Il dominio globale del mondo USA: come paradigma la “guerra umanitaria” contro la Jugoslavia

Mauro Cristaldi

E’ l’orrore delle armi atomiche che ci ha dato la

gloria dell’energia atomica, ed è la gloria della

ricerca biologica che potrà darci l’orrore della

guerra biologica.

Desmond Morris. Lo zoo umano (1969)

 

Ma noi viviamo in un’epoca in cui è proprio il

naturalista che riesce a vedere più chiaramente

certi pericoli. Spetta dunque a lui predicare.

Konrad Lorenz.

Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, 1973

 

Ma può anche darsi che gli umani avessero

lasciato atrofizzare quell’altra capacità che noi

ratti possediamo da sempre, la volontà di vivere.

In breve, non ci provavano più nessun gusto.

Gunter Grass. La ratta (1987)

 

1. Introduzione

 

L’uso di fraseologie equivoche (“guerra lampo”, “guerre stellari” “desert storm”, “guerra umanitaria”, “missili intelligenti”, ecc.) per la formale giustificazione, perpetrata dalla Grande Stampa codina, di guerre impari e ingiuste come quelle dei Balcani, potrebbe riproporsi e a lungo perpetuarsi, dal momento che l’informazione continuerà ad essere, a pagamento degli utenti, il tramite per pubblicizzare prodotti commerciali spesso di dubbia qualità. Tale uso, mentre lusinga il lettore verso un atteggiamento apparentemente critico ma concretamente gestito dai media, lo colloca nel mondo virtuale dello spettacolo. Esso permette anche nel frattempo che le moderne guerre-notizia contro i diseredati continuino, che la contaminazione ed il rischio territoriale siano soltanto affare di altri (quindi privato! Perciò non si riesce mai esplicitamente ad ammettere che un cancro abbia origini ambientali!), magari in nome di qualche presunto interesse nazionalistico perseguito da interessi più forti ma estranei alla nazione stessa (cfr. guerre in Croazia e Bosnia, ruolo dell’UCK in Kossovo e dell’indipendentismo ceceno per il controllo del petrolio caucasico). Lo scopo ultimo è la marginalizzazione delle opposizioni di movimento e di organizzazione capaci di contrastare concretamente gli abusi con adeguate forme di lotta. A tale uso dell’informazione, acutamente criticato da Martocchia (1999) nel recente libro “Imbrogli di guerra”, si può rispondere con una informazione scientifica che lasci pochi spazi all’equivoco, ma che si sappia avvalere degli strumenti critici forniti dalla moderna scienza osservazionale e sperimentale (sensu Mayr, 1982)

In questo ambito l’interpretazione geografica rappresenta il metodo sintetico più’ completo per visualizzare razionalmente la dinamica dei rapporti tra gli uomini nel tempo (storia) e nello spazio (territorio), da quelli economici (risorse naturali e produttive), a quelli culturali (aspetti etno-antropologici e religiosi), a quelli bio-ecologici (sanità, ambiente), in quanto l’uomo stesso rappresenta più o meno direttamente il più potente fattore di modificazione ambientale in atto; ciò, sia nei periodi cosiddetti di pace, i quali a loro volta non rappresentano altro che i tempi in cui si preparano le guerre, sia nei periodi di guerra conclamata. Infatti, in un sistema geopolitico essenzialmente basato sulla sopraffazione e non sulla cooperazione, la guerra, come evento estremo di regolazione dei rapporti politici, rappresenta condizione intrinseca del sistema stesso, che può essere solo opportunamente rinviata, ma non elusa (non sorprende quindi nemmeno, in questo contesto, che gli uomini politici peggiori vengano selezionati positivamente come rappresentanti popolari).

Questi presupposti ci dovrebbero far riflettere criticamente non solo sulla apparente alternanza di guerra e pace (con tutti gli equivoci costruiti, per esempio, sulla pretesa differenza tra un nucleare di pace e un nucleare di guerra), ma anche sulle modalità per riuscire a capovolgere il quadro negativo del sistema politico globale, affinché possano venir privilegiati gli aspetti collaborativi basati sulla diversificazione degli apporti in campo sociale, economico ed ambientale. Presupposti inoltre che ci consentono di interpretare le dinamiche di una guerra moderna con i suoi perfezionati aspetti di interazione negativa con le risorse naturali e intellettuali, le quali oggi ancora ci consentono di vivere, almeno nel mondo occidentale, come specie a notevole impatto complessivo sulla biosfera, accanto a numerose altre componenti biologiche. Esse ormai, rispetto al passato, sono maggiormente decifrabili attraverso le loro rispettive caratteristiche nell’ambito della biocenosi, intesa come insieme di organismi viventi in un dato ambiente, potendo essere caratterizzate da pesi relativi interpretabili in termini di diversità biotiche. Queste a loro volta costituiscono l’indice di una data condizione ambientale (naturalità, isolamento, impatto, contaminazione) e l’occasione per istituire reti di monitoraggio ambientale, da adibire finalmente agli studi preventivi di situazioni di rischio che si vanno sempre più generalizzando. Sembra paradossale, ma l’atteggiamento del padronato e dei gestori della politica di governo, una volta apparentemente (dopo Chernobyl), o meglio strumentalmente, sensibili ai problemi ambientali, se non altro per le guerre e gli embarghi che li hanno visti complici (Libia, Cuba, Iraq, Jugoslavia, ecc.), nell’arco di un decennio si saranno volontariamente orientati verso la scelta, sicuramente di minor costo occupazionale e tecnologico, di rinviare il problema alle belle occasioni in cui si disquisisce sui problemi ambientali ai fini elettorali.

