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Luciano Vasapollo
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Docente di Economia Aziendale, Fac. di Scienze Statistiche, Università’ “La Sapienza”, Roma; Direttore Responsabile Scientifico del Centro Studi Trasformazioni Economico-Sociali (CESTES) - Proteo.

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Analisi statistico-economica dei mutamenti strutturali e localizzativi dello sviluppo del sistema socio-economico italiano
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Analisi statistico-economica dei mutamenti strutturali e localizzativi dello sviluppo del sistema socio-economico italiano

Luciano Vasapollo

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1. Introduzione ad un’analisi socio-localizzativa del modello di sviluppo

Dal dopoguerra ad oggi si possono individuare molti modelli geografici e sociali dello sviluppo economico ed in particolare si nota il passaggio da un modello di progressiva concentrazione territoriale della produzione, del reddito e della popolazione, ad un modello di diffusione locale delle dinamiche di sviluppo che ha interessato aree a rilevanza intermedia. Ciò comunque non ha portato a ridurre gli squilibri Nord-Sud né ad una diminuzione delle fasce di povertà assoluta o relativa, dando luogo invece a forme di superamento della dicotomia causato sia dalla diversificazione economica delle regioni intermedie e dal rallentamento di quelle avanzate sia, soprattutto, evidenziando la nascita di nuovi soggetti sociali ed economici marginali ed emarginati. Si va approfondendo così il solco fra un Paese ricco e settori sempre più vasti di popolazione esclusa, precarizzata, vicino alla soglia di povertà; masse sociali spesso rese da tali processi di sviluppo talmente emarginate e povere da essere considerate fra i “nuovi miserabili” nella società dell’opulenza.

Tutti i periodi dello sviluppo economico del nostro Paese hanno creato una crescente differenziazione territoriale e sociale, poiché queste fasi accentuano i flussi migratori e i processi di urbanizzazione, i processi di espulsione dalle garanzie del reddito, con conseguenti fenomeni socio-economici che trasformano e modificano i rapporti centro-periferia in chiave geografica, e garantiti-non garantiti in chiave economica, accrescendo la schiera delle nuove marginalità, delle esclusioni, delle nuove povertà.

La ricerca che di seguito si presenta trova i suoi presupposti teorici e metodologici in tre precedenti studi dello stesso Autore (Vasapollo L., 1995a, Vasapollo L., 1995b, Vasapollo L.,1997) che si inseriscono nel filone d’indagine statistico-economica che analizza i processi dello sviluppo in Italia in relazione alla molteplicità e diversità economica esistente tra le varie parti del Paese, così da individuare l’evoluzione dei profili produttivi locali, i mutamenti geografico-territoriali della struttura economica nel suo complesso e le nuove figure sociali, i nuovi soggetti economici che si vengono a presentare all’orizzonte del panorama socio-produttivo dell’Italia del 2000.

Il lavoro ha richiesto un lungo iter preparatorio per assicurare l’omogeneizzazione dei dati (passaggio dalla classificazione ATECO 81 all’ATECO 91 con riporto alle funzioni, classi e sottoclassi della classificazione dei servizi Erba-Martini, 1988), e di lettura delle dinamiche produttive sui 291 mercati locali del lavoro mediante applicazione del modello ISERS sugli ultimi dati disponibili. Considerato che i dati definitivi dell’ultimo Censimento dell’industria e dei servizi (CIS ’91) sono stati pubblicati recentemente, si può certamente sostenere che il lavoro in oggetto è stato realizzato con i dati ufficiali definitivi più recenti a disposizione.

Il metodo d’analisi che si propone è fortemente innovativo, poiché all’analisi statica comparata della geografia della struttura economica fra1981 e 1991 aggiunge un’analisi della dinamica della funzione imprenditoriale, come verrà appresso specificato.

