traduzione di Antonino Infranca
1. La desertificazione neoliberista
Le trasformazioni avvenute nel capitalismo recente in Brasile sono state profonde, particolarmente negli anni Novanta, il decennio della nostra desertificazione neoliberale, quando, con l’avvento del ricettario e della pragmatica disegnata con il consenso di Washington, si è scatenata un’onda enorme di deregolamentazioni nelle più distinte sfere del mondo del lavoro. C’è stato, anche, come conseguenza della ristrutturazione produttiva e del ridisegno della (nuova) divisione internazionale del lavoro e del capitale, un insieme di trasformazioni sul piano dell’organizzazione socio-teorica della produzione, avvenendo anche un processo di ri-territorializzazione della produzione, tra le tante altre conseguenze (Antunes, 2002 e 2006).
Questa realtà, caratterizzata da un significativo processo di ristrutturazione produttiva del capitale, ha fatto sì che la configurazione recente del nostro capitalismo fosse sufficientemente alterata, in modo che ancora non abbiamo una forma definitiva di ciò che sta avvenendo, coinvolgendo sia elementi di continuità che di discontinuità in relazione al suo passato recente. Indicheremo, allora, alcuni tratti particolari e singolari del capitalismo recente in Brasile, per presentare, in seguito, alcuni elementi analitici che aiutano alla comprensione del coinvolgimento della nostra formazione sociale, generatrice di livelli intensi di disoccupazione, precarizzazione, con le sue conseguenze più visibili, date dall’enorme contingente di lavoratori che vivono in condizioni di povertà e anche di miseria, in contrasto con la brutale concentrazione di reddito presente in Brasile.
Il capitalismo brasiliano si è sviluppato nel corso del XX secolo attraverso un vero processo di accumulazione industriale, specialmente a partire dal 1930, con il governo Getulio Vargas. Poté, allora, compiere il suo primo salto veramente industrializzato, visto che le forme precedenti di industria erano prigioniere di un processo di accumulazione che si realizzava dentro i limiti dell’esportazione di caffè, della quale l’industria aveva il ruolo di appendice.
Di taglio fortemente statale e di impronta nazionalista, l’industrializzazione brasiliana è finalmente decollata a partire dal 1930 e, successivamente, con Juscelino Kubtschek, alla metà degli anni Cinquanta, quando il livello di accumulazione industriale ha potuto compiere il secondo salto. Il terzo salto è stato sperimentato a partire dal golpe del 1964, quando si è accelerata fortemente l’industrializzazione e l’internazionalizzazione del Brasile.
Il paese si strutturava, allora, basandosi sul disegno produttivo bi-fronte: da un lato, rivolto alla produzione di beni di consumo durevoli, come automobili, elettrodomestici, ecc., puntando a un mercato interno ristretto e selezionato; dall’altro, prigioniero com’era di una dipendenza strutturale ontogenetica, il Brasile continuava anche a sviluppare la sua produzione rivolta all’esportazione, tanto di prodotti primari, come di prodotti industrializzati.
Per quanto concerne la dinamica interna del livello di accumulazione industriale, esso si strutturava per mezzo di un processo di supersfruttamento della forza lavoro, dato dall’articolazione tra bassi salari, giornata di lavoro prolungata e fortissima intensità dei ritmi di lavoro, dentro un livello industriale significativo per un paese che malgrado il suo inserimento subordinato, è arrivato ad allinearsi, in un dato momento, tra le prime otto grandi potenze industriali.
Questo livello di accumulazione, a partire dagli anni Cinquanta e specialmente durante la dittatura militare (1964-85), ha vissuto ampli movimenti di espansione, con alti tassi di accumulazione, dei quali la fase del “miracolo economico”, tra il 1968-1973, fu un’espressione. Il paese viveva, quindi, sotto il binomio dittatura e accumulazione, oppressione ed espansione.
È stato soltanto alla metà degli anni Ottanta, alla fine della dittatura militare, che questo livello di accumulazione, centrato sulla triade settore produttivo statale, capitale nazionale e capitale internazionale, ha cominciato a soffrire le prime alterazioni. Nonostante che si mantenessero seppure nei tratti più generici alcune misure vigenti, fu possibile assistere nel nostro paese all’inizio delle mutazioni organizzative e tecnologiche all’interno del processo produttivo e di servizi, anche a un ritmo più lento di quelli sperimentati dai paesi centrali, che vivevano intensamente la ristrutturazione produttiva del capitale e del suo corollario ideologico e politico neoliberale.