E’ proprio il controllo di questi aspetti della politica ambientale di guerra, con il conseguente sfruttamento delle risorse ai fini speculativi, effettuato con poderosi mezzi tecnologici, mediante la regia delle forze economiche dominanti, attraverso l’uso strumentale dei propri scienziati e tecnici, e per il tramite dei propri rappresentanti politici, costituisce nel tempo la chiave di interpretazione dei fenomeni di trasformazione orizzontale del sistema, in cui le occasionali ripercussioni nei disastri ambientali non costituiscono altro che la risultante più estrema del sistema complessivo. Se il fenomeno di estremo degrado a cui si giunge attraverso gli eventi limite costituisce la parte macroscopicamente più evidente ed emotivamente coinvolgente, si deve tuttavia constatare che a questi eventi seguono necessariamente fenomeni di riassestamento radicale che creano novità progressive, anche se nell’ambito di un progressivo depauperamento delle risorse. Così preconizzava S.M. Stanley nel 1982: “Un giorno la guerra nucleare potrà spopolare la Terra, lasciandosi alle spalle piccole popolazioni isolate, forse con alterazioni genetiche, che potrebbero anche dar vita a una nuova razza divergente o, magari, a una nuova specie della famiglia umana”. Però, a quanto sembra (De Maria & Mangolini, 1984) si calcola che sia praticamente nulla questa modesta possibilità di affrancamento dell’uomo a seguito di una guerra nucleare. Perciò il deterrente nucleare deve essere dosato e momentaneamente il passaggio dall’uso dell’uranio impoverito, di cui parlerò dopo, al nucleare tattico potrebbe permettere almeno in parte alle forze strategiche di recuperare all’uso le testate ancora in giacenza: proprio in questo senso gli strateghi del Pentagono staranno considerando con rinnovata speranza il conflitto India-Paskistan.

La filosofia che passa è quella per cui se non siamo i responsabili, per lo meno, in quanto uomini, siamo complici del disastro, solo per il fatto di appartenere tutti alla stessa specie. E’ quindi come se la ricaduta dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo preconizzata da Marx ed Engels (1848) non si attui più contro la classe borghese che lo ha reificato, ma in definitiva il conflitto si sposti estendendosi a tutta la biosfera, che tuttavia inconsapevolmente ancora si riequilibra, rendendolo tuttavia sempre meno compatibile con le proprie “inesauribili” risorse. Oggi sappiamo infatti che le risorse produttive non sono inesauribili (Lovins, 1979) e che razionalmente esse dovrebbero essere controllate, tutelate e gestite, in questo caso veramente a beneficio di tutti. Di Fazio (1999) ci dimostra che i tempi di questa ultima sfida all’umanità e con essa alla biosfera non sono poi così lunghi, anche se nel frattempo paradossalmente l’unico stato che possiede, direttamente o indirettamente, la maggior parte delle risorse globali (e quindi, secondo logica, non dovrebbe affatto reclamare!) è l’unico che si permette di perpetrare guerre distruttive di tipo continentale, le cui conseguenze non potranno che ricadere anche su di esso (ma in questo caso gli altri le subiranno senz’altro prima!).

Infatti da qualche tempo gli apparati di dominio militare del mondo, si stanno preparando a particolari tipi di guerre in cui il deterrente non e’ costituito più soltanto dall’eliminazione fisica del nemico (dal tempo delle guerre coloniali costituito essenzialmente dalle popolazioni civili, più che dai militari, come ci ricorda anche Elisabetta Donini nel recente libro “Imbrogli di guerra”), ma essi vengono sperimentalmente programmati ai fini di una guerra di logoramento di tutte le componenti territoriali in un’area strategica (genocidio, biocidio ed ecocidio). Rispetto a questo scopo tali apparati operano per rendere compatibili tutti gli interventi capaci di provocare danni duraturi nel tempo, meglio se progettualmente controllabili dal regime aggressore, tramite sistemi di studio e di simulazione che rendano nel tempo i dominatori registi degli eventi.

