Organizzazione del lavoro e partecipazione dei lavoratori.
MAURIZIO ATZENI , PABLO GHIGLIANI
Appunti per una ricerca comparativa nell’ambito dei processi di autogestione
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Premessa
L’autogestione ha da sempre rivestito un’importanza fondamentale nell’ambito delle scienze sociali, considerata la complessità delle domande che essa pone con rispetto a modelli di produzione alternativi a quello capitalista. Per la teoria e pratica socialista, in particolare, l’autogestione è stata spesso vista come la forma più radicale e democratica di costruzione del socialismo dal basso ma allo stesso tempo come un processo fortemente limitato dal contesto di mercato nel quale le imprese autogestite si trovano a competere.
Recentemente il tema dell’autogestione è ritornato d’attualità sia perché centrale alle esperienze delle fabbriche occupate dai lavoratori in Argentina a cavallo con la crisi economica del 2001, che per la politica di espropiazione e affidamento in gestione ai lavoratori di imprese improduttive promossa dal governo venezuelano nell’ambito della costruzione del socialismo del XXI secolo. L’interesse per l’autogestione come strumento per la realizzazione delle politiche produttive alternative di sviluppo economico promosse dall’ALBA (Alternativa bolivariana para los Pueblos de las Americas) ha fatto poi riemergere tutta una serie di esperienze di autogestione ripetutesi in diversi paesi del continente (in particolare, Brasile e Uruguay) nell’arco degli ultimi due decenni. A tutto ciò si deve poi aggiungere la rivendicazione storica di Cuba sulla centralità della partecipazione dei lavoratori nella gestione dell’impresa nel sistema socialista.
La rivitalizzazione del dibattito e delle esperienze di autogestione nel continente latino americano lasciano comunque aperti tutta una serie di problemi connessi principalmente con la compatibilità delle esperienze di autogestione con un sistema di mercato oggi sempre più globale. Lo scopo della comparazione è dunque proprio quello di vedere fino a che punto la necessità dei lavoratori di competere con altre imprese influisce sui processi di democratizzazione e partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese. In questa prospettiva dopo aver brevemente analizzato le principali posizioni teoriche esistenti sull’autogestione, il presente articolo si propone di fungere da ponte tra i risultati di una prima ricerca realizzata nel 2006 sull’esperienza delle fabbriche occupate e autogestite in Argentina e le realtà di organizzazione del lavoro e partecipazione dei lavoratori nelle imprese cubane.
Aspetti teorici
Il tema dell’autogestione operaia per la sua importanza nell’ambito delle teorie sociali è stato oggetto di numerosi studi e dibattiti. Basti pensare all’analisi gramsciana sui consigli di fabbrica (Gramsci 1970), al dibattito anglosassone sul controllo operaio (Hyman 1974, Tomlinson 1980, Wajcman 1983), all’analisi storica sui consigli operai (Van der Linden 2004), all’esperienza di autogestione nel socialismo di mercato iugoslavo (Lebowitz 2006). Il dibattito sul potenziale emancipatorio del movimento cooperativo nell’ambito della produzione (Egan 1990), così come è stato sviluppato nella tradizione marxista, è però quello forse più utile nell’ambito della ricerca che ci stiamo proponendo.
Da un punto di vista teorico, il potenziale emancipatorio, che è implicito nel cooperativismo, può trasformarsi in veicolo per produrre un cambio sociale oppure è destinato a degenerare a causa della logica di mercato?
Marx aveva visto nelle cooperative di lavoratori una possibilità concreta per risolvere progressivamente la natura antagonistica del rapporto di lavoro capitalistico, dal momento che l’apparato di gestione e di controllo dell’impresa diveniva ‘una funzione del lavoro invece che del capitale’ (Egan 1990: 71). Per Marx, la cooperativa di lavoratori ‘era la dimostrazione pratica di come il capitale non fosse necessario come mediatore della produzione sociale’ (Lebowitz 2003: 89), e quindi che la relazione salario-lavoro fosse solo una forma sociale transitoria. Allo stesso tempo, Marx aveva spesso sottolineato i limiti che le cooperative potevano trovare all’interno di un sistema di mercato capitalistico, dal momento che queste ‘riproducono e devono riprodurre naturalmente nella loro organizzazione tutto l’insieme di caratteristiche proprie del sistema dominante’ (Marx 1967: 440).
