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Pensare e agire nella crisi

MAURO CASADIO

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Per introdurre le tematiche dei convegni dell’Associazione Marxista Politica e Classe

Siamo a due anni esatti dalla nascita dell’Associazione e ci sembra di aver sviluppato in questo periodo un’attività diffusa ed utile al dibattito teorico, e non solo, che ci siamo prefissati di fare nell’ambito marxista. Oltre ai due convegni fatti nel corso del 2008, centrati sulla questione ambientale e sul sindacato, e quello fatto ad Aprile di quest’anno l’Associazione ha promosso sul territorio nazionale una serie di iniziative di dibattito e formazione. L’obiettivo era quello di ricostruire un tessuto culturale marxista tra i compagni ed i giovani che hanno sempre meno a disposizione strumenti di interpretazione degli eventi, alternativi a quelli forniti dalla cultura dominante e da una sinistra chiaramente senza più riferimenti. Tenendo conto della situazione attuale ci sembra che si riconfermi la necessità di riprendere quella battaglia culturale e teorica che fu alla base della scelta di dare vita all’associazione “Politica e Classe”, con un approccio unitario ed aperto, non propedeutico ad una improbabile unità politica ma finalizzato a ritrovare chiavi di lettura strutturale comuni. Battaglia questa da troppo tempo abbandonata e considerata inutilizzabile ai fini di quella politica basata solo sulla contingenza. Non si possono scindere i risultati politici, ma anche quelli elettorali, da una visione organica del mondo e delle sue contraddizioni. Il risultato di questa impostazione non può essere che quello della scomparsa di ogni ipotesi non solo di alternativa politica ma anche di semplice difesa della democrazia e dei diritti sociali, come peraltro hanno ampiamente dimostrato le ultime elezioni europee dove i partiti socialisti sono stati sonoramente sconfitti dai diversi centrodestra e dalla destra più reazionaria e xenofoba. Per tornare all’incontro promosso per oggi, ed in continuità con il convegno fatto a Roma lo scorso 4 Aprile, sappiamo bene che stiamo misurandoci con un nodo non solo complesso di per se ma che rischia di farci apparire fuori tempo, in quanto, parliamo di transizione in un contesto mondiale certamente problematico e che non mostra ancora le condizioni oggettive per un tale passaggio. C’è la possibilità di essere visti come degli utopisti, nella migliore delle ipotesi, oppure ideologici, estremisti ed altro ancora. Siamo ben coscienti dei rischi che corriamo ma riteniamo che sia giusto ribadire una linea di ricerca legata alla trasformazione rivoluzionaria della società attuale perché questa prospettiva non può essere rimossa da chi fa oggi riferimento al marxismo, nonostante le difficoltà a tutti evidenti, pena il venir meno dei nostri “fini sociali”. Se dobbiamo rilevare nella giusta dimensione le difficoltà che incontra la trasformazione della attuale società nondimeno ci dobbiamo nascondere le potenzialità che cominciano ad emergere ormai da qualche anno. Il movimento antimperialista che ha ripreso forza a livello mondiale e che nell’America Latina trova il suo momento di maggior chiarezza politica e strategica, addirittura con una affermazione che arriva fino ai livelli istituzionali in alcuni importanti paesi come il Venezuela, oppure la crisi finanziaria, economica e sociale che, ad appena venti anni dalla fine del socialismo reale, svela la realtà del sistema capitalistico e dei suoi limiti immanenti sono fatti che certamente non ci possono far dire di essere alla vigilia di una fase rivoluzionaria ma ci dicono altrettanto chiaramente che le ipotesi di modifica della realtà sociale non sono state affatto archiviate dalla “fine della Storia”. Questa realtà sempre più evidente è stata l’oggetto del convegno di aprile in cui abbiamo messo in evidenza “la Crisi e le Alternative”. La crisi economica, che ormai da due anni va avanti, alla faccia degli ottimisti, riproponendo questioni che si pensava fossero state archiviate dalla Storia, e le alternative che nascono dentro un processo contraddittorio, difficile ed affatto scontato nell’esito finale ma che ripropongono chiaramente la questione del Socialismo. Se così stanno le cose, e così a noi sembra, è d’obbligo farci una domanda: perché la sinistra e soprattutto i comunisti del nostro paese non affrontano, con un lavoro collettivo di ricerca, i nodi teorici e storici, che si sono proposti dentro l’assalto al cielo fatto nel ‘900, e che continuano a proporsi nelle attuali condizioni dove stanno maturando nuove ipotesi di trasformazione? La risposta che ci viene in mente non è buona in quanto nasce dall’impressione, francamente non superficiale, che il problema non è la difficoltà complessiva che pone questa questione ma il fatto che non si crede più possibile la