Di qui gli studi sugli organismi modificati da introdurre, non solo come armi biologiche, ma magari assieme agli aiuti umanitari o tramite un qualsiasi prodotto commerciale (ricordiamo il caso del latte Nestlè), in un paese da colonizzare, allo scopo di condizionarne le scelte, ed intanto mettere a punto adeguate sperimentazioni. I mezzi di convincimento non mancano; se ancora quelli genetici devono essere perfezionati, ne sono già disponibili altri: ricatti economico-finanziari (debiti, sanzioni, embargo), sugli approvvigionamenti alimentari (con gli organismi modificati al momento disponibili, come la soja), sull’assistenza sanitaria (resa magari necessaria a seguito di contaminazioni da azioni belliche) e così via. Un’area di sperimentazione attualmente resa disponibile dal conflitto, il Kossovo, presenta molte caratteristiche favorevoli in tal senso.

Ma, se ipoteticamente si volesse prescindere dalle guerre, si prospettano in un non troppo lontano futuro (Di Fazio, 1999) eventi epocali catastrofici (eventi climatici globali, contaminazione e degrado irreversibili, incremento demografico), intrinsecamente legati alla rapidità dei fenomeni di origine tecnologica succedutisi nel secolo ed alla latente ed irreversibile risposta da parte dei cicli naturali. Se tali eventi non dovessero venir alterati da ulteriori fattori che ne accelerino il prevedibile declino (guerra nucleare, guerra mondiale o altro evento catastrofico globale), ovvero di altri, di meno probabile accadimento, che lo decelerino (economia di solidarietà e di sostegno al posto dell’economia di mercato, controllo delle tecnologie e quindi dei conflitti, tutela primaria della salute e dell’integrità ecosistemica, provvedimenti immediati contro i gas serra, corretta politica alimentare e demografica), si profila per la vita sulla terra, nell’arco di cinquant’anni e con scarsi margini di errore, una fase di crisi globale che porterebbe in definitiva al degrado generalizzato delle risorse alimentari e della qualità del germoplasma dei viventi, a eventi degenerativi con elevata ricaduta epidemiologica, fino al drastico calo demografico per molte specie, compresa quella umana. I fattori presi in esame da Di Fazio al Global Dynamics Institute sono: il riscaldamento globale con discrepanze degli aumenti locali di temperatura, da cui deriverebbe l’insorgenza di eventi meteorologici estremi, lo scioglimento progressivo dei ghiacciai, l’innalzamento complessivo del livello del mare fino ad un metro circa, la conseguente infiltrazione marina delle falde acquifere costiere, la contrazione del manto forestale tropicale, la desertificazione, la variazione delle riserve idriche, l’aumento delle malattie tropicali nelle fasce temperate, il calo conseguente della produzione agricola, i profughi del clima. In definitiva le forme di dimensioni maggiori, e quindi di più complessa adattabilità, sembrano destinate a lasciare il posto a quelle più semplici, senz’altro più idonee a resistere in una biosfera che procede verso il susseguirsi di alterazioni di incerta governabilità.

Alcuni Autori attribuiscono tale degrado genericamente ad un cattivo uso della scienza (cfr. Lorenz, 1973 e più recentemente Martocchia, 1999), trascurando che la scienza rappresenta il risultato più significativo ottenuto nella storia della conoscenza razionale ed essa al più non può che arrivare alla prevedibilità probabilistica dei sistemi; i risultati della scienza possono raggiungere lo sfruttamento delle risorse, e quindi essere implicati negli interessi di mercato, soltanto nel momento che, interagendo con l’economia, la scienza diviene tecnologia e quindi viene trasformata in prodotto tecnologico. Altvater (1997) fa notare che “L’aumento della produttività non può essere raggiunto senza un aumento del consumo di risorse naturali” e questo processo può avvenire tramite la ricerca e l’aumento progressivo delle conoscenze, che tuttavia possono anch’essi conoscere dei limiti. La King (1986) aveva peraltro sottolineato che “Molto più ardua da demistificare è la nozione di tecnologia come semplice strumento: né buono né cattivo ma neutrale, morale soltanto nella misura in cui lo è chi se ne serve”. In effetti il problema di tutte le tecnologie sta nel mancato controllo sociale preventivo attuato in nome dell’economia di mercato; infatti i rischi e i danni di qualsiasi tecnologia vengono determinati sempre a posteriori “in corpore vivi”, dopo cioè che si sono già manifestati ed hanno colpito lavoratori, consumatori, ambiente, per cui sec. Maccacaro l’epidemiologo, che non riesce più a far attuare la prevenzione primaria, si trasforma in definitiva in becchino del sistema.

