A dimostrazione della coerenza di un impianto strategico che
spingeva sia il movimento operaio che gli altri movimenti ad obiettivi di
socializzazione del potere in fabbrica e nello Stato per un nuovo “modo di
produrre” sia beni che servizi, si andava infatti profilando sia nella grande
impresa che negli apparati pubblici specie locali e regionali l’enucleazione
nell’ambito dell’organizzazione del lavoro di moduli di tipo nuovo, volti a
ricomporre i segmenti in cui produzione e sapere erano andati via via
parcellizzandosi, tramite vari “gruppi di lavoro” rapportati a forme
periodiche di valutazione globale quindi formalmente “assembleare” delle
unità organizzative nelle quali la visione di fondo degli obiettivi del
produrre e della conoscenza garantisse periodicamente il prevalere delle sintesi
sulle analisi oramai sempre più sconnesse per le masse degli studenti da un
asse centrale di riferimento sia a fini scientifici che professionali: cosi si
spiega che la lotta all’Università - come aspetto centrale di una lotta che
si svolgeva nella società per intaccare le forme autoritarie del sistema
produttivo e dello Stato - mirasse alla creazione di nuove forme di ordinamento
didattico mediante il superamento della lezione solo “cattedratica”, l’istituzionalizzazione
di seminari e di commissioni di lavoro, la ricerca di nuove modalità di
svolgimento degli esami.
Sarebbe bastato, allora, che i docenti ideologicamente professatisi “di
sinistra” avessero dato operatività alle osservazioni di Gramsci che aveva
denunciato come “nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non
è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli
ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della
laurea avviene che lo studente sì avvicini al professore, gli chieda un tema e
consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli
studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con
maggiore o minore attenzione, tutte o solo in parte: lo studente affida poi alle
dispense, all’opera che il docente stesso ha scritto sull’argomento o alla
bibliografia che ha indicato (Quaderno n.1): e, proseguiva Gramsci - dovrebbe da
fatto personale “diventare funzione organica” il costume di singoli docenti
impegnati a fare una propria “scuola”, per avere propri “seguaci” o “discepoli”,
per avere giovani “distinti” posti in rapporto con altri specialisti ma “accaparrandoli”
definitivamente. Invece, tali docenti hanno enfatizzato sempre più l’antitesi
tra dipartimenti e facoltà, con una formula istituzionale che - considerando
“atipico” e perciò disincentivato il dipartimento “tematico” e
realmente intedisciplinare - ha favorito il perpetuarsi dei vizi tradizionali
dietro l’immagine semplificatrice dei dipartimenti istituzionali votati all’assemblaggio
delle materie “affini” nella logica degli storici istituti “policattedra”
con il solo risultato, “moralizzatore” bensì ma non produttivo di effetti
qualificatori nella formazione, connesso al superamento degli istituti “monocattedra”
specie a medicina e giurisprudenza.
Tanto più va denunciata la scelta di escludere dalla riforma
universitaria la ristrutturazione della didattica in relazione a natura e
compiti della ricerca di base, in quanto si è eretta a barriera pretestuosa e
insormontabile la “libertà” costituzionale di ogni singolo docente, come se
la programmazione istituzionalizzata. della didattica come didattica “integrata”
non fosse destinata a garantire la funzione generalizzante e critica della
articolazione delle conoscenze settoriali mediante la riduzione della libertà
come libertà “negativa” in quanto personale/privata e arrogantemente “antisociale”
in un servizio pubblico dipendente non già dagli interessi diffusi della
comunità studentesca, ma dalle logiche di potere arbitrario degli appartenenti
ai vari segmenti corporativi.