L’opinione di Bernstein sulle cooperative di lavoratori era in qualche maniera ambigua. Da un lato, criticava le cooperative di produzione industriale. Per lui, queste ultime erano associazioni finalizzate alla vendita ed allo scambio e che tendevano a creare interessi oligopolici contrari a quelli della comunità (Bernstein 1899). Inoltre considerava che la concorrenza di mercato avrebbe distorto il sistema di democrazia interna condannandole in definitiva al fallimento. Dall’altro lato, riteneva invece che le associazioni di consumatori, contribuendo a mantenere bassi i prezzi ed i profitti avrebbero potuto difendere meglio gli interessi dell’intera comunità ed allo stesso tempo proteggere le cooperative industriali dalla concorrenza del mercato. Quindi la combinazione di questi due tipi di associazioni era considerata da Bernstein favorevolmente in quanto strumento per un graduale cambio sociale.
Rosa Luxemburg era invece apertamente contraria a questo programma di tipo riformista. Sottolineava il carattere ibrido delle cooperative - dal momento che queste ‘possono essere descritte come piccole unità di produzione socializzata all’interno del sistema di scambio capitalistà (Luxemburg 1900); allo stesso tempo riteneva che nessuna cooperativa di consumatori a la Bernstein, avrebbe potuto incoraggiare lo sviluppo di associazioni tra i lavoratori nei più importanti settori di produzione industriale. Dal momento che le cooperative erano ‘totalmente incapaci di trasformare il modo di produzione capitalistico’ (Luxemburg 1900), la Luxemburg metteva in evidenza il fatto che l’unico modo per farle sopravvivere e per difenderne il contenuto democratico all’interno del capitalismo fosse ‘di isolarle artificialmente dall’influenza delle leggi di libera concorrenza’ (Luxemburg 1990), esattamente quella funzione che doveva essere svolta dalle associazioni di consumatori nel modello di Bernstein.
A seguito di questo dibattito, nella maggior parte delle analisi marxiste le cooperative sono state considerate in modo piuttosto negativo. Il lavoro di Mandel è quello che forse ha maggiormente contribuito a questo tipo di sviluppo. Dal suo punto di vista, non aveva senso parlare di autogestione fintanto che questa si limitava a singole imprese operanti sul mercato. Di conseguenza, le strategie rivoluzionarie costruite facendo perno sull’occupazione delle fabbriche e l’autogestione dovevano essere considerate come utopie che di fatto negavano il ruolo dello Stato nel garantire il dominio del capitalismo (1970, 1974).
Questa prospettiva negativa è stata di recente rimessa in discussione in particolare sottolineando come il potenziale democratico e radicale proprio delle cooperative di lavoratori, date certe condizioni, possa mantenersi anche all’interno di una economia di mercato. Per esempio, Egan (1990) ha sostenuto che la relazione tra le cooperative ed il mercato capitalistico sia mediata dalle relazioni di forza tra classi. Fin tanto che ‘il settore cooperativo si sviluppa in un contesto radicale di auto organizzazione della classe operaia, può acquisire quella forza materiale e coscienza cooperativa necessaria per sopravvivere in un ambiente ostile’ (Egan 1990:82).
Sulla stessa lunghezza d’onda, utilizzando il concetto gramsciano di guerra di posizione, Baldacchino (1990: 475) ha sostenuto la necessità di utilizzare una strategia di tipo ‘contro-istituzionale’ diretta a ‘diluire o contrarrestare le fonti di degenerazione’ del contenuto democratico dell’autogestione. Entrambi gli autori riconoscono i limiti imposti dal sistema di mercato anche alle esperienze più radicali di autogestione ma allo stesso tempo non trascurano gli ‘sviluppi qualitativamente importanti che l’esistenza di questo tipo di organizzazioni rappresentà (Egan 1990: 76) e di come rafforzarle attraverso una strategia adeguata.
Nell’insieme tutti questi dibattiti mostrano come nell’analisi dell’autogestione non si debba isolare, dal punto di vista teorico, la sfera della produzione dalle relazioni che i lavoratori stabiliscono nella sfera della circolazione per l’acquisto della materia prima e dei componenti, per vendere i loro prodotti e per riprodurre se stessi e le loro famiglie.