La ricerca si articolerà su una esaripartizione, secondo la classificazione Erba-Martini, delle attività produttive che non era stata possibile nel precedente studio (Vasapollo L., 1995a in cui si proponeva una suddivisione quadripartizionale delle attività economiche) poiché al tempo non era ancora disponibile la disaggregazione dei dati definitivi ISTAT dell’ultimo Censimento Generale del 1991. La disaggregazione di tali attività economiche in rami e classi sarà quella prevista dall’ISTAT per l’ultimo Censimento Generale, e i dati comunali sugli occupati saranno aggregati in riferimento alla partizione economica del territorio italiano in bacini occupazionali o “mercati locali del lavoro ISRIL”, (si veda la Fig.1; per il nome e l’individuazione dei 291 bacini occupazionali si veda l’Appendice) con una visione completa della struttura e composizione dei bacini stessi, che costituiranno le aree economiche di riferimento.

Si giungerà in tal modo ad individuare per gli anni ’90 la vocazione territoriale e la polarizzazione per ognuna delle sei attività economiche considerate. Si procederà quindi attraverso applicazioni di cluster analysis all’individuazione, a partire dalla classificazione esapartizionale, di più particolareggiate Zone Economiche Omogenee, così da esaminare e confrontare sistematicamente i profili produttivi dei diversi bacini occupazionali in cui è suddiviso il territorio italiano, analizzando le relazioni tra bacino e Zona d’appartenenza. In tal modo si potrà individuare con immediatezza l’evoluzione del profilo economico di ogni singolo bacino e per aggregazione delle varie Regioni e dell’intero Paese, partendo dalla mappatura della geografia dello sviluppo individuata in un’altra recente ricerca (Vasapollo L.,1997).

Successivamente, seguendo l’impostazione dell’altro studio dell’Autore, (Vasapollo L., 1995b) si procederà alla costruzione dei coefficienti di imprenditorialità, sempre riferendosi ai dati INPS ed ISTAT dell’ottobre 1991, tenendo conto della struttura dei bacini occupazionali e determinando tali coefficienti sia a carattere generale che a carattere specifico per le aree territoriali più significative, sempre in riferimento, all’analisi sulla geografia delle attività economiche.

Attraverso le tre analisi precedenti, riguardanti rispettivamente la polarizzazione delle attività economiche e la localizzazione e dinamicità della funzione imprenditoriale, si potranno delineare le evoluzioni strutturali, sociali ed economico-soggettuali e le trasformazioni a livello di geografia locale dello sviluppo economico complessivo del Paese.

L’obiettivo è fornire una mappatura del territorio nazionale per poter verificare l’eventuale presenza di comportamenti omogenei tra l’evoluzione delle attività economiche e gli specifici connotati della funzione imprenditoriale nelle varie partizioni territoriali, individuando se esiste relazione fra incrementi, o contrazioni, occupazionali e nuova imprenditorialità, nuove soggettualità produttive, e se effettivamente si verificano fenomeni di sviluppo imprenditoriale o se invece si tratta di forme nascoste di precarizzazione ed espulsione di forza lavoro mascherata da “finto lavoro autonomo” (il cosiddetto lavoro autonomo di seconda generazione). Si potranno in tal modo evidenziare localismi economici della complessiva struttura produttiva del Paese, sia in termini di dotazione di particolari attività economiche, di formazione di nuovi soggetti a cui spesso corrisponde lavoro atipico, precario con scarsi diritti, sia come presenza di corrispondenti dotazioni imprenditoriali originate in loco, reali o spesso false forme imprenditoriali derivanti dalla flessibilità, dalla mobilità e precarizzazione delle attività lavorative di tipo subordinato.

La geografia e i modelli della struttura economica complessiva così ottenuta permetterà un confronto tra sistemi produttivi locali fra loro diversi, fra nuovi soggetti che scaturiscono da tali processi, sistemi e soggetti spesso riportati ad unità ed omogeneità attraverso una distribuzione territoriale che evidenzia profili economici globali similari fra le varie zone del Paese e che individuano un mercato del lavoro sempre più flessibile e precario.

 

2. Le evoluzioni storico-economiche nei modelli localizzativi dello sviluppo produttivo italiano

Già dai tempi dell’unificazione dell’Italia è stata avvertita l’esigenza di classificare e raggruppare in collettivi omogenei, in aree a forte omogeneità economico-produttiva, le diverse zone del Paese per ottenere una mappa dettagliata del Paese Economico cui correlare programmi di sviluppo e organizzazione del lavoro e della società.