trasformazione stessa, nonostante se ne continui a parlare. Ovvero gli antagonisti al capitale per definizione hanno talmente introiettato la sconfitta da rinunciare ad analizzare, conoscere e concepire le condizioni strutturali che rendono possibile oggi l’antagonismo stesso. Non stiamo facendo una facile accusa in quanto noi stessi, evidentemente, non siamo fuori da questa condizione oggettiva ma quello che non è possibile accettare è la rinuncia ad un punto di vista di classe che proprio in una fase di crisi complessiva, come l’attuale, mostra ancora tutta la sua vitalità. Anche noi abbiamo perciò ben chiare le difficoltà che ci troviamo di fronte e lo abbiamo verificato anche nella preparazione di questo convegno che più volte ha dovuto fare il punto con i diversi compagni impegnati nella sua preparazione. Non pensiamo certo di trovare risposte ma è proprio di fronte a questa difficoltà di merito che non bisogna fare passi indietro e rinunciare all’analisi ed alla critica; è proprio in questa condizione che bisogna mettere ancora più impegno per capire bene la situazione reale, le sue dinamiche e, forse soprattutto, i nostri limiti.

1. Un privilegio non desiderato Stiamo vivendo come marxisti un paradosso, infatti di fronte all’arretramento drammatico sia delle condizioni della classe a livello mondiale, sia della capacità soggettiva di essere agente reale possiamo usufruire di un tanto inaspettato quanto indesiderato “privilegio” teorico e analitico. Se mandiamo lo sguardo agli ultimi 30/40 anni possiamo vedere uno svolgere della Storia particolarmente veloce ed intenso. In questo scorcio di pochi decenni la fase di massima estensione del movimento comunista, di quello operaio ed antimperialista ha rapidamente ceduto il passo ad una ripresa dell’egemonia mondiale del capitalismo e del suo assetto sociale, e questo a sua volta, a pochi anni dalla sua affermazione incontrastata, ricomincia a mostrare le sue crepe forse ancora non palesemente strutturali ma certamente inaspettate ed improvvise. Questa evoluzione, che si è svolta e che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, ci dà la possibilità, se ne saremo capaci, di estrapolare le dinamiche di fondo dell’attuale assetto sociale, di comprenderle nelle loro odierne manifestazioni pratiche, di affinare e aggiornare gli strumenti di analisi del marxismo ed infine di tracciare una strada di ricostruzione che non sappiamo quanto sia lunga ma che sicuramente è fondamentale per una ripresa del movimento di classe a livello internazionale. Insomma pur non vivendo un periodo rivoluzionario forse oggi possiamo vedere quel fiume carsico prodotto dal Modo di Produzione Capitalista che porta alla continua accumulazione delle contraddizioni ed al loro esplodere. Non è certamente facile ripercorrere rapidamente e sinteticamente in modo soddisfacente e condiviso le diverse fasi che abbiamo descritto, comunque possiamo cercare di individuare quegli elementi centrali, funzionali al nostro confronto, e soprattutto individuare un percorso di analisi che non può che svilupparsi nel tempo. Il Socialismo come possibilità reale. Gli anni 60/70 sono stati il periodo dove si sono manifestate in modo acuto la crisi delle borghesie occidentali e le serie difficoltà dell’imperialismo americano. Questi si sono trovati, infatti, a confrontarsi con una situazione storicamente inedita, caratterizzata da un ampio fronte anticapitalista, che andava dai paesi dell’area socialista, trovava nel cosiddetto terzo mondo il punto più avanzato di scontro e arrivava fin dentro gli Stati capitalisti più avanzati con un conflitto di classe ed una classe operaia forte e organizzata seppure non necessariamente rivoluzionaria. A questa situazione ci si era arrivati dentro un percorso storico in cui si erano manifestate tutte le contraddizioni dello sviluppo capitalista maturato fin dai primi anni del ‘900 con l’affermazione dell’imperialismo nell’accezione leninista ma soprattutto perché era nata una soggettività rivoluzionaria che aveva avuto la capacità di condurre uno scontro internazionale forte . Accanto allo scontro politico e militare internazionale quello che appariva ben chiaro fin dall’inizio a questa soggettività, nata dal bolscevismo della rivoluzione russa, era la necessità di modificare la struttura del capitalismo avviando forme di organizzazione produttiva, sociale, politica e istituzionale radicalmente diverse. In termini pratici questo ha significato un impetuoso processo di industrializzazione a partire dall’esperienza sovietica, processo allargatosi nel tempo al resto dei paesi coinvolti nelle vicende rivoluzionarie che hanno necessariamente messo al primo posto un massiccio sviluppo delle forze produttive. Importante è stato in questo sforzo enorme l’intreccio tra impegno materiale ed il tentativo di modificare i rapporti sociali, ovvero il coinvolgimento