E’ ormai evidente secondo Di Fazio (1999) che la crisi globale in atto si debba far risalire alla responsabilità dei paesi occidentali, con gli USA in testa, ed al conflitto razionalmente perseguito contro i paesi ad economia pianificata per il controllo di quelli sottosviluppati, il quale ha recentemente portato all’instaurarsi di un impero politico-militare unipolare, recentemente denominato da Vasapollo (1999) “Profit Global NATO”. La estremizzata logica della concorrenza di mercato di matrice anglosassone, ma in vigore nei rapporti interstatali anche nei paesi del logoro campo socialista, ha in definitiva depauperato le risorse del globo, creato condizioni di inquinamento chimico e radioattivo sovente irreversibili in diversi territori, sconvolto gli equilibri climatici, ecosistemici e genetici, come ho recentemente esposto in un intervento nel Quaderno Cestes n°3 (Cristaldi, 1999). L’organizzazione politico-economica che ha determinato tale deriva strutturale si è “trincerata” (sensu Collingridge, 1985) ormai completamente con un muro di apposite leggi, convenzioni ed accordi più o meno legali (da rispettare solo in caso di convenienza) ed ha strozzato i paesi del Terzo mondo verso una economia di miseria e di guerra. I paesi occidentali, sulla base delle proprie esigenze di consumo ossessivamente estremizzate verso il superfluo, man mano che le risorse si andavano riducendo a causa di falsi bisogni e sprechi indotti nelle rispettive popolazioni, hanno stabilito una linea politica di aperta aggressione contro i popoli del Terzo mondo, accusati di elevati tassi riproduttivi e conseguentemente migratori non commisurati né con le oramai depauperate ed espropriate risorse autoctone né con i livelli di vita dei popoli occidentali. Quali potrebbero essere le risposte conseguenti in una situazione senza uscita indotta da una logica di mercato che non conosce limiti? Presa di coscienza rivoluzionaria, come in Chapas; aumento della resilienza biologica e delle masse di diseredati come massa di pressione verso i paesi ricchi; carestie e malattie verso un rischio epidemiologico generalizzato diretto anche contro i paesi ricchi (cfr. caso dell’HIV, retrovirus agente dell’AIDS, dall’Africa). Aldo Sacchetti nel 1987 infatti preconizzava: ”La manipolazione dei geni e la creazione in laboratorio di nuove forme microbiche potrebbero, per esempio, regalarci pandemie peggiori di quelle che pensavamo relegate nel passato. Le tecno-catastrofi, siano esse belliche o pacifiche (distinzione inessenziale per le vittime), rivelano la dimensione antibiologica dello sviluppo industriale”. Non si può dimenticare, in questo contesto, la funesta ipotesi, mai definitivamente ricusata, per cui l’agente dell’HIV sia stato ottenuto a partire da microrganismi geneticamente modificati volutamente immessi in popolazioni africane, ai fini sperimentali del controllo demografico, e poi diffusamente e disomogeneamente generalizzato per contagio sessuale agli altri paesi del mondo; da cui gli enormi profitti per le case farmaceutiche. Seguendo tali esempi, se ne deduce che gli effetti biologici di tutte le armi radioattive ed di parte di quelle chimiche si potrebbero diffondere attraverso il corredo genetico degli stessi organismi mediante i normali meccanismi riproduttivi e di trasmissione ereditaria.

I paesi del cosiddetto “socialismo reale” invece, in tempi di “indotta ingenuità”, non avevano trovato di meglio, accettando la logica imposta dalla controparte in nome del libero mercato, che rimettere il proprio malgestito potere in mano ai comitati d’affari dei paesi capitalistici, impiegando per un’ultima volta dogmaticamente (Garroni, 1999) quella razionalità logica che contraddistingue le basi del pensiero dialettico marxista, ma rendendo così ai propri popoli un servizio ancora peggiore che se avessero comunque mantenuto tale potere.

Dal punto di vista teorico intanto il determinismo scientifico era divenuto comodo solo a posteriori solo perché era riuscito a dar ragione delle cause di fenomeni già avvenuti (es.: spiegazione dell’evoluzione biologica). Ma è vero d’altra parte che la possibilità di previsione scientifica degli eventi nelle scienze politiche, sociali e naturali è soggetta a condizioni di notevole approssimazione, a causa dei livelli di complessità generalmente troppo elevati ed in cui ciascun fattore di variabilità, anche secondario, in un dato momento ed in interazione con altri fattori, può divenire preponderante. Probabilmente di qui il fallimento nella pratica (cfr. un articolo dell’autore al convegno nazionale AIRP del 1994).