Già nel 1881 si ha uno dei primi tentativi di raggruppamento territoriale, con la nascita delle divisioni censuarie, costruite all’interno di ogni provincia, da cui, però, vengono separate le aree montane.

Al 1894 può essere fatto risalire il primo tentativo di suddivisione economico-territoriale con la costruzione di zone uniformi dal punto di vista agrario. Per zona si intendeva: una unità organizzativa interna ai fini della raccolta di notizie economico-demografiche sull’andamento della produzione e delle dinamiche occupazionali e demografiche in genere.

Nel 1910 appare il Primo Catasto Agrario in cui erano comprese 15 provincie coperte da rilevazione.

Nel 1929 ci fu una vera e propria spinta nell’analisi territoriale a partire dalla riforma del Catasto Agrario; si arrivò a identificare 735 zone di cui 276 di montagna, 294 di collina e 165 di pianura, tutte raggruppate con riferimento a caratteristiche generali omogenee. Ciò diede luogo alle Unità Circoscrizionali Uniformi, ritenute valide, oltre che per la determinazione dell’ottimizzazione della produzione agraria, anche per studi e ricerche circa le condizioni socio-economiche e demografiche delle varie aree del Paese, seppure sorgesse il problema dovuto all’accorpamento di zone a prevalente e intensa urbanizzazione con zone a forte caratterizzazione rurale.

Nel 1931 vi fu una prima revisione delle unità circoscrizionali che furono portate a 786, senza peraltro eliminare i problemi già evidenziati, anche perché non si vollero rompere le suddivisioni provinciali andando così a comprendere nella stessa unità territoriale comuni appartenenti a più regioni altimetriche.

Solo con il 1958 si giunge ad una vera e propria revisione e integrazione delle zone agrarie con la creazione delle Circoscrizioni Statistiche.

Si vuole ricordare che l’Italia del dopo guerra appariva fortemente caratterizzata sia dalle devastazioni proprie degli eventi bellici che da un’economia duramente provata da una politica monetaria disastrosa imposta dalle forze di occupazione. Nelle prime fasi della ricostruzione è possibile notare come il settore agricolo sia stato stimolato allo sviluppo da redditi relativamente elevati che derivavano dalla larga estensione del mercato nero e da forme istituzionalizzate di lavoro nero o lavoro a supersfruttamento e con la negazione dei più elementari diritti. Il settore industriale mostrava segnali di una ripresa assistita ostacolata dalla deficienza delle fonti di energia, dalla necessità di una riconversione degli impianti, dall’esaurimento delle scorte e da una manodopera mantenuta a bassi livelli salariali, forzando i processi migratori ed usando il ricatto continuo dei licenziamenti. Su queste basi economiche e con un settore dei trasporti quasi inesistente, lo sforzo della ricostruzione si è ripercosso sul commercio estero dando luogo a forti squilibri della bilancia commerciale.

Malgrado le molte interpretazioni della crescita economica italiana il periodo in cui prese l’avvio viene individuato nella metà degli anni ’50 e il suo primo stop nel 1963; sicuramente la chiave di lettura di questo periodo a sviluppo accentuato è da individuarsi nel basso costo della manodopera (emigrazione dalle campagne), nella compressione dei conflitti sociali ed in parte dalla possibilità di utilizzare a basso prezzo il know how prodotto all’estero. L’Italia sembra collocarsi come economia marginale di sistemi più avanzati. Il settore produttivo specializzato nel rifornimento di mercati esteri più ricchi trascurò i fabbisogni “più arretrati” del mercato nazionale attuando continui incrementi di produttività, con la conseguenza di una progressiva distruzione dell’agricoltura tradizionale e l’allontanamento della manodopera più giovane verso le grandi città del Nord.

Dal 1963, anno della prima accelerazione dei salari, inizia un periodo caratterizzato da una distribuzione della ricchezza a favore dell’impresa, e si determina un punto di svolta dello sviluppo italiano che declina verso una profonda crisi. La mancanza di una politica agricola adatta ad economie avanzate e la particolare applicazione in Italia della politica agricola della CEE, che favorì speculatori ed intermediari, unita all’insuccesso dell’industrializzazione del Mezzogiorno e all’accentuarsi dello sviluppo nel triangolo industriale, hanno dato origine a uno sviluppo difforme sul territorio.