dei popoli in quella fase di sviluppo è stato reale e decisivo per il raggiungimento degli obiettivi. A fianco dello sviluppo quantitativo delle forze produttive c’è stato anche, soprattutto nell’URSS, un forte impegno nella ricerca e nell’innovazione che è culminato nella corsa allo spazio producendo cosi sviluppo scientifico e tecnologico, egemonia internazionale ed amplificando ulteriormente la crisi dei paesi capitalisti guidati dagli USA. Questo sviluppo delle capacità produttive, della scienza e l’egemonia che indubbiamente esercitava il modello sovietico è riuscito a portare la minaccia rivoluzionaria fin sotto il cortile di casa dell’imperialismo USA, con la nascita della Cuba socialista. Possiamo dire che l’esperienza reale del socialismo del ‘900 ha dimostrato che era possibile raggiungere la prima barriera che si erano trovati di fronte i popoli coinvolti nei processi rivoluzionari, cioè quella dell’arretratezza. La capacità di accumulare in pochi decenni forze produttive tali da raggiungere il livello di sviluppo dell’occidente, maturato in circa 200 anni, sembrava una sfida vinta ed anche in modo definitivo. Se questo è stato per sommi capi il percorso storico del comunismo del ‘900 va anche detto che quello sviluppo conteneva in se una serie di contraddizioni maturate nel tempo, non viste e non interpretate nel modo giusto, anche a causa di assenza di una precedente esperienza storica, che hanno poi portato all’implosione di quel sistema e non ad una palese sconfitta politica o militare da parte dell’imperialismo. Contraddizioni strutturali che nel corso di quei decenni si sono manifestate attraverso conflitti interni, più o meno duri, al movimento comunista di cui il conflitto con la Cina di Mao ed il dibattito sull’economia avuto a Cuba negli anni ’60 ne sono un riflesso chiaro. Come altrettanto chiare sono state le deviazioni di “destra” manifestatesi sia nei paesi a socialismo reale che in occidente in diversi periodi. L’egemonia ritrovata. Se nel confronto con l’URSS il piano politico e militare sono stati importanti e per un certo periodo prevalenti nelle scelte occidentali, il terreno su cui è stata vinta, inaspettatamente anche per i paesi capitalisti, la partita è stato quello della produzione, della produttività ed in definitiva, ancora una volta, quello dello sviluppo delle forze produttive di nuovo sotto il segno del capitale. Se fino agli anni’60 è stata privilegiata la linea della risposta militare e repressiva verso i movimenti rivoluzionari ed i paesi socialisti, come è avvenuto nel Viet Nam, con i colpi di stato in America Latina e perfino in Europa in Grecia oltre che negli altri continenti, l’intensità del conflitto di classe internazionale raggiunta in quella fase ha imposto la necessità di recuperare l’egemonia persa sulla capacità di sviluppo piuttosto che sulla repressione e lo scontro militare. In questo senso la vera controffensiva nasce ancora una volta dalla produzione, centro dell’attuale modello sociale, dove vengono attuati quei processi che riportano i rapporti di forza a vantaggio del capitale. Il primo obiettivo posto è stato quello di ingenerare la disgregazione sociale e politica della classe operaia nei paesi industrializzati dell’occidente. All’inizio questa è stata imposta con politiche aggressive avviate dagli USA di Regan e dall’Inghilterra della Tatcher e poi estese in tutti i paesi occidentali inclusa l’Italia del pentapartito. Questa prima fase, di conflitto di classe dall’alto, ha creato le condizioni per introdurre modifiche strutturali alla produzione attraverso l’utilizzo degli sviluppi scientifici e tecnologici che hanno minato la capacità di resistenza della classe lavoratrice e dei suoi strumenti storici, partiti e sindacati. Di questi processi oggi ne conosciamo gli esiti molto bene, esiti che hanno portato ad una modifica radicale della composizione di classe e che hanno riproposto in pieno il comando del capitale sul lavoro tramite l’esternalizzazione delle diverse fasi della produzione di fabbrica, la precarizzazione diffusa, la riduzione dei redditi, il taglio della spesa sociale, la limitazione per legge del conflitto sociale ed altro ancora. Oggetto dei processi di riorganizzazione mondiale sono stati anche i paesi dell’allora cosiddetto terzo mondo coinvolti nei processi di finanziarizzazione internazionale tramite i prestiti dati dal Fondo Monetario Internazionale che se, da una parte stringevano in prospettiva un cappio al collo a quei popoli, sull’immediato sembravano aprire possibilità di sviluppo inaspettate. Questa è stata la contromisura usata dagli USA per contrastare negli anni ’80 il modello socialista che fino a quel momento era stato il riferimento dei regimi, non necessariamente comunisti, nati dalla lotta anticoloniale dei decenni precedenti. Infine il processo di riorganizzazione internazionale è approdato