Molto spesso questo aspetto non viene preso in considerazione e per quanto formalmente si riconosca l’esistenza di limitazioni all’autogestione derivanti dal mercato, di fatto poi questi fattori strutturali cedono il passo a spiegazioni di tipo soggettivo. Al contrario il punto di partenza teorico che noi sosteniamo è che ‘così come il capitale è il mediatore nella relazione salario-lavoro, separando quindi il lavoratore dalla proprietà della sua forza lavoro, dal suo lavoro come attività e dal prodotto del suo lavoro- nella stessa maniera il capitale è il mediatore tra i lavoratori che ricevono un salario in ogni momento del circuito del capitale (Lebowitz 2003: 88). Pertanto, nelle fabbriche autogestite si raggiunge l’obbiettivo di sostituire il capitale come mediatore tra il lavoratore e la sua forza lavoro, che altrimenti dovrebbe essere venduta come merce, e ciò sia nella direzione e controllo della produzione, sia nella proprietà di quanto prodotto dall’attività di lavoro. Però, i lavoratori in autogestione non possono evitare la mediazione del capitale nella sfera della circolazione in quanto si trovano sempre costretti a comprare e vendere, collettivamente come produttori e proprietari di mezzi di produzione, e individualmente per la propria riproduzione.
Sulla base di queste premesse teoriche, la nostra ricerca comparativa, considerando diverse realtà produttive e tipi di relazione con il mercato, vuole dimostrare empiricamente come e fino a che punto l’operare all’interno di un sistema capitalistico basato sulla concorrenza può mediare e distorcere i principi democratici, anti-autoritari e partecipativi propri dell’autogestione.
2. Organizzazione del lavoro e sistema
decisionale nelle fabbriche in
autogestione: l’esperienza argentina
Molte delle problematiche teoriche appena menzionate trovano riscontro nelle recenti esperienze di autogestione prodottesi in Argentina a partire dal 2001, nel contesto di una profonda crisi economica. In un precedente articolo apparso su Proteo (3.2006/1.2007) abbiamo già avuto modo di analizzare nel dettaglio queste esperienze, la loro origine, le finalità, i cambi nell’ organizzazione del lavoro ed il livello di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale.
Il punto che in questo articolo ci sembra però più importante sottolineare, soprattutto in chiave comparativa, ruota attorno al ruolo del mercato come mediatore di questi processi. In un sistema di mercato la regola e condizione per sopravvivere è quella di competere con altre imprese. Questo fatto di per se’ produce come conseguenza la necessità di adattare l’organizzazione del lavoro ed il sistema decisionale a criteri, che in quanto fondati sulla ricerca del massimo profitto (necessità e non opzione!), riducono fortemente gli spazi per istanze democratiche e participative.
A ciò si aggiunga che i lavoratori delle fabbriche in autogestione in Argentina hanno dovuto affrontare il mercato partendo da una situazione decisamente sfavorevole. Senza capitale di investimento, ereditando fabbriche fatiscenti, con ritardo tecnologico, sull’orlo della bancarotta e nell’incertezza circa la loro posizione legale.
Questo contesto ha pertanto condizionato l’esperienza delle imprese autogestite distorcendo e modificando i tentativi inizialmente portati avanti dai lavoratori per introdurre un nuovo modello di organizzazione del lavoro più arricchente, egualitario ed inclusivo ed un sistema decisionale più democratico e partecipativo.
La volontà dei lavoratori di introdurre forme di gestione più democratiche, senza l’esistenza di un sistema formale e verticale di controllo e di concepire l’autogestione operaia come un sistema più orizzontale e partecipativo, si scontra con la necessità dell’impresa di competere in un ambiente che è per sua natura non democratico, autoritario, diseguale. Come conseguenza, emergono costantemente delle contraddizioni tra le determinazioni soggettive dei lavoratori e gli ostacoli creati dal sistema, che cospirano contro la pratica dell’autogestione. Nella quotidianeità della vita dell’impresa appariranno pertanto una serie di eventi, connessi alla necessità di competere sul mercato, che condizioneranno le decisioni dei lavoratori: scadenze stabilite dai clienti, decisioni rapide su nuove opportunità d’affari, risoluzione dei problemi di mal funzionamento delle macchine, approvvigionamento della materia prima e via dicendo. Questo insieme di eventi a loro volta determineranno una separazione via via sempre più netta tra lavoro manuale e intellettuale e quindi tra produttori e addetti alla commercializzazione. Autogestione in un’economia di mercato ha significato infatti per i lavoratori la necessità di trasformarsi anche in venditori della propria produzione: trovare nuovi mercati, mantenere relazioni commerciali con fornitori e clienti, pubblicizzare i loro prodotti, ottenere crediti dalle banche, occuparsi della contabilità.