 

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2. Guerre sperimentali

 

Come conseguenza ultima dell’esaurirsi del bipolarismo tra superpotenze imperialiste si determina dunque un evento epocale, che segna il definitivo passaggio ad una generalizzata politica di investimenti del mondo occidentale verso l’approvvigionamento bellico e verso la politica dello spreco delle risorse planetarie, in nome di una politica di mercato paradossalmente sempre più energivora. Tale evento si attua proprio con la guerra contro la Jugoslavia, una volta che la guerra del Golfo aveva creato la premessa sperimentale della nuova politica di deterrenza imperiale USA (Brzezinski, 1998), attraverso l’uso preponderante della guerra aerea: le “guerre stellari” di Regan sec. Thompson (1988).

 

Tutto l’avvenimento viene condizionato dagli esperti di marketing dei prodotti militari made in USA, ispiratori e consulenti autorevoli di cui si avvalgono tutte le forze NATO e del riarmo europeo, pronti a lanciare sugli obiettivi e sul mercato i loro più recenti e sperimentati prodotti bellici e svuotare con profitto i magazzini dei costruttori di morte. Gli apparati di dominio militare, infatti, sono oggi solidamente capeggiati dalle tre multinazionali USA Boeing, Lockheed-Martin e Raytheon Huges, che possiedono il maggiore fatturato e il maggiore investimento su materiali bellici, rispetto ad altre pure attive (British Aereospace Marconi, Daimler-Chrysler, General Motors, Ford, Ibm, Motorola, Microsoft, Seagram, Sony, ecc.) per complessivi 75% degli aerei (in totale 1100) e 90% di bombe e missili (in totale 20.000) forniti nella guerra nei Balcani con danni procurati di oltre 100 miliardi di dollari (300 scuole, 40 industrie tra le quali 18 contenenti sostanze pericolose per l’ambiente, 100 centri affari, 13 aeroporti, 23 ferrovie). Il danno maggiore a questa politica imperiale viene compiuto dall’esercito federale jugoslavo con l’abbattimento del famoso aereo invisibile Lockheed Martin F-117 Nigh Hawk del costo unitario di 45 milioni di dollari pari a 81 miliardi di lire (http://www.peacelink.it)

 

Le motivazioni, la strategia e la ideologizzazione della guerra contro la Jugoslavia erano quindi state studiate a tavolino fin da prima del suo inizio dagli strateghi del Pentagono: si trattava di riuscire a trovare i pretesti per perpetrare per un tempo il più lungo possibile, fino allo svuotamento degli arsenali, un’ulteriore guerra aerea promozionale e sperimentale dei più aggiornati sistemi d’arma, tenendo in debito conto delle 23 precedenti provocate dagli USA in più parti del mondo, a partire dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Stavolta però il territorio era limitato ad un’area geografica di poco piu’ piccola di quella di Cuba e perdipiù appartenente al Secondo mondo europeo. Vi si potevano stabilire effetti distruttivi misurabili nei tempi lunghi del degrado ambientale e degli effetti epidemiologici della guerra chimica, soprattutto in Serbia (bombardata dall’altezza di 5.000-10.000 metri per tenersi fuori del tiro della contraerea, che aveva appunto abbattuto subito l’”aereo invisibile”), radioattiva (con uso dell’uranio impoverito) e terroristica (uso delle bombe a frammentazione) nel Kossovo. Qui, dopo l’alternarsi delle colonne di profughi serbi ed albanesi, che hanno continuato a costituire fattore di destabilizzazione della politica federale, tuttora perseguita dalla Jugoslavia, è stata creata una grande base area militare USA (pardon NATO), abitata da una popolazione in prevalenza accondiscendente alla presenza militare (contrariamente a quanto accade in Grecia e in misura minore nella stessa portaerei Italia), proprio nel punto d’Europa strategicamente più importante, come simbolo e monito per le altre grosse realtà politico-territoriali potenzialmente concorrenti (Europa, Islam, Russia, Cina). L’effetto immediato previsto era quello di ridimensionare le velleità dell’Europa dell’Euro indebolendone le risorse ed i presupposti politici, ma caricandone i costi monetari di medio e lungo periodo sulla Comunità Europea, complice e subordinata, magari eliminando qualche dissenziente, come Lafontaine in Germania, ovvero, nel momento in cui iniziava a presentarsi una forte opposizione sindacale alla guerra nella portaerei Italia, l’eliminazione del prof. D’Antona, prestigioso consulente economico del Min. del Lavoro Bassolino, più benignamente inviato fuori scena dal regista di governo, proprio mentre a Benigni, creativo giullare alla corte statunitense, non era stato più concesso per la regia l’ennesimo premio Oscar (concesso invece a Scalfaro fin dalla nascita).

