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La transizione difficile

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Salvatore D’Albergo
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Professore di Diritto Pubblico, Facoltà di Economia dell’Università di Pisa

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L’università emblema dell’organizzazione del potere

Salvatore D’Albergo

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A dimostrazione della coerenza di un impianto strategico che spingeva sia il movimento operaio che gli altri movimenti ad obiettivi di socializzazione del potere in fabbrica e nello Stato per un nuovo “modo di produrre” sia beni che servizi, si andava infatti profilando sia nella grande impresa che negli apparati pubblici specie locali e regionali l’enucleazione nell’ambito dell’organizzazione del lavoro di moduli di tipo nuovo, volti a ricomporre i segmenti in cui produzione e sapere erano andati via via parcellizzandosi, tramite vari “gruppi di lavoro” rapportati a forme periodiche di valutazione globale quindi formalmente “assembleare” delle unità organizzative nelle quali la visione di fondo degli obiettivi del produrre e della conoscenza garantisse periodicamente il prevalere delle sintesi sulle analisi oramai sempre più sconnesse per le masse degli studenti da un asse centrale di riferimento sia a fini scientifici che professionali: cosi si spiega che la lotta all’Università - come aspetto centrale di una lotta che si svolgeva nella società per intaccare le forme autoritarie del sistema produttivo e dello Stato - mirasse alla creazione di nuove forme di ordinamento didattico mediante il superamento della lezione solo “cattedratica”, l’istituzionalizzazione di seminari e di commissioni di lavoro, la ricerca di nuove modalità di svolgimento degli esami.

Sarebbe bastato, allora, che i docenti ideologicamente professatisi “di sinistra” avessero dato operatività alle osservazioni di Gramsci che aveva denunciato come “nelle università il contatto tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va. Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente sì avvicini al professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo in parte: lo studente affida poi alle dispense, all’opera che il docente stesso ha scritto sull’argomento o alla bibliografia che ha indicato (Quaderno n.1): e, proseguiva Gramsci - dovrebbe da fatto personale “diventare funzione organica” il costume di singoli docenti impegnati a fare una propria “scuola”, per avere propri “seguaci” o “discepoli”, per avere giovani “distinti” posti in rapporto con altri specialisti ma “accaparrandoli” definitivamente. Invece, tali docenti hanno enfatizzato sempre più l’antitesi tra dipartimenti e facoltà, con una formula istituzionale che - considerando “atipico” e perciò disincentivato il dipartimento “tematico” e realmente intedisciplinare - ha favorito il perpetuarsi dei vizi tradizionali dietro l’immagine semplificatrice dei dipartimenti istituzionali votati all’assemblaggio delle materie “affini” nella logica degli storici istituti “policattedra” con il solo risultato, “moralizzatore” bensì ma non produttivo di effetti qualificatori nella formazione, connesso al superamento degli istituti “monocattedra” specie a medicina e giurisprudenza.

Tanto più va denunciata la scelta di escludere dalla riforma universitaria la ristrutturazione della didattica in relazione a natura e compiti della ricerca di base, in quanto si è eretta a barriera pretestuosa e insormontabile la “libertà” costituzionale di ogni singolo docente, come se la programmazione istituzionalizzata. della didattica come didattica “integrata” non fosse destinata a garantire la funzione generalizzante e critica della articolazione delle conoscenze settoriali mediante la riduzione della libertà come libertà “negativa” in quanto personale/privata e arrogantemente “antisociale” in un servizio pubblico dipendente non già dagli interessi diffusi della comunità studentesca, ma dalle logiche di potere arbitrario degli appartenenti ai vari segmenti corporativi.