La necessità di creare una funzione commerciale, piu di ogni altro aspetto mette in evidenza il processo attraverso il quale la logica di mercato influenza il sistema di decisione e organizzazione nelle imprese autogestite. Un fattore oggettivo, la necessità di vendere sul mercato e di mantenere relazioni commerciali con i clienti, impone la creazione della gestione commerciale e condizioni materiali che spingono verso la delega e la specializzazione. Per chi si occupa della gestione commerciale rispondere al mercato diventa l’obbiettivo principale. Quindi un’attitudine soggettiva, ma imposta da un fattore strutturale, orientata al pragmatismo commerciale viene successivamente riprodotta nel discorso e nella pratica che domina sul posto di lavoro, ricreando pertanto le condizioni per una supremazia della logica di mercato. Data l’importanza che la vendita dei prodotti ha per la sopravvivenza dell’impresa, chi si occupa della gestione commerciale tende ad aumentare il proprio potere rispetto a coloro che si occupano della produzione.
Attraverso quest’ultimo esempio e considerando il grado di penetrazione della logica di mercato nell’ordinaria amministrazione delle imprese autogestite, potremmo domandarci fino a che punto i lavoratori potranno resistere e se in definitiva esista una seppur minima compatibilità tra i principi democratici ed egualitari dell’autogestione e la competizione sul mercato.
Senza voler necessariamente dare una risposta esaustiva a questo interrogativo, su cui generazioni di socialisti si sono confrontati come abbiamo visto sia sul piano teorico che pratico, può valer la pena considerare il ruolo dello Stato ed un contesto politico o di relazione di classe favorevole come quei due fattori che certamente incidono sul grado di effettività e profondità dei processi di autogestione. Il maggiore o minore grado di coinvolgimento e di sostegno statale in particolare può creare delle condizioni che maggiormente tutelano o addirittura avvantaggiano le imprese operanti con l’autogestione. L’intervento statale, sia in forma di capitali che di supporto alla formazione o di creazione di mercati protetti, limiterebbe l’ambito di influenza del mercato e favorirebbe pertanto il consolidamento di forme organizzative e di decisione più democratiche e partecipative. Nell’ambito del nostro progetto di ricerca comparativa sull’organizzazione del lavoro e la partecipazione dei lavoratori nell’ambito dei processi di autogestione in America Latina, il caso dell’Argentina si è caratterizzato per una assenza quasi totale dello Stato che, soprattutto agli inizi, si è preoccupato più di difendere la legalità del diritto di proprietà che la difesa dell’occupazione. Al contrario, lo stato di mobilitazione sociale permanente associato con la crisi politico economica esplosa nel 2001 ha creato un terreno fertile e di solidarietà del quale le imprese recuperate ed autogestite hanno potuto beneficiare. Oggi, con una situazione economica di crescita, un ambiente politico più stabile ed un parziale e tardivo riconoscimento formale da parte dello Stato dell’importanza avuta dai fenomeni di autogestione nel mantenere l’occupazione di quasi 10000 lavoratori, il futuro dell’ autogestione delle fabbriche recuperate dai lavoratori sembra sostanzialmente dipendente, una volta di più, dal libero ed arbitrario operare del mercato. Per tutte queste caratteristiche il caso argentino può essere visto come quello nel quale lo Stato non ha sostanzialmente svolto alcun ruolo e dove pertanto la dinamica del mercato ha prima creato i presupposti per l’occupazione delle fabbriche e la loro autogestione e successivamente ha influito e limitato le determinazioni soggettive dei lavoratori.