Continua così a passare, attraverso la miriade di nazionalismi europei, la logica che la lotta per il proprio “orto etnico” in fin dei conti paga, stavolta contro il più importante stato interetnico d’Europa, la Jugoslavia (tradizionalmente paese “non allineato”) a favore della benevolenza USA (stato plurietnico a dominanza politica anglosassone), al quale qualche “protettorato” fa sempre comodo, soprattutto se i costi umani e di gestione sono a carico di qualche “satellite” e soprattutto se ci si ritrova su un obiettivo finale di convenienza strategica globale: un Milosevic (come un Saddam) ricattabile da una parte ed un Uck (come un Kuwait) “libero fantoccio” dall’altra. Lo scopo finale è di continuare a destabilizzare, assieme agli alleati occidentali, l’area balcanica fino al Caucaso (ricordiamo ancora guerra in Cecenia e domani quelle a cui parteciperemo per liberare qualche popolo che vuole “liberamente” rifornire l’occidente di petrolio), per renderla vulnerabile e ricattabile, mediante una miriade di staterelli-protettorati a facciata nazionalista, cedevoli al passaggio dei corridoi energetici, favorendo, come “scambio egualitario” e valvola di sfogo, il libero afflusso delle proprie mafie verso i paesi dell’ex-”socialismo reale”.

Quindi altro che guerre di religione, o di etnia o, peggio ancora, di razza! (come ebbe a dire D’Alema in un suo intervento, a dimostrazione della sua totale ignoranza degli elementi basilari dell’antropologia), al massimo si tratta della ennesima riproposizione di un pensiero di Nietzche, che aveva portato l’autore, suo malgrado in quanto deceduto nel 1900, ai vertici dell’ideologismo nazista, il quale trova ancora largo posto nell’ideologia reazionaria dominante nell’occidente: La purificazione della razza.
 Forse non esistono razze pure, ma soltanto razze divenute pure, e anche queste sono assai rare. Normalmente si hanno razze miste, presso le quali si trovano sempre, insieme alla disarmonia di forme corporee (per esempio quando occhi e bocca non si accordano tra di loro), anche disarmonie di abitudini e di concetti di valore (Livingstone una volta sentì qualcuno dire: <<Dio creò gli uomini bianchi e neri, il diavolo però creò i mezzosangue>>). Razze miste sono sempre nello stesso tempo anche culture miste, moralità miste: sono per la maggior parte più malvage, più crudeli, più irrequiete.....”
. L’antropologa culturale Annamaria Rivera (1999) nota infatti che “l’interia storia dell’Occidente moderno e contemporaneo è tragicamente contrassegnata dall’ossessione della purezza razziale e dalla fobia della contaminazione e del metissage”. La moderna Antropologia evoluzionistica porta avanti un concetto radicalmente diverso, frutto dell’esperienza scientifica accumulata comparando popolazioni diverse e specie diverse, assieme alla consequenziale revisione del riduttivismo di stampo positivista: Gabriella Spedini apre il suo recentissimo libro (1999) con una citazione di T. Todorov “vivere la differenza nell’eguaglianza” ed afferma che il razzismo in definitiva consiste nel “non voler accettare il diverso”. In effetti va notato che una importante acquisizione moderna, costata peraltro incomprensioni e sangue nella storia, è l’incontro tra popoli e culture che si attua nelle aree urbane, dove soprattutto si mescolano i rappresentanti viventi del flusso genetico e culturale tra popolazioni, i meticci, i quali, ricombinando informazioni genetiche diversificate, incarnano nel proprio corpo l’arricchimento genetico della specie umana, rappresentano l’integrazione obbligata tra etnie, riannodano con l’intelletto le molteplici informazioni culturali, minando dalle basi biologiche il pensiero unico occidentale, che ci vorrebbe tutti uguali, che ci vorrebbe tutti le linee pure sperimentali, magari controllabili dal Grande Fratello con opportune modificazioni transgeniche. Sono i meticci la massa progressista più avanzata, sono loro i veri obiettivi delle guerre moderne e di quella contro la Jugoslavia in particolare, sono loro la necessità umana, che ci lega positivamente alla nostra animalità, di cui nemmeno la pratica socialista, collegandosi sovente al nazionalismo, ha saputo comprendere fino in fondo l’importanza. Proprio tutto il contrario dell’idea di Nietzche!

