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Lo sviluppo socialmente sostenibile

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Mauro Cristaldi
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Naturalista, docente di Anatomia Comparata, Fac. di Scienze Mat., Fis. e Nat., Univ. di Roma “La Sapienza”

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Il dominio globale del mondo USA: come paradigma la “guerra umanitaria” contro la Jugoslavia

Mauro Cristaldi

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E’ l’orrore delle armi atomiche che ci ha dato la

gloria dell’energia atomica, ed è la gloria della

ricerca biologica che potrà darci l’orrore della

guerra biologica.

Desmond Morris. Lo zoo umano (1969)

 

Ma noi viviamo in un’epoca in cui è proprio il

naturalista che riesce a vedere più chiaramente

certi pericoli. Spetta dunque a lui predicare.

Konrad Lorenz.

Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, 1973

 

Ma può anche darsi che gli umani avessero

lasciato atrofizzare quell’altra capacità che noi

ratti possediamo da sempre, la volontà di vivere.

In breve, non ci provavano più nessun gusto.

Gunter Grass. La ratta (1987)

 

1. Introduzione

 

L’uso di fraseologie equivoche (“guerra lampo”, “guerre stellari” “desert storm”, “guerra umanitaria”, “missili intelligenti”, ecc.) per la formale giustificazione, perpetrata dalla Grande Stampa codina, di guerre impari e ingiuste come quelle dei Balcani, potrebbe riproporsi e a lungo perpetuarsi, dal momento che l’informazione continuerà ad essere, a pagamento degli utenti, il tramite per pubblicizzare prodotti commerciali spesso di dubbia qualità. Tale uso, mentre lusinga il lettore verso un atteggiamento apparentemente critico ma concretamente gestito dai media, lo colloca nel mondo virtuale dello spettacolo. Esso permette anche nel frattempo che le moderne guerre-notizia contro i diseredati continuino, che la contaminazione ed il rischio territoriale siano soltanto affare di altri (quindi privato! Perciò non si riesce mai esplicitamente ad ammettere che un cancro abbia origini ambientali!), magari in nome di qualche presunto interesse nazionalistico perseguito da interessi più forti ma estranei alla nazione stessa (cfr. guerre in Croazia e Bosnia, ruolo dell’UCK in Kossovo e dell’indipendentismo ceceno per il controllo del petrolio caucasico). Lo scopo ultimo è la marginalizzazione delle opposizioni di movimento e di organizzazione capaci di contrastare concretamente gli abusi con adeguate forme di lotta. A tale uso dell’informazione, acutamente criticato da Martocchia (1999) nel recente libro “Imbrogli di guerra”, si può rispondere con una informazione scientifica che lasci pochi spazi all’equivoco, ma che si sappia avvalere degli strumenti critici forniti dalla moderna scienza osservazionale e sperimentale (sensu Mayr, 1982)

In questo ambito l’interpretazione geografica rappresenta il metodo sintetico più’ completo per visualizzare razionalmente la dinamica dei rapporti tra gli uomini nel tempo (storia) e nello spazio (territorio), da quelli economici (risorse naturali e produttive), a quelli culturali (aspetti etno-antropologici e religiosi), a quelli bio-ecologici (sanità, ambiente), in quanto l’uomo stesso rappresenta più o meno direttamente il più potente fattore di modificazione ambientale in atto; ciò, sia nei periodi cosiddetti di pace, i quali a loro volta non rappresentano altro che i tempi in cui si preparano le guerre, sia nei periodi di guerra conclamata. Infatti, in un sistema geopolitico essenzialmente basato sulla sopraffazione e non sulla cooperazione, la guerra, come evento estremo di regolazione dei rapporti politici, rappresenta condizione intrinseca del sistema stesso, che può essere solo opportunamente rinviata, ma non elusa (non sorprende quindi nemmeno, in questo contesto, che gli uomini politici peggiori vengano selezionati positivamente come rappresentanti popolari).