In ciò tutte le componenti hanno gradi diversi di responsabilità, compresi quei ricercatori che hanno visto esaurire la legittimità delle loro rivendicazioni (poste addirittura come “movimento”) nella peraltro insoddisfatta rincorsa alle “fasce” di docenti, disposti al massimo a concedere l’equiparazione di titoli formali ai fini del potere amministrativo esercitabile nelle Università, senza che si sia elaborata una autonoma strategia volta a collegare almeno la parte più giovane del personale docente con le masse le cui rivendicazioni, frattanto, hanno perso di spessore, con le mere rivendicazioni del c.d. ”diritto allo studio”, concepito come aspetto specifico della rivendicazione - comunque subalterna - dello “Stato sociale”, puntandosi cioè ai servizi di utilità pubblica, nella totale sottovalutazione dei problemi organizzativi della didattica come servizio di utilità pubblica di primo e superiore livello. Non sono certo mancati tentativi di motivare l’assunzione di un ruolo coerente di formatori “critici”, ma la loro sporadicità espunta da progetti organici sia di componenti culturali sia di forze politiche e sindacali non ha lasciato le tracce operative necessarie, rimanendo comunque testimonianza da valorizzare per una ripresa - se e quando ne matureranno le condizioni della lotta per una università socialmente coerente con le esigenze di democratizzazione dalla società e delle istituzioni: cosi rimane importante il rilievo di chi osservava che la critica “sociale” della didattica alla quale deve accompagnarsi la critica “teorica” degli specialisti può cominciare soltanto se le masse storicamente espropriate della cultura sono in grado di riappropriarsene cessando di ricevere dall’esterno una cultura elargita e saranno capaci di gestirla attraverso una partecipazione di massa (Mario Alighiero Manacorda);di chi parlando di una “qualità critica e dell’organizzazione socialmente avanzata e necessaria ad una didattica nuova ha sottolineato che i nuovi strumenti implicherebbero non già di creare una forma nuova “priva di contraddizioni”, ma di far nascere “dentro” la critica reale della vecchia forma i nuovi moduli del lavoro intellettuale, organizzando nei “luoghi” dove storicamente si produce i soggetti, le forme e gli strumenti del lavoro conoscitivo e formativo in modo che tutti “riacquistino una funzione critica collettiva” (A.De Castris);e di chi rimarcava che il problema della didattica “come problema di una ricomposizione unitaria del sapere sociale” risulta “centrale” nella misura in cui comporta un processo di appropriazione critica ed autocritica del presente posto in essere sul terreno “istituzionale” della formazione della forza lavoro intellettuale (P.Voza).