Secondo il “pensiero debole” della Grande Stampa codina, essenzialmente fondato sull’ignoranza e sul sostanziale appoggio dei voltagabbana statunitensi, proprio i serbi, etnia preponderante nella ex-Jugoslavia, che avevano combattuto il nazismo tedesco in difesa di tutta l’Europa e che avevano contribuito sostanzialmente a fondare un autentico stato multietnico, si sarebbero (dopo la lacerazione con Slovenia, Croazia e Bosnia, create per interessi egemonici e di mercato della Germania unificata e del Vaticano), trasformati in uno stato nazista. Nemmeno nei confronti degli ebrei si era mai arrivati a tali aberrazioni ideologiche di stampo razzista, nonostante Israele nei confronti dei palestinesi sia riuscita a rasentare forme di vero e proprio genocidio.

Si dovevano infine “trincerare”, cioè proteggere dalle possibili conseguenze con tutti i mezzi, i governi guerrafondai della NATO e gli uomini che se ne configuravano come garanti, a prescindere dalle loro formazioni politiche d’origine, indottrinando nel frattempo l’opinione pubblica con i falsi pretesti, appunto, della “guerra umanitaria” sponsorizzata e coperta da formazioni politiche populiste e/o “di sinistra”.

Per quanto riguarda la superficialità dell’opinione pubblica Roberto Vacca nel 1971 aveva osservato che: “I rischi più complicati non vengono capiti e fondamentalmente non vengono creduti, almeno nel senso che il comportamento della gente non riflette alcun tipo di comprensione”. E, se il personaggio dovesse lasciare a qualcuno delle perplessità, un altro più famoso ed inquietante personaggio della storia, Maximilien de Robespierre, ebbe a scrivere ne La rivoluzione giacobina”: “Non ho affatto bisogno di dirvi che è proprio durante la guerra che il governo sfinisce completamente il popolo dissipando le sue finanze, è proprio durante la guerra che egli copre con un velo impenetrabile i suoi ladrocini e i suoi errori”., che si inserisce proprio a proposito dei costi economico-sociali delle guerre esaminati da Vasapollo (1999) nello scorso numero del Proteo (simbolo più che appropriato se si pensa all’importanza delle cose nascoste, come l’omonimo diafano anfibio perennibranchiato delle grotte di Postumia in Slovenia, proprio laddove iniziò la politica di frammentazione della ex-Jugoslavia).

Di seguito cercherò di esporre il quadro delle conseguenze ambientali della guerra geopolitica contro la Federazione Jugoslava.

 

 

3. Conseguenze eco-sanitarie

 

Se si pensa che gli SU sono il paese che più produce ma meno si impegna nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica (cfr. Conferenza mondiale di Rio de Janeiro), se ne deduce che, per i governi di questo grande paese, ai grandi crimini di guerra si aggiungono i grandi crimini di pace, aumentandone le responsabilità nei confronti della biosfera, ma anche suggerendoci quello che il loro egemonismo persegue nei tempi lunghi, tramandandosi - fin da quel George Wastington che sistematicamente trasgrediva i trattati con gli indiani - una strategia di dominio e di ricatto su tutta la terra.

Il fine imperiale desiderato si configura nel dominio del mondo attraverso la generalizzazione del degrado ambientale. Infatti l’effetto globale della guerra chimica consiste nel trasporto nella troposfera di sostanze e particolati in sospensione derivati dalla combinazione di gas, polveri e fumi provenienti da esplosioni ed incendi di serbatoi e manufatti. Questi composti, associati al vapore acqueo atmosferico condensato sulla loro superficie e combinati con esso in soluzione acida, provocano precipitazioni chiamate piogge acide, che, oltre a bruciare la vegetazione, come è accaduto a NE di Belgrado dopo la nube di Pancevo sottoposta a rain-out distribuiscono sostanze più o meno combuste, spesso mutagene e cancerogene sul terreno e nelle acque (benzopirene e diossine con altri idrocarburi aromatici, clorurobifenili e furani, particelle carboniose, metalli pesanti, radionuclidi). L’effetto transfrontaliero di tipo continentale che ne consegue colpisce, attraverso gli effluenti aeriformi, la vegetazione naturale e la produzione agricola, in modo simile all’uso di defolianti ed erbicidi. Il risultante cronico depauperamento dei patrimoni forestali e agricoli provoca alla lunga l’indebolimento della produzione primaria per creare ulteriori occasioni di dominio economico nei paesi da soggiogare (in diversa misura un po’ tutti).