Questi presupposti ci dovrebbero far riflettere criticamente non solo sulla apparente alternanza di guerra e pace (con tutti gli equivoci costruiti, per esempio, sulla pretesa differenza tra un nucleare di pace e un nucleare di guerra), ma anche sulle modalità per riuscire a capovolgere il quadro negativo del sistema politico globale, affinché possano venir privilegiati gli aspetti collaborativi basati sulla diversificazione degli apporti in campo sociale, economico ed ambientale. Presupposti inoltre che ci consentono di interpretare le dinamiche di una guerra moderna con i suoi perfezionati aspetti di interazione negativa con le risorse naturali e intellettuali, le quali oggi ancora ci consentono di vivere, almeno nel mondo occidentale, come specie a notevole impatto complessivo sulla biosfera, accanto a numerose altre componenti biologiche. Esse ormai, rispetto al passato, sono maggiormente decifrabili attraverso le loro rispettive caratteristiche nell’ambito della biocenosi, intesa come insieme di organismi viventi in un dato ambiente, potendo essere caratterizzate da pesi relativi interpretabili in termini di diversità biotiche. Queste a loro volta costituiscono l’indice di una data condizione ambientale (naturalità, isolamento, impatto, contaminazione) e l’occasione per istituire reti di monitoraggio ambientale, da adibire finalmente agli studi preventivi di situazioni di rischio che si vanno sempre più generalizzando. Sembra paradossale, ma l’atteggiamento del padronato e dei gestori della politica di governo, una volta apparentemente (dopo Chernobyl), o meglio strumentalmente, sensibili ai problemi ambientali, se non altro per le guerre e gli embarghi che li hanno visti complici (Libia, Cuba, Iraq, Jugoslavia, ecc.), nell’arco di un decennio si saranno volontariamente orientati verso la scelta, sicuramente di minor costo occupazionale e tecnologico, di rinviare il problema alle belle occasioni in cui si disquisisce sui problemi ambientali ai fini elettorali.

E’ proprio il controllo di questi aspetti della politica ambientale di guerra, con il conseguente sfruttamento delle risorse ai fini speculativi, effettuato con poderosi mezzi tecnologici, mediante la regia delle forze economiche dominanti, attraverso l’uso strumentale dei propri scienziati e tecnici, e per il tramite dei propri rappresentanti politici, costituisce nel tempo la chiave di interpretazione dei fenomeni di trasformazione orizzontale del sistema, in cui le occasionali ripercussioni nei disastri ambientali non costituiscono altro che la risultante più estrema del sistema complessivo. Se il fenomeno di estremo degrado a cui si giunge attraverso gli eventi limite costituisce la parte macroscopicamente più evidente ed emotivamente coinvolgente, si deve tuttavia constatare che a questi eventi seguono necessariamente fenomeni di riassestamento radicale che creano novità progressive, anche se nell’ambito di un progressivo depauperamento delle risorse. Così preconizzava S.M. Stanley nel 1982: “Un giorno la guerra nucleare potrà spopolare la Terra, lasciandosi alle spalle piccole popolazioni isolate, forse con alterazioni genetiche, che potrebbero anche dar vita a una nuova razza divergente o, magari, a una nuova specie della famiglia umana”. Però, a quanto sembra (De Maria & Mangolini, 1984) si calcola che sia praticamente nulla questa modesta possibilità di affrancamento dell’uomo a seguito di una guerra nucleare. Perciò il deterrente nucleare deve essere dosato e momentaneamente il passaggio dall’uso dell’uranio impoverito, di cui parlerò dopo, al nucleare tattico potrebbe permettere almeno in parte alle forze strategiche di recuperare all’uso le testate ancora in giacenza: proprio in questo senso gli strateghi del Pentagono staranno considerando con rinnovata speranza il conflitto India-Paskistan.

La filosofia che passa è quella per cui se non siamo i responsabili, per lo meno, in quanto uomini, siamo complici del disastro, solo per il fatto di appartenere tutti alla stessa specie. E’ quindi come se la ricaduta dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo preconizzata da Marx ed Engels (1848) non si attui più contro la classe borghese che lo ha reificato, ma in definitiva il conflitto si sposti estendendosi a tutta la biosfera, che tuttavia inconsapevolmente ancora si riequilibra, rendendolo tuttavia sempre meno compatibile con le proprie “inesauribili” risorse. Oggi sappiamo infatti che le risorse produttive non sono inesauribili (Lovins, 1979) e che razionalmente esse dovrebbero essere controllate, tutelate e gestite, in questo caso veramente a beneficio di tutti. Di Fazio (1999) ci dimostra che i tempi di questa ultima sfida all’umanità e con essa alla biosfera non sono poi così lunghi, anche se nel frattempo paradossalmente l’unico stato che possiede, direttamente o indirettamente, la maggior parte delle risorse globali (e quindi, secondo logica, non dovrebbe affatto reclamare!) è l’unico che si permette di perpetrare guerre distruttive di tipo continentale, le cui conseguenze non potranno che ricadere anche su di esso (ma in questo caso gli altri le subiranno senz’altro prima!).

Infatti da qualche tempo gli apparati di dominio militare del mondo, si stanno preparando a particolari tipi di guerre in cui il deterrente non e’ costituito più soltanto dall’eliminazione fisica del nemico (dal tempo delle guerre coloniali costituito essenzialmente dalle popolazioni civili, più che dai militari, come ci ricorda anche Elisabetta Donini nel recente libro “Imbrogli di guerra”), ma essi vengono sperimentalmente programmati ai fini di una guerra di logoramento di tutte le componenti territoriali in un’area strategica (genocidio, biocidio ed ecocidio). Rispetto a questo scopo tali apparati operano per rendere compatibili tutti gli interventi capaci di provocare danni duraturi nel tempo, meglio se progettualmente controllabili dal regime aggressore, tramite sistemi di studio e di simulazione che rendano nel tempo i dominatori registi degli eventi.