Se il Brasile ancora si trovava relativamente distante dal processo di ristrutturazione produttiva del capitale e dal progetto neoliberale, già in corso accentuato nei paesi capitalistici centrali, si iniziavano i primi influssi della nuova divisione internazionale del lavoro. La nostra singolarità cominciava ad essere colpita dai tratti emergenti universali del sistema globale del capitale, ridisegnando una particolarità brasiliana che poco a poco si è andata differenziandosi dal passato, inizialmente in alcuni aspetti e, successivamente, in molto tratti essenziali.
2. L’accumulazione flessibile
in “salsa” brasiliana
Fu, allora, durante gli anni Ottanta, che avvennero i primi impulsi del nostro processo di ristrutturazione produttiva, portando le imprese ad adottare, inizialmente in modo ristretto, nuovi modelli organizzativi e tecnologici, nuove forme di organizzazione sociale del lavoro. Si è osservata l’utilizzazione dell’informatizzazione produttiva; si iniziò ad usare il sistema just-in-time; nasceva la produzione basata sul team work, consolidava i suoi programmi di qualità totale, ampliando anche il processo di diffusione della microelettronica.
Si dava, anche, inizio in modo preliminare all’introduzione dei metodi denominati “partecipativi”, meccanismi che cercano il “coinvolgimento” (in verità adesione e subordinazione) dei lavoratori e delle lavoratrici ai piani dell’impresa. Si strutturava, anche in modo incipiente, il processo di ri-ingegneria industriale e organizzativa, i cui principi determinanti furono decorrenza: 1) delle imposizioni delle imprese transnazionali che portarono all’adozione, da parte delle loro sussidiarie in Brasile di nuovi modelli organizzativi e tecnologici, in maggiore o minore misura inspirati al toyotismo e alle forme flessibili di accumulazione; 2) nell’ambito dei capitali e dei loro nuovi meccanismi di concorrenza, si invocava la necessità delle imprese brasiliane di prepararsi a una nuova fase, marcata dalla forte “competitività internazionale”; 3) della necessità delle imprese nazionali di rispondere all’avanzamento del nuovo sindacalismo e delle forme di confronto e di ribellione dei lavoratori che cercavano di strutturarsi più fortemente nei posti di lavoro, a partire dallo storico sciopero dell’ABC paulista, dopo il 1978 e anche a San Paolo, dove era significativa l’esperienza dell’organizzazione di base nelle imprese. In modo sintetico si può dire che la necessità di elevare la produttività è avvenuta attraverso la riorganizzazione della produzione, la riduzione del numero dei lavoratori, l’intensificazione della giornata di lavoro degli occupati, il sorgere dei Circoli di Controllo di Qualità e dei sistemi di produzione just-in-time e kanban, tra i principali elementi.
Il fordismo brasiliano cominciava ad aprirsi ai primi influssi del toyotismo e dell’accumulazione flessibile. Durante la metà degli anni Ottanta, con il recupero parziale dell’economia brasiliana, si sono ampliate le innovazioni tecnologiche attraverso l’introduzione dell’automazione industriale su base microelettronica nei settori metalmeccanico, automobilistico, petrolchimico, siderurgico, bancario, tra tanti altri, configurando un grado relativamente elevato di differenziazione ed eterogeneità tecnologica e produttiva all’interno delle imprese, eterogeneità che è stata un segno particolare della ristrutturazione produttiva nel Brasile recente.
Fu negli anni Novanta, intanto, che la ristrutturazione produttiva del capitale si è sviluppata intensamente nel nostro paese, attraverso l’impianto di vari ricettari oriundi dell’accumulazione flessibile e dell’ideario giapponese, con l’intensificazione della lean production, del sistema just-in-time, kanban, del processo di qualità totale, delle forme di subcontrattazione e di terziarizzazione della forza lavoro, oltre al trasferimento di impianti e unità produttive. Allo stesso modo, si è verificato un processo di decentralizzazione produttiva, caratterizzata dai trasferimenti di impianti industriali al posto di imprese tradizionali, come l’industria tessile, sotto la spinta della concorrenza internazionale, si scatenava un movimento di cambiamenti geografico-spaziali, cercando livelli più ribassati di remunerazione della forza lavoro, accentuando i tratti di supersfruttamento del lavoro, oltre agli incentivi fiscali offerti dallo Stato.
Questo ci permette di indicare che, allo stadio attuale del capitalismo brasiliano, si combinano processi di enorme riduzione della forza lavoro, aumentati dalle modificazioni socio-tecniche nel processo produttivo e nell’organizzazione del controllo sociale del lavoro. La flessibilizzazione e la deregolamentazione dei diritti sociali, così come la terziarizzazione e le nuove forme di gestione della forza lavoro impiantate nello spazio produttivo, sono in corso in forma accentuata e presenti in grande intensità, indicando che il fordismo sembra ancora presente in vari rami produttivi e di servizi (Antunes, 2006).