Nel nostro progetto di ricerca comparativa, partendo dall’ esperienza del caso argentino in cui lo Stato ha avuto un ruolo marginale, vogliamo ora considerare lo stato attuale e le prospettive dell’ organizzazione del lavoro e della partecipazione dei lavoratori nelle imprese cubane e ciò sia per la supremazia nel campo economico e sociale che lo Stato ha da sempre mantenuto a Cuba che per il valore ‘intrinsecamente’ socialista dato alla partecipazione dei lavoratori nell’organizzazione delle imprese.
Organizzazione del lavoro e
partecipazione dei lavoratori nelle
imprese cubane: contesto e prospettive
A Cuba il peso delle relazioni di tipo mercantile è stato parzialmente controbilanciato dal sistema di pianificazione socialista, utilizzato fino ai primi anni 80 e poi ufficialmente abbandonato già prima della caduta del blocco sovietico. Questo sistema, basato sul modello centralizzato di tipo sovietico, non ha certo favorito la partecipazione dei lavoratori nella gestione dell’impresa e ciò nonostante questa sia considerata di importanza fondamentale nella costruzione del socialismo reale e per il rafforzamento della coscenza rivoluzionaria.
Oggi, l’apertura di Cuba al mercato globale fa emergere nuove contraddizioni. Infatti, se da un lato ciò le ha permesso di sopravvivere alla caduta del Blocco sovietico e mettere in discussione tutte le ‘leggi’ della globalizzazione, dall’altro ha significato la penetrazione nelle imprese cubane di concezioni di gestione proprie dell’economia di mercato. Questo si può osservare in particolare nei modelli cosi chiamati di ‘eficiencia empresarial’ adottati già in numerose imprese e per i modelli di gestione importati ed utilizzati nelle imprese miste o straniere. Allo stesso tempo anche l’egualitarismo del sistema salariale sembra essere rimesso in discussione, con un salario sempre più individualizzato e legato a criteri di produttività ed efficienza.
Naturalmente, pensare di rendere immune Cuba da qualsiasi relazione di tipo mercantile sembra oggi ancor più distante che nei primi anni della rivoluzione quando en el gran debate sobre la economia cubana si discuteva di incentivi morali e materiali.
Il problema che a noi interessa è però di vedere come, nonostante questi oggettivi condizionamenti, aumentati dalla crescente disparità di ingresso tra cubani con e senza CUC, lo Stato cubano possa comunque svolgere un ruolo propositivo e di tutela della partecipazione dei lavoratori nella gestione dell’impresa. Mettere in evidenza gli strumenti concreti attraverso cui lo Stato si oppone alla penetrazione del mercato nel sistema economico e sociale cubano potrà poi servire, più in generale, per valutare la capacità di resistenza della rivoluzione a Cuba. Allo stesso tempo e nell’ambito della nostra ricerca comparata sui modelli di partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese l’esempio di Cuba ci servirà per mostrare come, nonostante un contesto di relazioni di mercato oggi estese globalmente, ed a differenza di ciò che è avvenuto in Argentina, lo Stato svolga un ruolo fondamentale di indirizzo politico ed economico i cui effetti son sentiti anche nei luoghi di lavoro.
3. Alcune linee di indagine
Sulla base di quanto precedentemente detto è possibile elencare una serie di ipotesi di lavoro
1) Considerando le conclusioni della nostra ricerca sull’esperienza dei lavoratori delle fabbriche in autogestione in Argentina: in che senso è possibile affermare che la logica di mercato stia penetrando nelle imprese cubane? Che contraddizioni ciò può creare dal punto di vista della partecipazione dei lavoratori all’organizzazione del lavoro ed al sistema decisionale dell’impresa?
2) Che funzione svolgono i sindacati nella diffusione del principio della partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa?
3) Come si riflette nei luoghi di lavoro l’esistenza nella società cubana di un sistema di decisioni ‘dal basso’ e di partecipazione diffusa?
4) Che strumenti esistono oggi a Cuba per rafforzare la partecipazione dei lavoratori?
5) Che relazioni esistono tra efficienza, produttività e partecipazione dei lavoratori?
6) È possibile stabilire delle differenze tra diversi settori/sistemi di gestione?
Riferimenti bibliografici
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Loughborough University, Inghilterra Labouragain
Universidad de la Plata, Argentina Labouragain