In ciò tutte le componenti hanno gradi diversi di
responsabilità, compresi quei ricercatori che hanno visto esaurire la
legittimità delle loro rivendicazioni (poste addirittura come “movimento”)
nella peraltro insoddisfatta rincorsa alle “fasce” di docenti, disposti al
massimo a concedere l’equiparazione di titoli formali ai fini del potere
amministrativo esercitabile nelle Università, senza che si sia elaborata una
autonoma strategia volta a collegare almeno la parte più giovane del personale
docente con le masse le cui rivendicazioni, frattanto, hanno perso di spessore,
con le mere rivendicazioni del c.d. ”diritto allo studio”, concepito come
aspetto specifico della rivendicazione - comunque subalterna - dello “Stato
sociale”, puntandosi cioè ai servizi di utilità pubblica, nella totale
sottovalutazione dei problemi organizzativi della didattica come servizio di
utilità pubblica di primo e superiore livello. Non sono certo mancati tentativi
di motivare l’assunzione di un ruolo coerente di formatori “critici”, ma
la loro sporadicità espunta da progetti organici sia di componenti culturali
sia di forze politiche e sindacali non ha lasciato le tracce operative
necessarie, rimanendo comunque testimonianza da valorizzare per una ripresa - se
e quando ne matureranno le condizioni della lotta per una università
socialmente coerente con le esigenze di democratizzazione dalla società e delle
istituzioni: cosi rimane importante il rilievo di chi osservava che la critica
“sociale” della didattica alla quale deve accompagnarsi la critica “teorica”
degli specialisti può cominciare soltanto se le masse storicamente espropriate
della cultura sono in grado di riappropriarsene cessando di ricevere dall’esterno
una cultura elargita e saranno capaci di gestirla attraverso una partecipazione
di massa (Mario Alighiero Manacorda);di chi parlando di una “qualità critica
e dell’organizzazione socialmente avanzata e necessaria ad una didattica nuova
ha sottolineato che i nuovi strumenti implicherebbero non già di creare una
forma nuova “priva di contraddizioni”, ma di far nascere “dentro” la
critica reale della vecchia forma i nuovi moduli del lavoro intellettuale,
organizzando nei “luoghi” dove storicamente si produce i soggetti, le forme
e gli strumenti del lavoro conoscitivo e formativo in modo che tutti “riacquistino
una funzione critica collettiva” (A.De Castris);e di chi rimarcava che il
problema della didattica “come problema di una ricomposizione unitaria del
sapere sociale” risulta “centrale” nella misura in cui comporta un
processo di appropriazione critica ed autocritica del presente posto in essere
sul terreno “istituzionale” della formazione della forza lavoro
intellettuale (P.Voza).
Se, quindi, sono rimaste marginali posizioni
politico-culturali necessarie a proiettare nel cuore dell’organizzazione
pubblica della cultura e del sapere i principi più innovatosi dello Stato di
democrazia sociale, si può capire come la parabola discendente del processo di
democratizzazione culminato negli anni 68-75 sia stata favorita dal vero e
proprio disimpegno delle forze culturali della sinistra sul terreno dal quale
avrebbero potuto ricevere nuova linfa e legittimazione le lotte sviluppatesi su
tutto l’arco delle questioni di trasformazione della società e dello Stato,
per una organizzazione del potere nella quale la simbiosi tra potere economico e
potere culturale rischiava ancora una volta di vanificare - come è puntualmente
avvenuto - l’impegno di valorizzare secondo i principi costituzionali, in
senso sociale e non burocratico/privatistico, il superamento degli istituti
recepiti dalla fasi liberale e fascistico-corporativa. Non si può spiegare il
succedersi della normativa sull’Università della fine degli anni ’80 e
degli anni ’90, senza tener conto del quadro in cui tale normativa ha potuto
prendere corpo, mediante un progressivo sfarinamento delle incisive seppur
limitate innovazioni democratiche conquistate, sfarinamento documentato dall’introduzione
della “legge finanziaria” come strumento di ridimensionamento della spesa
pubblica e dell’autonomia delle scelte di politica-sociale, secondo criteri di
“economicità” volti a disattendere il modello di una costituzione per la
quale la programmazione pubblica doveva condizionare l’autonomia del sistema
imprenditoriale, dando primato alla “finanza” secondo una concezione di
equilibrio propria dell’impresa “privata” e non viceversa “pubblica”.