È sulla base di questo presupposto che hanno trovato spunto ed incentivo una serie di studi volti a indagare lo sviluppo economico in ambito territoriale attraverso la costruzione di unità di rilevazione o aree geografiche di studio.

Da tale analisi del caso italiano del dopo guerra è stato così possibile sottolineare come tutti i periodi di intenso sviluppo abbiano determinato una crescente differenziazione territoriale e sociale legata agli squilibri internazionali e a quelli regionali, alle differenze tra centro e periferia e tra città e campagna. Le fasi di forte sviluppo implicano, infatti, una profonda trasformazione sociale giacché modificano in profondità la struttura propria della società. Sulla base di queste argomentazioni dagli anni ‘60 in poi sono stati elaborati numerosi modelli territoriali per consentire agli studiosi di rilevare tempestivamente le modificazioni socio-economiche intervenute in Italia.

Infatti nel 1965, sulla base dell’osservazione delle nuove modalità di sviluppo dell’economia italiana che implicavano una conoscenza più approfondita del territorio e delle attività produttive, si cercò un modello interpretativo del processo di organizzazione geografica dell’economia e del modello sociale di riferimento.

Il primo contributo è stato fornito da un lavoro presentato dall’Unione delle Camere di Commercio con il quale si è cercato di individuare aree a configurazione economica abbastanza uniforme che possano essere considerate come micro-economie del Paese omogenee al loro interno, da ciò il nome di: unitá omogenee.

Nel 1973 è stato proposto da M. Capuani, della commissione di programmazione economica delle CCIAA, un ulteriore sviluppo del concetto di unità omogenea pervenendo ad una mappatura economica del territorio nazionale. Sono state così individuate 343 aree intermedie tra province e comuni che rispondono al concetto di integrazione come legame di funzionalità esistente tra un dato centro urbano dotato di fondamentali servizi e i comuni che gravitano su tale centro in quanto utilizzatori dei servizi medesimi.

Se nel decennio ‘50-’60 caratterizzato dal cosiddetto “Miracolo economico” si assiste ad una concentrazione territoriale della produzione, in cui i flussi di capitale e lavoro sono indirizzati in prevalenza verso le aree già sviluppate, dall’inizio degli anni ‘70 si assiste invece ad una inversione della tendenza nella localizzazione dello sviluppo, a causa di una strategia di decentramento forzato attraverso una maggiore mobilità e flessibilità sociale e produttiva. Ciò ha comportato la ricerca di forza lavoro con più basso costo di riproduzione, fatto, questo, che ha cambiato l’organizzazione del ciclo produttivo, in specie per la piccola impresa, con produzioni ridotte e specializzate, modificando nel contempo i processi di riorganizzazione del conflitto sociale e di ricomposizione di classe.

Nel 1977, in pieno periodo di crisi energetica ed economica prende piede il modello interpretativo delle Tre Italie, proposto da Bagnasco [1], con l’intento di ricostruire la natura e il funzionamento di tre forme di economia e di modalità di sviluppo e le loro relazioni. Questo modello interpretativo parte dalla suddivisione del territorio nazionale in tre grandi aree geografico-economiche, diverse e connesse, ottenute attraverso un’analisi politica, economica e sociale non strutturata, basata sull’analisi di alcuni indicatori socio-economici. Le Tre Italie sono così identificate:

1) Nord-Ovest: caratterizzato dalla grande impresa che impone la propria centralità e quindi indirizza e determina il modello di sviluppo;

2) Centro Nord-Est: caratterizzato dalla piccola impresa con uno sviluppo a caratterizzazione locale attuato mediante forme socio-produttive particolari, imposte da quella parte di imprenditori che sfruttando le economie locali si ribellano al capitalismo delle grandi famiglie;

3) Meridione: caratterizzato da un sotto-sviluppo relativo, economia disaggregata e riorganizzazione in base a dipendenze esterne (economia marginale); un Sud che si configura come mercato coloniale, in cui l’arretratezza diventa del tutto funzionale, anche in termini occupazionali, alle determinazioni localizzative di tipo socio-produttivo da parte del capitale nazionale e delle scelte di politica economica basate sull’assistenzialismo, sulle clientele e sulla compressione e soffocamento di ogni forma di ricomposizione ed antagonismo di classe.