Se, quindi, sono rimaste marginali posizioni politico-culturali necessarie a proiettare nel cuore dell’organizzazione pubblica della cultura e del sapere i principi più innovatosi dello Stato di democrazia sociale, si può capire come la parabola discendente del processo di democratizzazione culminato negli anni 68-75 sia stata favorita dal vero e proprio disimpegno delle forze culturali della sinistra sul terreno dal quale avrebbero potuto ricevere nuova linfa e legittimazione le lotte sviluppatesi su tutto l’arco delle questioni di trasformazione della società e dello Stato, per una organizzazione del potere nella quale la simbiosi tra potere economico e potere culturale rischiava ancora una volta di vanificare - come è puntualmente avvenuto - l’impegno di valorizzare secondo i principi costituzionali, in senso sociale e non burocratico/privatistico, il superamento degli istituti recepiti dalla fasi liberale e fascistico-corporativa. Non si può spiegare il succedersi della normativa sull’Università della fine degli anni ’80 e degli anni ’90, senza tener conto del quadro in cui tale normativa ha potuto prendere corpo, mediante un progressivo sfarinamento delle incisive seppur limitate innovazioni democratiche conquistate, sfarinamento documentato dall’introduzione della “legge finanziaria” come strumento di ridimensionamento della spesa pubblica e dell’autonomia delle scelte di politica-sociale, secondo criteri di “economicità” volti a disattendere il modello di una costituzione per la quale la programmazione pubblica doveva condizionare l’autonomia del sistema imprenditoriale, dando primato alla “finanza” secondo una concezione di equilibrio propria dell’impresa “privata” e non viceversa “pubblica”. L’aggiramento dell’art. 81 della costituzione che il meccanismo annuale della “legge finanziaria” ha rappresentato dal 1979 in poi è la chiave volta di quel rovesciamento di linea che ha preso corpo immediatamente contro la riforma sanitaria del 1978, per disarticolarla in nome dei principi di managerialità ed efficienza propri dell’organizzazione privata: ciò che via via si è trasferito in tutti gli ambiti della vita economica e dei servizi pubblici, a partire dalla politica delle cosiddette “dismissioni” delle partecipazioni statali per restituire alle imprese private quel che esse prima avevano lasciato nelle mani dello stato per convenienza non sociale ma di profitto con proseguimento mediante la trasformazione delle ferrovie dello Stato da azienda “burocratica” in l’ente pubblico economico” e poi in società per azioni, contraddicendo alle finalità sociali del servizio pubblico, adozione della forma della “spa” da quel momento dilagante per assoggettare a regole “privatistiche” sia i grandi istituti bancari pubblici sia il modello degli l’accordi” istituzionali tra gli enti pubblici di livello territoriale, fino al tentativo di stravolgere lo stesso carattere “pubblico”, dell’organizzazione amministrativa dello Stato mediante l’equiparazione del rapporto di pubblico impiego a quello dei lavoratori delle imprese manifatturiere. Non altrimenti può spiegarsi l’operazione di trasformare le Università in enti pubblici della stessa specie degli enti di ricerca, con un riferimento mistificatorio alla costituzione che puntava non già alla “entificazione” delle Università, ma ben più significativamente a farle esprimere in modo del tutto nuovo come “ordinamenti autonomi” in quanto recettivi della dimensione “sociale” e non “settoriale” di un tipo di organizzazione espressiva dei valori della libertà della scienza e dell’insegnamento secondo le esigenze proprie dell’alta cultura, se la cultura è il luogo anche istituzionale dì formazione ideologica, cioè di quella che Gramsci chiamava la “critica reale della razionalità e storicità dei modi di pensare” quindi delle costruzioni che corrispondono alle esigenze di un periodo storico complesso e organico (Quaderno n-11). La scelta, operata nel senso di considerare le Università come enti strumentali o funzionali - secondo le classificazioni care ai giuristi - ha cosi finito per operare una svolta pericolosa in quanto - dopo avere ripudiato il collegamento tra didattica e ricerca di base (su tale insopprimibile esigenza valgono le recenti puntualizzazioni di Alessandro Mazzone su collegamento tra “scienza” e “umanismo”, nel citato primo Quaderno del Laboratorio per la Critica Sociale) - le forze della cosi detta sinistra di governo hanno optato per una connessione della didattica non con la ricerca di base, ma con la ricerca “finalizzata”, facendo della stessa trasformazione del ministero dell’istruzione superiore in “ministero dell’università e della ricerca scientifica” lo strumento di adeguamento alla pressione di una industria anelante a vedere una resa utile anzitutto ideologicamente degli investimenti propri e dello stato in un campo che sembrava persino sfuggire troppo al controllo del capitale. E così, dopo avere vittoriosamente respinto agli inizi degli anni settanta le lotte per una gestione “sociale” dell’Università con il falso pretesto che obiettivi sociali “immediati” prevalessero contro obiettivi culturali “permanenti”, l’intellettualità accademica dominante (ivi compresa quella c.d. di sinistra nella sua parte prevalente) ha finito per dequalificare l’Università in nome del conseguimento di obiettivi di tipo applicativo, allineandosi all’indirizzo espresso dagli strumenti politico-culturali dell’organizzazione degli imprenditori, che nel I987 ha indetto una serie di seminari intesi a proclamare l’esigenza di una autonomia universitaria volta a “integrare” sistema produttivo e università/ sottolineando che il sapere implicato nella produzione di beni e di servizi da parte delle imprese “deve” far si che queste ultime “diventino sempre più oggetto di ricerca da parte dell’università” con l’obiettivo di ottenere che l’industria sia più scienza e che la scienza sia più industria, tutto ciò come base di un’operazione istituzionale tendente a far diventare prassi ordinaria l’offerta al docente di esperienze manageriali e a far configurare l’autonomia universitaria nella maggiore assimilazione della gestione a quella di un’impresa, per una maggiore efficienza didattica e per lo sviluppo di interazione col mondo produttivo (rapporto Lombardi, I988). E non è un caso, allora, che la normativa degli anni novanta abbia visto assimilare l’opinione espressa dalla Confindustria come organizzazione e dal presidente della Fiat in persona, secondo cui ai fini della promozione dello sviluppo un potente elemento di accelerazione può essere l’integrazione tra la faccia del “pensare” propria dell’Università, e la faccia del “fare” propria dell’impresa, sino al punto di rimarcare che l’esigenza dell’autonomia universitaria “richiede che nella gestione dell’Università entrino anche criteri e mentalità Imprenditoriali” (Agnelli, 1991).