L’aggiramento dell’art. 81 della costituzione che il meccanismo annuale
della “legge finanziaria” ha rappresentato dal 1979 in poi è la chiave
volta di quel rovesciamento di linea che ha preso corpo immediatamente contro la
riforma sanitaria del 1978, per disarticolarla in nome dei principi di
managerialità ed efficienza propri dell’organizzazione privata: ciò che via
via si è trasferito in tutti gli ambiti della vita economica e dei servizi
pubblici, a partire dalla politica delle cosiddette “dismissioni” delle
partecipazioni statali per restituire alle imprese private quel che esse prima
avevano lasciato nelle mani dello stato per convenienza non sociale ma di
profitto con proseguimento mediante la trasformazione delle ferrovie dello Stato
da azienda “burocratica” in l’ente pubblico economico” e poi in società
per azioni, contraddicendo alle finalità sociali del servizio pubblico,
adozione della forma della “spa” da quel momento dilagante per assoggettare
a regole “privatistiche” sia i grandi istituti bancari pubblici sia il
modello degli l’accordi” istituzionali tra gli enti pubblici di livello
territoriale, fino al tentativo di stravolgere lo stesso carattere “pubblico”,
dell’organizzazione amministrativa dello Stato mediante l’equiparazione del
rapporto di pubblico impiego a quello dei lavoratori delle imprese
manifatturiere. Non altrimenti può spiegarsi l’operazione di trasformare le
Università in enti pubblici della stessa specie degli enti di ricerca, con un
riferimento mistificatorio alla costituzione che puntava non già alla “entificazione”
delle Università, ma ben più significativamente a farle esprimere in modo del
tutto nuovo come “ordinamenti autonomi” in quanto recettivi della dimensione
“sociale” e non “settoriale” di un tipo di organizzazione espressiva dei
valori della libertà della scienza e dell’insegnamento secondo le esigenze
proprie dell’alta cultura, se la cultura è il luogo anche istituzionale dì
formazione ideologica, cioè di quella che Gramsci chiamava la “critica reale
della razionalità e storicità dei modi di pensare” quindi delle costruzioni
che corrispondono alle esigenze di un periodo storico complesso e organico
(Quaderno n-11). La scelta, operata nel senso di considerare le Università come
enti strumentali o funzionali - secondo le classificazioni care ai giuristi - ha
cosi finito per operare una svolta pericolosa in quanto - dopo avere ripudiato
il collegamento tra didattica e ricerca di base (su tale insopprimibile esigenza
valgono le recenti puntualizzazioni di Alessandro Mazzone su collegamento tra
“scienza” e “umanismo”, nel citato primo Quaderno del Laboratorio per la
Critica Sociale) - le forze della cosi detta sinistra di governo hanno optato
per una connessione della didattica non con la ricerca di base, ma con la
ricerca “finalizzata”, facendo della stessa trasformazione del ministero
dell’istruzione superiore in “ministero dell’università e della ricerca
scientifica” lo strumento di adeguamento alla pressione di una industria
anelante a vedere una resa utile anzitutto ideologicamente degli investimenti
propri e dello stato in un campo che sembrava persino sfuggire troppo al
controllo del capitale. E così, dopo avere vittoriosamente respinto agli inizi
degli anni settanta le lotte per una gestione “sociale” dell’Università
con il falso pretesto che obiettivi sociali “immediati” prevalessero contro
obiettivi culturali “permanenti”, l’intellettualità accademica dominante
(ivi compresa quella c.d. di sinistra nella sua parte prevalente) ha finito per
dequalificare l’Università in nome del conseguimento di obiettivi di tipo
applicativo, allineandosi all’indirizzo espresso dagli strumenti
politico-culturali dell’organizzazione degli imprenditori, che nel I987 ha
indetto una serie di seminari intesi a proclamare l’esigenza di una autonomia
universitaria volta a “integrare” sistema produttivo e università/
sottolineando che il sapere implicato nella produzione di beni e di servizi da
parte delle imprese “deve” far si che queste ultime “diventino sempre più
oggetto di ricerca da parte dell’università” con l’obiettivo di ottenere
che l’industria sia più scienza e che la scienza sia più industria, tutto
ciò come base di un’operazione istituzionale tendente a far diventare prassi
ordinaria l’offerta al docente di esperienze manageriali e a far configurare l’autonomia
universitaria nella maggiore assimilazione della gestione a quella di un’impresa,
per una maggiore efficienza didattica e per lo sviluppo di interazione col mondo
produttivo (rapporto Lombardi, I988). E non è un caso, allora, che la normativa
degli anni novanta abbia visto assimilare l’opinione espressa dalla
Confindustria come organizzazione e dal presidente della Fiat in persona,
secondo cui ai fini della promozione dello sviluppo un potente elemento di
accelerazione può essere l’integrazione tra la faccia del “pensare”
propria dell’Università, e la faccia del “fare” propria dell’impresa,
sino al punto di rimarcare che l’esigenza dell’autonomia universitaria “richiede
che nella gestione dell’Università entrino anche criteri e mentalità
Imprenditoriali” (Agnelli, 1991).
