontare i problemi reali sollevati nel
67/68 quando - contestualmente all’attacco alla autonomia e alla sovranità
della grande impresa - si lanciò la critica ad una Università al servizio del
potere economico, per riportare a premesse di segno opposto il rapporto tra
scienza e democrazia e tra ricerca e didattica.
Va denunciato con lucidità e franchezza - se la critica all’attuale
degenerazione non vuole essere solo descrittiva, ma anche rivendicatrice di un
diverso modello di scuola e di Università per le lotte future - come l’una e
l’altra delle forme in cui si presentava e si presenta la questione
universitaria siano state il terreno in cui è venuto a mancare il peso di una
alleanza necessaria tra studenti - dequalificati da soggetti “sociali” a
meri “utenti” individuali - e corpo docente, visto almeno in quella sua
parte che (su terreni diversi da quello del ruolo loro aspettante negli atenei)
si collocavano ideologicamente sul versante di impegno delle forze politiche e
sindacali da tempo rivolte a combattere il sistema di potere quale si
configurava prima dell’entrata in vigore della nuova costituzione che - pur
lungi dall’aprire una fase di transizione al socialismo - indubbiamente apriva
una dialettica democratico - sociale inedita nell’Europa occidentale. Gli
stessi docenti “democratici” hanno preferito (salvo rilevanti casi
personali) concorrere alla redistribuzione formalistica di poteri burocratici
nei consigli di facoltà, di corso di laurea e di dipartimento, impedendo che l’elezione
dei vari organi collegiali (locali e nazionali) e degli organi monocratici di
ateneo - specie dei rettori - potesse aprire una stagione realmente nuova:
scelte che sono rimaste “invisibili” come origine delle candidature e l’incontrollabili”
quanto a uso delle attribuzioni rimaste dello stesso segno rispetto a quelle del
testo unico del I933. La stessa “trasparenza” - come unico obiettivo di
rinnovamento prospettato - si è via via fatta riassorbire da una prassi di
istituzionalizzazione delle componenti comunque “gerarchizzate”, per cui le
decisioni sono solamente “registrate” in organi collegiali privi di una
reale dialettica, e consegnati alla gestione di “fiduciari” dei docenti di
“prima” fascia in naturale “combine” con quelli di “seconda” fascia,
“combine” necessaria a contenere la categoria “subalterna” dei “ricercatori”.
Nella consolidata ininfluenza e dei rappresentanti del personale
tecnico-amministrativo e soprattutto degli studenti, anelanti prevalentemente a
misurare la forza percentuale di liste commisurate all’ascendenza delle forze
politiche presenti nelle istituzioni, sullo sfondo di un
assenteismo/astensionismo dì massa dell’elettorato studentesco che nella sua
cronicità ha anticipato quello che ormai dilaga nell’elettorato nazionale e
locale, sia per le elezioni che per i voti referendari. Si è cosi riusciti ad
“addomesticare” ogni istanza di rinnovamento, riportando gli studenti - come
si deduce dal fatto che persino le punte più avanzate del movimento degli anni
67-68 abbiano acriticamente condiviso l’enfasi meccanicistica data da una
parte dei docenti al modello organizzativo del “dipartimento” contrapposto a
quello della “facoltà” - nell’avvio di un processo di “istituzionalizzazione”
contrastante con le originali strategie “autonomistiche” imperniate sulla
domanda non solo di una apertura degli organi collegiali ad una visione non
strettamente “baronale” della rappresentanza del corpo docente, ma anche -
e, per certi versi, soprattutto - ad un uso delle competenze burocratiche
funzionali ad una riqualificazione dei rapporti tra ricerca e didattica, e
quindi ad un nuovo modo di lavorare dell’intero corpo docente secondo moduli
da sperimentare e imperniati sulla sempre più invocata, ma pervicacemente
disattesa “interdisciplinarità”.