Di qui gli studi sugli organismi modificati da introdurre, non solo come armi biologiche, ma magari assieme agli aiuti umanitari o tramite un qualsiasi prodotto commerciale (ricordiamo il caso del latte Nestlè), in un paese da colonizzare, allo scopo di condizionarne le scelte, ed intanto mettere a punto adeguate sperimentazioni. I mezzi di convincimento non mancano; se ancora quelli genetici devono essere perfezionati, ne sono già disponibili altri: ricatti economico-finanziari (debiti, sanzioni, embargo), sugli approvvigionamenti alimentari (con gli organismi modificati al momento disponibili, come la soja), sull’assistenza sanitaria (resa magari necessaria a seguito di contaminazioni da azioni belliche) e così via. Un’area di sperimentazione attualmente resa disponibile dal conflitto, il Kossovo, presenta molte caratteristiche favorevoli in tal senso.

Ma, se ipoteticamente si volesse prescindere dalle guerre, si prospettano in un non troppo lontano futuro (Di Fazio, 1999) eventi epocali catastrofici (eventi climatici globali, contaminazione e degrado irreversibili, incremento demografico), intrinsecamente legati alla rapidità dei fenomeni di origine tecnologica succedutisi nel secolo ed alla latente ed irreversibile risposta da parte dei cicli naturali. Se tali eventi non dovessero venir alterati da ulteriori fattori che ne accelerino il prevedibile declino (guerra nucleare, guerra mondiale o altro evento catastrofico globale), ovvero di altri, di meno probabile accadimento, che lo decelerino (economia di solidarietà e di sostegno al posto dell’economia di mercato, controllo delle tecnologie e quindi dei conflitti, tutela primaria della salute e dell’integrità ecosistemica, provvedimenti immediati contro i gas serra, corretta politica alimentare e demografica), si profila per la vita sulla terra, nell’arco di cinquant’anni e con scarsi margini di errore, una fase di crisi globale che porterebbe in definitiva al degrado generalizzato delle risorse alimentari e della qualità del germoplasma dei viventi, a eventi degenerativi con elevata ricaduta epidemiologica, fino al drastico calo demografico per molte specie, compresa quella umana. I fattori presi in esame da Di Fazio al Global Dynamics Institute sono: il riscaldamento globale con discrepanze degli aumenti locali di temperatura, da cui deriverebbe l’insorgenza di eventi meteorologici estremi, lo scioglimento progressivo dei ghiacciai, l’innalzamento complessivo del livello del mare fino ad un metro circa, la conseguente infiltrazione marina delle falde acquifere costiere, la contrazione del manto forestale tropicale, la desertificazione, la variazione delle riserve idriche, l’aumento delle malattie tropicali nelle fasce temperate, il calo conseguente della produzione agricola, i profughi del clima. In definitiva le forme di dimensioni maggiori, e quindi di più complessa adattabilità, sembrano destinate a lasciare il posto a quelle più semplici, senz’altro più idonee a resistere in una biosfera che procede verso il susseguirsi di alterazioni di incerta governabilità.

Alcuni Autori attribuiscono tale degrado genericamente ad un cattivo uso della scienza (cfr. Lorenz, 1973 e più recentemente Martocchia, 1999), trascurando che la scienza rappresenta il risultato più significativo ottenuto nella storia della conoscenza razionale ed essa al più non può che arrivare alla prevedibilità probabilistica dei sistemi; i risultati della scienza possono raggiungere lo sfruttamento delle risorse, e quindi essere implicati negli interessi di mercato, soltanto nel momento che, interagendo con l’economia, la scienza diviene tecnologia e quindi viene trasformata in prodotto tecnologico. Altvater (1997) fa notare che “L’aumento della produttività non può essere raggiunto senza un aumento del consumo di risorse naturali” e questo processo può avvenire tramite la ricerca e l’aumento progressivo delle conoscenze, che tuttavia possono anch’essi conoscere dei limiti. La King (1986) aveva peraltro sottolineato che “Molto più ardua da demistificare è la nozione di tecnologia come semplice strumento: né buono né cattivo ma neutrale, morale soltanto nella misura in cui lo è chi se ne serve”. In effetti il problema di tutte le tecnologie sta nel mancato controllo sociale preventivo attuato in nome dell’economia di mercato; infatti i rischi e i danni di qualsiasi tecnologia vengono determinati sempre a posteriori “in corpore vivi”, dopo cioè che si sono già manifestati ed hanno colpito lavoratori, consumatori, ambiente, per cui sec. Maccacaro l’epidemiologo, che non riesce più a far attuare la prevenzione primaria, si trasforma in definitiva in becchino del sistema.