Al punto in cui siamo, con l’aziendalizzazione dell’Università
a immagine del processo di “privatizzazione” che ha investito le istituzioni
pubbliche in nome della “modernizzazione” invocata dalla sinistra di governo
più che dalla destra sociale e politica. si tratta di non chiudersi nella pure
essenziale questione dei rapporti tra le categorie docenti per riprendere il
punto relativo al c.d. “docente unico” non solo dal punto di vista - certo,
pregiudiziale - che è mancato quando lo stesso movimento degli studenti non era
ancora influenzabile - come è stato per la “pantera” degli anni novanta -
dall’idea che la monetizzazione dei fìnanziamenti sia una scelta neutra: ciò
che nel corpo accademico è stato accolto in modo supino, riaccreditando l’esigenza
di insistere nel “continuum” del primato di una ricomposta categoria di “emeriti”
come tetto di una piramide accademica stratificata per l’esercizio del potere
in simbiosi ufficiale con il potere economico, ma unita poi nell’obbedire al
degrado della funzione dell’Università in quanto Università “pubblica”,
dove la scolarizzazione di massa non viene più rifiutata a patto che venga
istituzionalizzata la discriminazione tra il titolo di studio per l’avviamento
professionale e il titolo di studio per la formazione culturale, cancellando in
via di principio l’idea che l’università debba istruire “educando”,
come evidenziato da Gramsci nella critica alla riforma Gentile, in quanto senza
educazione - appunto - il discente sarebbe mera “passività”, un meccanico
recipiente di nozioni astratte (Quaderni n.12).
Occorre pertanto riaprire la questione della connessione tra
didattica e ricerca di base, mettendo operativamente in discussione e quindi in
crisi la distinzione tra le tipologie di laurea, dimostrando nei fatti cioè
nelle forme concrete di insegnamento che è oggettivamente irricevibile la
contrapposizione tra professionalità e cultura se questa avviene nella sede di
“alta cultura” ove sia le scienze tecnico-naturali sia le scienze sociali
richiedono - per essere realmente tali - il superamento e della
ultra-specializzazione e della dequalificazione funzionale, attraverso l’istituzionalizzazione
delle “commissioni didattiche” che taluni statuti di ateneo hanno introdotto
con l’obiettivo di quel “coordinamento” che sin qui è completamente
mancato, e che comporta l’attivazione di nuove forme di lavoro integrato o di
gruppo, idonee a verificare come l’insegnare superi comunque la “tecnicità”
delle discipline separate prescinda in linea di principio dall’integrazione
con il mondo dell’impresa, oggetto a sua volta di egemonia culturale da parte
della collettività organizzata: salvo il caso, del tutto distinto e consacrato
in accademie “private”, come la LUISS, nelle quali discende dalla proprietà
stessa della istituzione universitaria “non pubblica” che la ricerca sia
vista nella prospettiva di intensificare i rapporti tra problemi economici e
organizzazione delle imprese.
Precondizione fondamentale di un impegno che garantisca una
politicizzazione sin qui mancata è che nel corpo accademico - anche per dare un
senso non meramente “corporativo” ancorché comunque necessario al processo
di superamento della gerarchizzazione dell’intero corpo docente - maturi l’esigenza
di dar vita ad una “sindacalizzazione” che non ripeta meccanicisticamente le
divisioni delle confederazione e delle altre formazioni che in contrapposto ad
esse si vanno sempre più radicando nel corpo sociale: avendo come riferimento
il metodo e gli obiettivi perseguiti in seno alla magistratura dal quel corpo di
“intellettuali” che in una sede per certi versi più delicata di esercizio
di funzioni “sovrane” da oltre un trentennio hanno animato una dialettica
interna ed esterna che nel mondo accademico a fortiori - dovrebbe allignare, se
è vero che l’autonomia culturale è il presupposto qualificante delle lotta
per la democrazia.
Occorre che gli accademici di tutte le c.d “fasce” di
appartenenza operino scelte atte a vitalizzare un pluralismo che per il
perdurante burocratismo rende opaco all’ombra del mantenimento di posizioni di
potere in cui domina l’amministrativizzazione - pubblica o privata, rimane in
tale senso espressione di una disputa “secondaria” - anziché la “socializzazione”
di un nuovo modo di lavorare per un nuovo modo di far cultura, nella effettiva,
e con solo demagogicamente affermata, connessione tra ricerca e didattica,
verificabile nella consapevolezza che anche in sede di didattica è possibile e
necessario superare la standardizzazione delle forme del sapere, facendo entrare
in un circuito permanente la dialettica delle idee e quindi della
interpretazione della realtà, sia nel mondo del sapere proprio delle scienze
sociali sia nel mondo del sapere tecnico e della natura: anche per la sempre
più pressante esigenza di superare gli steccati tra le c.d. “due” culture.