Se è vero che la bassa remunerazione della forza lavoro -che si caratterizza come elemento di attrazione per il flusso del capitale straniero produttivo in Brasile- si può costituire, in qualche misura, come elemento ostacolante per l’avanzamento tecnologico in questi rami produttivi, dobbiamo aggiungere, d’altro lato, che la combinazione ottenuta dalla vigenza di modelli produttivi tecnologicamente più avanzati, aumentati da una migliore “qualificazione” della forza lavoro, offrono come risultato un aumento del supersfruttamento della forza lavoro, tratto costitutivo e marcante del capitalismo impiantato in Brasile, con l’ampliamento dei livelli di disoccupazione.
Con l’avanzamento della disoccupazione palese, che fin dal 1998 si trova oltre il 9% del totale della forza lavoro in Brasile, si può avere una dimensione quantitativa del processo di degradazione del lavoro nella periferia del capitalismo mondiale. Ma se prendiamo come riferimento la situazione più amplia della disoccupazione strutturale, come una pressione continua a causa della domanda di lavoro, il tasso di disoccupazione arriva a raggiungere il 27% della forza lavoro, una volta che si incorporano non soltanto la disoccupazione palese, ma anche i lavoratori con attività inferiori alle 15 ore settimanali e con la remunerazione sotto il mezzo salario minimo mensile e che chiedono occupazione.
Inoltre, si può anche considerare la dimensione qualitativa della disoccupazione, capace di caratterizzare meglio la valorizzazione dei lavoratori sotto la globalizzazione neoliberale. In questo caso, si constata che per l’insieme delle famiglie di basso reddito, per esempio, il tasso di disoccupazione in Brasile è salito dal 9,4% al 13,8% tra il 1992 e il 2002, mentre per i segmenti con maggiore remunerazione, la disoccupazione è salita più rapidamente, passando dal 2,6% al 3.9%. In questo senso, il totale di disoccupati appartenenti a famiglie di basso reddito è salito da 2,7 milioni, nel 1992, a 4,8 milioni, nel 2003, mentre nella classe media (che, in generale, presenta la maggiore scolarità) la disoccupazione, che colpiva 232.000 persone nel 1992, ha raggiunto il numero di 435.000, nel 2002.
In funzione di questo, la parte di forza lavoro appartenente a famiglie di basso reddito ha aumentato la sua partecipazione relativa al totale dei disoccupati. Nel 2002, per esempio, il 62% dei disoccupati appartenevano proprio a famiglie di basso reddito, con il restante diviso tra famiglie di classe media (32,4% del totale dei disoccupati) e di classe media alta (5,6% di questo totale). Così, in un mercato del lavoro che si restringe e che ha un comportamento poco dinamico, i lavori più nobili sono stati conservati per i segmenti di più alto reddito, nonostante la dimensione insufficiente per permettere la continua mobilità socio-professionale. Il risultato di questo è stato l’approfondimento della crisi di riproduzione sociale all’interno del mercato del lavoro. In forma emblematica, si percepisce il maggior peso dei lavoratori attivi all’interno della povertà brasiliana.
3. Disoccupazione, precarietà e
supersfruttamento del lavoro
Questo è ciò che possiamo constatare a partire dall’analisi dell’evoluzione della povertà in Brasile. Negli ultimi due decenni, si nota l’apparizione di una nuova forma di riproduzione della povertà, sempre più concentrata nel segmento di popolazione che si trova attiva all’interno del mercato del lavoro (disoccupazione e occupazione precaria).
In passato, per esempio, la situazione della povertà era più in relazione al segmento inattivo della popolazione (infanzia, anziani, malati, portatori di handicap gravi, tra gli altri). Così avere accesso all’occupazione nel mercato del lavoro era condizione quasi sufficiente per superare il limite della povertà assoluta.
In conseguenza delle alterazioni nel comportamento dell’economia nazionale, che è passata dall’apertura commerciale, finanziaria e produttiva a partire dal 1990, come frutto dell’adesione passiva e subordinata del Brasile alla globalizzazione neoliberale, la povertà ha sofferto un’importante inflessione, specialmente nella parte di popolazione inattiva. Quando si prende come riferimento la situazione della povertà secondo la condizione di attività della popolazione, si percepisce che essa è retrocessa proprio nei segmenti inattivi, con la caduta del 22% per gli inattivi con più di 10 anno di età e del 20,3% per gli inattivi fino a 10 anni di età.