In questa fase del ciclo economico si evidenziano alcune tendenze:

a) passaggio dalla concentrazione alla diffusione territoriale;

b) inversione del processo di crescita delle dimensioni medie d’impresa e avvicinamento ad un modello di sviluppo imposto dal grande capitale europeo, in particolare funzionale ai processi di ristrutturazione del capitale francese e tedesco;

c) accentuazione del ruolo della piccola impresa con proliferazione di imprese piccole e medie con maggiori e diversificate forme di sfruttamento del lavoro (aumento dei ritmi, della produttività, cottimo, flessibilità salariale, esternalizzazione a lavoro nero di parti del processo di lavorazione, negazione dei diritti sindacali, ecc.);

d) accentuazione del modello di specializzazione dei settori tradizionali con aumento della produzione soprattutto dovuto a forti incrementi di produttività del lavoro, solo in minima parte compensati da incrementi salariali;

e) perdita progressiva di occupazione a causa della competitività interna che richiede sempre più manodopera specializzata, la quale comincia a rappresentare una sorta di aristocrazia operaia.

Le modifiche attuate con il processo di sviluppo degli anni ‘70 hanno comportato uno sviluppo industriale di aree periferiche con una profonda crisi e una necessaria ristrutturazione delle aree centrali, sebbene risultino attenuate le differenze dicotomiche tra regioni avanzate e arretrate (da imputare per lo più ad una crescita delle regioni periferiche del Centro Nord-Est).

È proprio in questa fase che l’impresa si decentralizza, si articola nel territorio, tanto da parlare di fabbrica diffusa, trasformando il soggetto lavoratore da operaio massa a operaio sociale e diffondendo nel contempo nuove dinamiche di marginalizzazione, determinando così nuove forme di scomposizione di classe.

Se il modello delle Tre Italie sostituisce la dicotomia Nord-Sud con una logica interpretativa che assume l’ipotesi di differenti modi di presentarsi dello sviluppo dell’Italia, le ipotesi di lavoro pongono il ricercatore di fronte all’esigenza di verificare non solo la struttura economica ma anche quella sociale delle tre aree individuate nonché le interrelazioni esistenti. Le Tre Italie sono così costituite da società specifiche diverse, sia per la struttura di classe sia per il sistema politico sia per i connotati culturali. Dalle relazioni fra le differenti formazioni sociali emergono tre tendenze o mutamenti astratti di organizzazione economico e sociale sul territorio rispetto alle quali non si possono determinare limiti geografici fissi. Così sorge la necessità di costruire categorie concettuali intermedie, si cominciano cioè a intravedere nuovi soggetti produttivi, nuove figure di classe che si differenziano dalla precedente omogeneità economica e culturale della classe operaia. Soggettualità relative ad ampie nuove aree socio-economiche che non è possibile considerare come omogenee in termini della loro struttura, ma come articolazioni di un sistema complessivo economico e istituzionale che si va ristrutturando in funzione del ruolo assegnato all’Italia dal capitalismo internazionale, dalla ridefinizione del rapporto capitale-lavoro nel nostro Paese.

Il modello interpretativo è allora riferito ad un quadro che accentua certi tratti e ne trascura altri, accorda situazioni in parte simili e divide ciò che è sfumato nella realtà. Le modalità dello sviluppo conducono a radicali cambiamenti sociali, alla trasformazione nel tempo e nello spazio delle relazioni sociali, a profonde modificazioni della struttura di classe e dell’intero quadro istituzionale.

Negli anni ’80, infine, tentativi innovativi per la suddivisione territoriale sono stati proposti da vari studiosi utilizzando dati spesso provenienti dai censimenti, per definire i distretti industriali. Ad esempio Sforzi distingue, ai fini di una politica economica, zone residenziali e zone produttive; queste ultime sono proposte come una sintesi ex ante delle interrelazioni tra struttura produttiva e territoriale in cui dall’analisi ed osservazione della realtà si evidenziano quelle di specializzazioni produttive che danno origine ai distretti.