alla delocalizzazione produttiva, cioè della produzione fordista fino ad allora presente nei paesi occidentali, verso i paesi della periferia di cui la Cina e l’India ne sono l’esempio più evidente e consistente ma che riguarda anche i paesi dell’America Latina, altre zone dell’Asia e, relativamente alle necessità dell’Unione Europea, tutta l’area dell’Europa dell’est. Le condizioni per questo ultimo e decisivo sviluppo sono state da una parte la fine dell’URSS, che ha aperto spazi materiali di crescita per il capitale ed ha posto fine all’alternativa sociale che produceva instabilità politica. Dall’altra l’avvio della politica del debito degli USA che nasceva dalla riconquistata egemonia internazionale e dalla necessità di mantenere questa egemonia trainando i consumi interni e delocalizzando con un effetto di crescita economica della periferia produttiva. Scomposizione della classe lavoratrice nei paesi imperialisti, asservimento neocoloniale di intere aree del globo ridotte a fornitori di materie prime e produzione delle merci trasferita nei paesi posti alla periferia dell’assetto produttivo mondiale sono stati un salto quantitativo della capacità di produzione capitalista possibile solo grazie alla rivoluzione operata nel campo della scienza e della tecnologia. Alla rivoluzione sociale si è risposto con una capacità “rivoluzionaria” della borghesia di rilanciare lo sviluppo ai livelli qualitativi più alti; insomma di fronte alla ormai verificata possibilità di raggiungere per i popoli sfruttati la prima barriera posta dall’imperialismo, cioè quella della arretratezza, si è posta una seconda barriera che è stata quella del rilancio dello sviluppo inteso in termini generali con l’aumento della produzione e della produttività sociale. Questo “scatto in avanti” complessivo ha modificato di nuovo i rapporti di forza tra le classi a livello internazionale arrivando ad offuscare ideologicamente lo stesso conflitto di classe e riproponendo i rapporti sociali capitalisti come gli unici possibili. Una nuova inversione di rotta. Sono passati meno di 20 anni dal momento della “globalizzazione” del Modo di Produzione Capitalista e siamo di fronte ad una crisi che ha i caratteri della strutturalità e che propone tempi di risoluzione che non sono affatto brevi. L’aumento enorme delle capacità produttive e degli investimenti fatti, il venire meno della funzione della finanziarizzazione, che ha permesso la creazione di un mercato fittizio, la crisi del maggiore mercato di sbocco del mondo, cioè gli USA, sommerso dai debiti, l’intervento degli Stati fino a ieri indicato come il male peggiore ed oggi invocato a sostegno dei profitti delle imprese e delle rendite delle banche sono tutti segnali che ci dicono che la crisi che abbiamo di fronte è una crisi di sovrapproduzione che non potrà essere risolta facilmente; una crisi che si riverserà sui diversi popoli coinvolti scaricando su di loro i costi e gli effetti sociali in base alla loro posizione nella “filiera produttiva” mondiale e alla loro collocazione nel mercato. Le scelte che hanno portato alla riaffermazione della egemonia del capitale oggi diventano un limite per questo stesso sistema, l’aumento della produttività tramite la rivoluzione tecnico scientifica, l’internazionalizzazione della produzione e la competizione globale interimperialista, la riduzione dei redditi della classe lavoratrice internazionalizzata, si presentano tutti come limiti e difficoltà del processo di valorizzazione del capitale, tutto ciò per di più in assenza di un conflitto di classe che contribuisca ulteriormente ad inceppare un tale processo. A questa condizione generale si aggiunge una difficoltà che è data dalla dimensione che ha raggiunto oggi la produzione ed il mercato internazionale. Se la fine dell’URSS ha permesso l’apertura di spazi materiali di sviluppo fino ad allora inimmaginabili, oggi su una dimensione quantitativa ancora maggiore di 20 o 40 anni fa le vie di uscita per un sistema ormai mondializzato, che si basa solo sulla crescita quantitativa e del PIL, le soluzioni non possono che essere sempre più difficili e complesse. Chiediamo scusa per la sintesi estrema e l’approssimazione con cui abbiamo descritto fasi storiche piene di implicazioni di ogni tipo, ma la sintesi fatta, che reputiamo comunque valida nella sua essenza, fa emergere un filo rosso che troviamo sia nelle fasi rivoluzionarie che in quelle di controrivoluzione o di crisi che è quello della centralità del rapporto tra sviluppo delle forze produttive (dalla capacità rivoluzionaria della scienza a quella della Forza Lavoro) e rapporti di produzione. Questa centralità che è stata rimossa dalla elaborazione politica va invece assolutamente riconquistata se si vuole avere la possibilità di ritrovare un orientamento strategico per il movimento di classe internazionale ma anche per il nostro paese.