Questi due segmenti di inattivi sono stati specialmente e direttamente beneficiati dalle innovazioni di politiche sociali derivate dalla Costituzione Federale del 1988. Già per l’insieme della popolazione attiva all’interno del mercato del lavoro, che dipende esclusivamente dal lavoro come determinante della situazione di vita e di reddito, il contesto è stato un altro. Tra gli anni 1989 e 2005, la disoccupazione è passata da 1,9 milioni di lavoratori (3% della popolazione lavorativa attiva) a 8,9 milioni (9,3% della popolazione lavorativa attiva), così come sono peggiorate le condizioni e le relazioni di lavoro. A causa di questo, si è alterata la composizione della povertà secondo la condizione di attività. In Brasile gli inattivi hanno perso partecipazione relativa nel totale della popolazione povera (dal 56,7% al 48%), in quanto gli attivi sono aumentati significativamente (dal 43,3% al 52%), soprattutto tra i disoccupati.
Se il criterio di analisi fosse il comportamento della povertà soltanto tra gli occupati di tutto il paese, si potrebbero osservare cambiamenti interessanti per lo stesso periodo di tempo. In tutte le posizioni nell’occupazione, la condizione di occupato è stato l’unica che ha registrato aumento del tasso di povertà. Tra il 1989 e il 2005, il tasso di povertà tra gli occupati è cresciuto del 53,9%. Per lo stesso periodo di tempo, il tasso di povertà tra gli occupati è caduto al 44,6%, tra gli autonomi è caduto al 26,7% e tra i senza remunerazione è caduto al 20,7%. Non senza motivo, la composizione totale dei poveri occupati in Brasile ha sofferto un’importante alterazione tra il 1989 e il 2005. Soltanto gli occupati come i non remunerati hanno aumentato la loro posizione relativa (54,8%), mentre gli occupati hanno registrato il maggior aumento nella loro partecipazione relativa (22,2%), seguiti dagli occupati (14,6%) e gli autonomi (3%).
4. Conclusione
Il presente saggio ha cercato di rendere evidente la principale forza responsabile dell’avanzamento più recente della decostruzione del lavoro nel mondo capitalistico. Malgrado il patrimonio di lavoratori abbia accumulato importanti guadagni nei cosiddetti “tre decenni gloriosi” del capitalismo del secondo dopo-guerra, si sono verificate più recentemente segnali di regressione nel grado di sicurezza del lavoro. La globalizzazione neoliberale ha rotto con il corso dell’occupazione e della protezione sociale ampliata installata in varie nazioni del mondo. Anche nella periferia del capitalismo, che mai ha registrato un livello di conquiste dei lavoratori equivalenti a quelle delle economie avanzate, ci sono stati miglioramenti importanti in relazione all’inizio del XX secolo. Attualmente, comunque, la situazione si è invertita, con il peggioramento nelle condizioni e relazioni di lavoro, anche nel centro del capitalismo. Nella periferia, la distruzione dei diritti del lavoro è diventata un’azione quasi continua, specialmente nei governi docili alla globalizzazione neoliberale.
Questo sembra molto evidente, quando si è cercato brevemente di descrivere i principali aspetti posti in relazione con l’alterazione della povertà in Brasile. Al contrario del ciclo di industrializzazione che era mosso dall’accelerata espansione della produzione e, per conseguenza, dell’occupazione e del reddito domiciliare pro capite, l’attuale ciclo economico nazionale è in asfissia in potenziale decrescita nel paese. Dagli anni Novanta, la caduta della proporzione dei poveri sul totale della popolazione è diventata soltanto possibile con l’avanzamento della spesa sociale, stimolata fondamentalmente dalla Costituzione Federale del 1988. Di fronte al disimpegno sfavorevole del mercato del lavoro, il segmento attivo della popolazione salariata è diventato molto più vulnerabile alla diminuzione delle condizione di vita e di lavoro. In questa forma, gli inattivi hanno smesso di corrispondere alla parte maggiore nel totale dei poveri del paese; i più poveri passano a concentrarsi nella popolazione attiva, specialmente i disoccupati e gli occupati precariamente nel mercato del lavoro; il che pone sfide profonde nella lotta alla povertà e anche alla miseria all’inizio del XXI secolo in Brasile.
Riferimenti bibliografici
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Professore ordinario di Sociologia nell’Istituto di Filosofia e Scienze Umane dell’Università di Campinas. Ha pubblicato, tra altri libri, Addio al lavoro? (Pisa, BFS edizioni., 2002) e Il lavoro in trappola (Milano, Jaca Book, 2006). Dirige la collana Coleç?es Mundo do Trabalho (Collezioni del mondo del lavoro) della casa editrice Boitempo e Trabalho e Emancipação (Lavoro e Emancipazione) della casa editrice Expressão Popular.
Professore dell’Istituto di Economia e ricercatore del Centro di Studi Sindacali e di Economia del Lavoro dell’Università di Campinas e autore, tra gli altri libri, di O emprego na globalização (São Paulo, Ed. Boitempo) e Atlas da Exclusão Social no Brasil (São Paulo, Cortez).