Al punto in cui siamo, con l’aziendalizzazione dell’Università a immagine del processo di “privatizzazione” che ha investito le istituzioni pubbliche in nome della “modernizzazione” invocata dalla sinistra di governo più che dalla destra sociale e politica. si tratta di non chiudersi nella pure essenziale questione dei rapporti tra le categorie docenti per riprendere il punto relativo al c.d. “docente unico” non solo dal punto di vista - certo, pregiudiziale - che è mancato quando lo stesso movimento degli studenti non era ancora influenzabile - come è stato per la “pantera” degli anni novanta - dall’idea che la monetizzazione dei fìnanziamenti sia una scelta neutra: ciò che nel corpo accademico è stato accolto in modo supino, riaccreditando l’esigenza di insistere nel “continuum” del primato di una ricomposta categoria di “emeriti” come tetto di una piramide accademica stratificata per l’esercizio del potere in simbiosi ufficiale con il potere economico, ma unita poi nell’obbedire al degrado della funzione dell’Università in quanto Università “pubblica”, dove la scolarizzazione di massa non viene più rifiutata a patto che venga istituzionalizzata la discriminazione tra il titolo di studio per l’avviamento professionale e il titolo di studio per la formazione culturale, cancellando in via di principio l’idea che l’università debba istruire “educando”, come evidenziato da Gramsci nella critica alla riforma Gentile, in quanto senza educazione - appunto - il discente sarebbe mera “passività”, un meccanico recipiente di nozioni astratte (Quaderni n.12).

Occorre pertanto riaprire la questione della connessione tra didattica e ricerca di base, mettendo operativamente in discussione e quindi in crisi la distinzione tra le tipologie di laurea, dimostrando nei fatti cioè nelle forme concrete di insegnamento che è oggettivamente irricevibile la contrapposizione tra professionalità e cultura se questa avviene nella sede di “alta cultura” ove sia le scienze tecnico-naturali sia le scienze sociali richiedono - per essere realmente tali - il superamento e della ultra-specializzazione e della dequalificazione funzionale, attraverso l’istituzionalizzazione delle “commissioni didattiche” che taluni statuti di ateneo hanno introdotto con l’obiettivo di quel “coordinamento” che sin qui è completamente mancato, e che comporta l’attivazione di nuove forme di lavoro integrato o di gruppo, idonee a verificare come l’insegnare superi comunque la “tecnicità” delle discipline separate prescinda in linea di principio dall’integrazione con il mondo dell’impresa, oggetto a sua volta di egemonia culturale da parte della collettività organizzata: salvo il caso, del tutto distinto e consacrato in accademie “private”, come la LUISS, nelle quali discende dalla proprietà stessa della istituzione universitaria “non pubblica” che la ricerca sia vista nella prospettiva di intensificare i rapporti tra problemi economici e organizzazione delle imprese.

Precondizione fondamentale di un impegno che garantisca una politicizzazione sin qui mancata è che nel corpo accademico - anche per dare un senso non meramente “corporativo” ancorché comunque necessario al processo di superamento della gerarchizzazione dell’intero corpo docente - maturi l’esigenza di dar vita ad una “sindacalizzazione” che non ripeta meccanicisticamente le divisioni delle confederazione e delle altre formazioni che in contrapposto ad esse si vanno sempre più radicando nel corpo sociale: avendo come riferimento il metodo e gli obiettivi perseguiti in seno alla magistratura dal quel corpo di “intellettuali” che in una sede per certi versi più delicata di esercizio di funzioni “sovrane” da oltre un trentennio hanno animato una dialettica interna ed esterna che nel mondo accademico a fortiori - dovrebbe allignare, se è vero che l’autonomia culturale è il presupposto qualificante delle lotta per la democrazia.

Occorre che gli accademici di tutte le c.d “fasce” di appartenenza operino scelte atte a vitalizzare un pluralismo che per il perdurante burocratismo rende opaco all’ombra del mantenimento di posizioni di potere in cui domina l’amministrativizzazione - pubblica o privata, rimane in tale senso espressione di una disputa “secondaria” - anziché la “socializzazione” di un nuovo modo di lavorare per un nuovo modo di far cultura, nella effettiva, e con solo demagogicamente affermata, connessione tra ricerca e didattica, verificabile nella consapevolezza che anche in sede di didattica è possibile e necessario superare la standardizzazione delle forme del sapere, facendo entrare in un circuito permanente la dialettica delle idee e quindi della interpretazione della realtà, sia nel mondo del sapere proprio delle scienze sociali sia nel mondo del sapere tecnico e della natura: anche per la sempre più pressante esigenza di superare gli steccati tra le c.d. “due” culture.