2. Teoria e conflitto di classe Avere a “disposizione” delle nostre analisi modifiche strutturali così importanti, rapide ed evidenti ci permette di fare un’opera di astrazione capace di evidenziare le dinamiche di fondo che ancora una volta, ci sembra, si riallacciano alla questione delle forze produttive e dei rapporti sociali di produzione e, in ultima analisi, ci forniscono gli elementi teorici per avere una corretta interpretazione. Ma non bisogna fare l’errore di pensare che questa analisi stia solo nel “cielo” della teoria, perché se questa è importante per individuare i movimenti storici diviene anche uno strumento utile per interpretare e capire le caratteristiche della attuale fase e degli effetti che questa potrà produrre. I tempi della crisi, il costo sociale ed i settori penalizzati, un nuovo ciclo di ristrutturazione produttiva, le nuove potenziali modifiche della composizione di classe nazionale, europea e internazionale sono le tendenze che possono essere estrapolate e interpretate in funzione del nostro versante del conflitto di classe; insomma la lotta di classe dall’alto, le modifiche del mondo del lavoro e del blocco sociale subalterno, i conseguenti problemi sociali e politici possono essere individuati solo su una solida base di interpretazione ad alto livello. E qui c’è, ancora una volta, la prova che la politica politicante, praticata con estrema bravura dal Bertinottismo, ma anche da una fetta maggioritaria della sinistra e dei comunisti dipendenti dalle istituzioni, non solo è inutile ma è dannosa per tutto il movimento di classe come hanno dimostrato ancora una volta le ultime elezioni europee. Dunque sul versante degli effetti della crisi, inclusi quelli politici, va capito come il capitale si predispone a superarla. Oggi siamo ancora in una fase di indeterminatezza dove si confrontano le posizioni che vogliono sostenere la continuità del liberismo con quelle che vedono la necessità di un intervento stabile dello Stato nell’economia in un ritrovato, ma crediamo improbabile, Keynesismo Roosveltiano. In realtà le caratteristiche della ristrutturazione si stanno in qualche modo già manifestando, non sappiamo se le vicende della FIAT e dell’industria dell’automobile mondiale rappresentino una tendenza generale ma certo sono un modo per affrontare la situazione. Innanzitutto viene portato a fondo il processo di asservimento dello Stato al capitale supportandolo finanziariamente nella contingenza e praticando tutte quelle politiche, a cominciare da quelle del lavoro, a sostegno della sua valorizzazione, incluso l’avvio di enormi opere pubbliche socialmente inutili. Per quanto riguarda direttamente i processi produttivi quello che si vede è una accentuazione della concentrazione delle imprese mondiali ed un rilancio della produzione tecnologicamente avanzata che nel caso dell’auto significa avviare produzioni “ecologiche”. Non sappiamo ancora se questa tendenza sarà quella vincente, se riporterà nei confini dei paesi imperialisti, in tutto o in parte, la produzione delocalizzata ma la scelta fatta va nel senso di una accentuazione della produttività generale. In questa direzione assume un carattere sempre più rilevante la questione della Scienza, che è uno dei punti che abbiamo voluto mettere al centro del dibattito odierno. Legarla, sempre più, all’incremento della produttività ed alla valorizzazione del capitale, anche tramite un condizionamento sempre più forte sulla formazione e la ricerca, accentua il carattere di classe di uno sviluppo scientifico in funzione della produzione di merci e di servizi, fino a quelli socialmente rilevanti come ad esempio la sanità. Questo carattere di classe sempre più accentuato ci spinge inevitabilmente a riflettere sul rapporto tra scienza e sviluppo complessivo delle forze produttive nel presente Modo di Produzione Capitalista ma anche sui tentativi di trasformazione sociale che sono stati fatti storicamente e che oggi ritrovano alcune condizioni oggettive e soggettive. Un sintomo di questa caratterizzazione di classe ci viene anche dalla ideologia che viene costruita attorno alla