Anche per la maggior parte degli studi della fine anni ’80 e inizio ’90 l’obiettivo fondamentale è quello di individuare le dinamiche localizzative del modello di sviluppo del Paese, anche se spesso prevale una forzata interpretazione che consiste nel porre i presupposti per un analisi economica dello sviluppo regionale al fine del riconoscimento dei Distretti Industriali Marschalliani (DIM) sul territorio nazionale. Il distretto industriale è identificato da Marshall come “interazioni interne ad un sistema di imprese di modeste dimensioni, spazialmente concentrate operanti in fasi diverse del processo produttivo con una certa popolazione, operaia e non, su un territorio di insediamento, industriale e residenziale relativamente ristretto.”

Si può in conclusione affermare che l’economia italiana si è sviluppata con delle caratteristiche particolari che comportano dei paradossi e delle contraddizioni.

Il boom economico degli anni ’50 ha visto la nascita di grandi famiglie capitalistiche che, passate indenni al processo di trasformazione economica-sociale post-conflitto mondiale, hanno inciso profondamente nelle modalità dello stesso sviluppo complessivo. L’industrializzazione che caratterizza questi anni ha comportato un divario tra il Nord e il Sud del Paese, determinato soprattutto dal fatto che mentre per il Settentrione si sono adoperate politiche di integrazione con gli altri Stati europei, il Mezzogiorno è invece rimasto sempre più isolato economicamente e socialmente. Ed è stata quindi la famiglia padronale, sia essa fondata su aristocrazie cittadine sia caratterizzata da un congiunzione solidale, ad essere la principale protagonista dello sviluppo economico del nostro Paese. Si è passati dall’affermazione della piccola e media impresa familiare allo sviluppo della grande impresa familiare che hanno rappresentato la colonna portante del nostro sistema economico.

Lo scenario che si presenta nella realtà italiana è quindi caratterizzato in primo luogo dalla presenza di grandi holding private (a carattere familiare con il supporto del manager); ci sono poi le imprese pubbliche che hanno sostenuto lo sviluppo ed infine un numero elevato di piccole e medie imprese le quali per la loro innovatività si caratterizzano per un elevato livello di efficienza.

Va rilevato che mentre nella piccola impresa i lavoratori e l’imprenditore provengono dallo stesso contesto socio-culturale, essendo a volte appartenenti allo stesso nucleo familiare, nella grande impresa basata su rapporti di gerarchia è invece presente un forte conflitto tra i diversi soggetti economici interessati. In sostanza nella piccola e media impresa vi è una presenza costante e continua dell’imprenditore-proprietario, invece, nelle imprese di grandi dimensioni, caratterizzate da una elevata concentrazione della proprietà, si verifica qualche caso di incrocio azionario tra le più grandi famiglie industriali del Paese.

Si assiste in sostanza ad una forma di imprenditoria di élite tipica delle grandi aziende, all’imprenditoria della piccola e media impresa ed infine all’imprenditoria assistita. Questa situazione fa risaltare lo storico problema delle “tre italie imprenditoriali”, in quanto gli imprenditori d’élite sono concentrati nell’Italia settentrionale, al centro troviamo un tipo di imprenditorialità diffusa mentre al sud si trova il cosiddetto “imprenditore assistito” legato al sistema politico.

Considerando che l’Italia fino alla seconda guerra mondiale era un paese basato su un’economia prevalentemente agricola, va segnalato che lo sviluppo industriale avutosi tra gli anni ‘50 e gli anni ‘70 si è concentrato solo su alcune zone del Paese senza estendersi alle aree più depresse. Negli anni ‘70 si attua il cosiddetto “decentramento produttivo” che scorporando alcune fasi del processo di produzione le indirizza verso imprese di minore dimensione. In questo senso la piccola impresa si caratterizza sempre più per una elevata indipendenza dalla grande azienda committente, in quanto si specializza e si caratterizza per la sua innovatività. Si realizza in sostanza una forma di industrializzazione diffusa che ha il vantaggio di associare i benefici della piccola dimensione con quelli della grande.


[1] Cfr. Bagnasco A., (1977).