E’ ormai evidente secondo Di Fazio (1999) che la crisi globale in atto si debba far risalire alla responsabilità dei paesi occidentali, con gli USA in testa, ed al conflitto razionalmente perseguito contro i paesi ad economia pianificata per il controllo di quelli sottosviluppati, il quale ha recentemente portato all’instaurarsi di un impero politico-militare unipolare, recentemente denominato da Vasapollo (1999) “Profit Global NATO”. La estremizzata logica della concorrenza di mercato di matrice anglosassone, ma in vigore nei rapporti interstatali anche nei paesi del logoro campo socialista, ha in definitiva depauperato le risorse del globo, creato condizioni di inquinamento chimico e radioattivo sovente irreversibili in diversi territori, sconvolto gli equilibri climatici, ecosistemici e genetici, come ho recentemente esposto in un intervento nel Quaderno Cestes n°3 (Cristaldi, 1999). L’organizzazione politico-economica che ha determinato tale deriva strutturale si è “trincerata” (sensu Collingridge, 1985) ormai completamente con un muro di apposite leggi, convenzioni ed accordi più o meno legali (da rispettare solo in caso di convenienza) ed ha strozzato i paesi del Terzo mondo verso una economia di miseria e di guerra. I paesi occidentali, sulla base delle proprie esigenze di consumo ossessivamente estremizzate verso il superfluo, man mano che le risorse si andavano riducendo a causa di falsi bisogni e sprechi indotti nelle rispettive popolazioni, hanno stabilito una linea politica di aperta aggressione contro i popoli del Terzo mondo, accusati di elevati tassi riproduttivi e conseguentemente migratori non commisurati né con le oramai depauperate ed espropriate risorse autoctone né con i livelli di vita dei popoli occidentali. Quali potrebbero essere le risposte conseguenti in una situazione senza uscita indotta da una logica di mercato che non conosce limiti? Presa di coscienza rivoluzionaria, come in Chapas; aumento della resilienza biologica e delle masse di diseredati come massa di pressione verso i paesi ricchi; carestie e malattie verso un rischio epidemiologico generalizzato diretto anche contro i paesi ricchi (cfr. caso dell’HIV, retrovirus agente dell’AIDS, dall’Africa). Aldo Sacchetti nel 1987 infatti preconizzava: ”La manipolazione dei geni e la creazione in laboratorio di nuove forme microbiche potrebbero, per esempio, regalarci pandemie peggiori di quelle che pensavamo relegate nel passato. Le tecno-catastrofi, siano esse belliche o pacifiche (distinzione inessenziale per le vittime), rivelano la dimensione antibiologica dello sviluppo industriale”. Non si può dimenticare, in questo contesto, la funesta ipotesi, mai definitivamente ricusata, per cui l’agente dell’HIV sia stato ottenuto a partire da microrganismi geneticamente modificati volutamente immessi in popolazioni africane, ai fini sperimentali del controllo demografico, e poi diffusamente e disomogeneamente generalizzato per contagio sessuale agli altri paesi del mondo; da cui gli enormi profitti per le case farmaceutiche. Seguendo tali esempi, se ne deduce che gli effetti biologici di tutte le armi radioattive ed di parte di quelle chimiche si potrebbero diffondere attraverso il corredo genetico degli stessi organismi mediante i normali meccanismi riproduttivi e di trasmissione ereditaria.

I paesi del cosiddetto “socialismo reale” invece, in tempi di “indotta ingenuità”, non avevano trovato di meglio, accettando la logica imposta dalla controparte in nome del libero mercato, che rimettere il proprio malgestito potere in mano ai comitati d’affari dei paesi capitalistici, impiegando per un’ultima volta dogmaticamente (Garroni, 1999) quella razionalità logica che contraddistingue le basi del pensiero dialettico marxista, ma rendendo così ai propri popoli un servizio ancora peggiore che se avessero comunque mantenuto tale potere.

Dal punto di vista teorico intanto il determinismo scientifico era divenuto comodo solo a posteriori solo perché era riuscito a dar ragione delle cause di fenomeni già avvenuti (es.: spiegazione dell’evoluzione biologica). Ma è vero d’altra parte che la possibilità di previsione scientifica degli eventi nelle scienze politiche, sociali e naturali è soggetta a condizioni di notevole approssimazione, a causa dei livelli di complessità generalmente troppo elevati ed in cui ciascun fattore di variabilità, anche secondario, in un dato momento ed in interazione con altri fattori, può divenire preponderante. Probabilmente di qui il fallimento nella pratica (cfr. un articolo dell’autore al convegno nazionale AIRP del 1994).