ricerca ed alla innovazione che viene concepita in primo luogo come condizione per l’attuale crescita economica, e così rappresentata ideologicamente. Solo dopo aver stabilito questa priorità ne vengono considerati gli eventuali vantaggi generali che ne può trarre la società nel suo complesso. I processi di riorganizzazione, il ruolo dello Stato e i nuovi sviluppi scientifici porteranno nei prossimi anni ad ulteriori evoluzioni della composizione di classe a livello mondiale, in base alla nuova divisione del lavoro internazionale, ed a nuove condizioni materiali della classe lavoratrice. Una fuoriuscita dalla crisi con queste caratteristiche in realtà non rappresenta una discontinuità verso le scelte fatte in passato e che hanno portato alla situazione attuale. Forse si può ipotizzare una ripresa, non sappiamo quanto lunga, ma è certo che i processi che si intravedono non potranno che portare ad una diminuzione del monte salari generale. Una tale prospettiva non potrà far altro che aggravare la crisi della valorizzazione, seppure con effetti diversificati nelle varie aree mondiali ed in relazione al ruolo che queste hanno nello scenario economico e nel contesto della competizione globale interimperialista. Nella prospettiva di fuoriuscita dalla crisi oggi va inserita anche la questione ambientale che assume un ruolo sempre più evidente non solo sul piano scientifico ma anche politico come dimostrano i conflitti sociali che si stanno generalizzando attorno a questo elemento. La contraddizione da un punto di vista logico è palese, infatti di fronte alla crescita esponenziale prodotta dall’economia si trova un sistema finito che è quello del nostro pianeta, questo non può che peggiorare l’andamento ciclico dell’economia che riproduce di per se periodicamente crisi strutturali più o meno profonde. Non possiamo sapere i tempi di manifestazione pratica di una tale contraddizione, questi possono dipendere da vari fattori tra cui anche quello dello sviluppo di una tecnologia in grado di gestire gli effetti della modifica ambientale. Ma se i tempi hanno una valenza politica e dunque non possono essere ignorati nell’azione pratica non di meno la questione ambientale mina ulteriormente le basi di uno sviluppo di per se tendenzialmente illimitato sul piano quantitativo. La scarsità delle fonti, a cominciare da quelle energetiche, il degrado ambientale complessivo e l’aumento conseguente dei costi che questi producono sono tutti elementi che si presentano in antagonismo alla crescita del Modo di Produzione Capitalista e ne presuppongono la crisi. Una tale contraddizione è evidente alla stessa borghesia internazionale che si sta predisponendo, almeno nelle intenzioni, a trasformare questo limite in una opportunità di crescita, sviluppando le tecnologie adatte a contenere gli effetti prodotti sul piano ambientale a cominciare dalla questione energetica, con il tentativo di trovare soluzioni alternative ai combustibili fossili. Gli ambiti di intervento da questo punto di vista sono molti ed ancora una volta la scienza si predispone ad una funzione di supporto di un sistema che di per se riproduce in continuazione danni all’ambiente e costi per tutta l’umanità. D’altra parte l’elezione di Obama, la vicenda dell’industria automobilistica USA, le guerre del petrolio spingono verso il tentativo di far divenire la questione ambientale il nuovo ambito di ripresa e sviluppo capitalista. Fare previsioni in questo senso non è facile ma non è neanche facile che il “business” ambientale abbia le potenzialità quantitative per poter rilanciare il ciclo, oltre la contingenza, su un piano storico; è difficile sia per gli interessi in campo costituiti a livello mondiale sia perché allo stato attuale i limiti della tecnologia non permettono un riciclaggio totale dell’apparato produttivo. Dunque è difficile fare previsioni certe per una fuoriuscita ambientale dalla crisi e della riuscita del disegno politico che Obama rappresenta, comunque in alternativa rimane il “collaudato” mezzo della distruzione di capitale che però aprirebbe prospettive ben più drammatiche per tutta l’umanità.