In seguito alla distruzione di raffinerie, depositi e impianti chimici in Serbia sono attesi tali effetti, che passano, anche attraverso abnormi riversamenti diretti di sostanze chimiche (policlorurobifenili, cloro e fluoro dagli impianti di trasformazione, petrolio e derivati, ammoniaca, dicloroetilene, soda caustica, cloruro di idrogeno dai complessi petrolchimici) nel sistema idrico continentale (sistema delle acque interne e soprattutto del grande corpo d’acqua contaminato del Danubio), fino al mare, aggiungendo (come a seguito del melt-down di Chernobyl attraverso il fiume Denepr) contaminazione a contaminazione nel Mar Nero, nell’Egeo, nell’Adriatico e alla fine in tutto il Mediterraneo, interessando in notevole misura (cfr. Rapsomanikis e coll., 1999) anche i paesi vicini (Ungheria, Romania, Moldavia, Bulgaria, Macedonia, Grecia, Russia, ecc) fino agli altri paesi europei Fig. 1 - Emissioni provenienti dai bombardamenti di Novi Sad (da Triolo e coll., 1999) Fig. 2 - Direzione del rilascio di anidride solforosa dal petrolchimico di Novi Sad (da Triolo e coll., 1999) Fig. 3 - (da Triolo e coll., 1999) Fig 4 - Direzione del rilascio di cloruro di vinile monomero da Pancevo (da Triolo e coll., 1999) Fig.5 - Distribuzione transfrontaliera della nube di Pancevo calcolata con il modello HYSPLIT-4 (da Rapsomanikis e coll., 1999), sempre a favore degli SU, che controllano dall’alto e da lontano. A questo punto, dato che la Grecia, che non partecipava al conflitto se non come formale membro NATO, aveva già rilevato la presenza di queste sostanze ad alto rischio, come la diossina nella troposfera già durante il periodo di guerra conclamata Fig. 6 - Campioni di aerosol raccolti in serie per 24 ore per la determinazione di diossine totali e furani (cerchi), polibifenilcloruro (asterischi), acido parammino-ippurico (quadrati): si notino i picchi al 7 e al 18 aprile ‘99 che corrispondono all’intensificarsi dei bombardamenti sui serbatoi di Novi Sad e Pancevo (da Rapsomanikis e coll., 1999), sorge spontanea la domanda se gli enti di controllo ambientale italiani abbiano rilevato anch’essi qualcosa o si stiano pedissequamente accodando alle dissuasioni del governo e a rapporti comunitari ancora necessariamente imprecisi (The Regional Environmental Center for Central and Eastern Europe, 1999). In tale quadro complesso l’unica possibilità di rilevare gli effetti biologici e le riconcentrazioni sono rappresentati da bioindicatori adeguatamente prescelti (biocenosi, funghi, licheni, piante verdi, molluschi, crostacei, pesci, anfibi, roditori, specie domestiche, ecc.) che, secondo la definizione dell’autore pubblicata nel 1990, rappresentano l’esemplificazione più completa delle trasformazioni ecologiche e biologiche che avvengono in luoghi spazialmente e temporalmente diversi, in categorie biologiche diverse (specie, sesso, età, ecc.) e per tipologie diverse di impatto di origine antropica e/o naturale, al fine di desumere il grado di vulnerabilità ambientale. In questo contesto la specie più adatta come bioindicatore sarebbe l’uomo stesso, ed in effetti l’epidemiologia questo attua, ma altri bioindicatori consentono di attuare livelli di invasività non distruttiva degli equilibri biocenotici, che tuttavia non si può attuare sulla nostra stessa specie per ragioni deontologiche; anche se purtroppo c’è sempre chi lo attua, se non nel chiuso dei laboratori, almeno negli aperti territori di guerra, come avevamo già assistito in Iraq, trasformando oggettivamente gli animalisti elettorali dei Verdi in corresponsabili dell’ecocidio.

Pertanto, pur posponendo la nostra proposta alle esigenze di solidarietà e di aiuti concreti e primari di cui necessita attualmente la Jugoslavia, i miei collaboratori ed io abbiamo proposto un progetto sui roditori infestanti come bioindicatori di impatto per contribuire a perimetrare l’area di ricaduta dei composti inquinanti e per studiarne gli effetti biologici complessivi, la riconcentrazione delle sostanze negli organi bersaglio ed i processi di carattere mutagenetico, che sono alla base dell’incidenza dei processi di cancerogenesi, di teratogenesi, di abbassamento delle capacità immunitarie e di trasferimento del carico genetico alle future generazioni. In questo momento, a causa dell’embargo contro la Jugoslavia, non ci si può illudere di usufruire di alcun finanziamento pubblico, anche se si tratta di ricerche finalizzate alla prevenzione del rischio ambientale causato dai bombardamenti.

Più semplici stime quantitative si potrebbero anche effettuare su popolamenti di specie a maggiore abbondanza, come i Molluschi: ne ho raccolti durante (17-28 agosto 1999) la missione ambientalista de “Un ponte per...” presso Pancevo spiaggiati presso le rive del Danubio in numero consistente in ragione di poche specie (generi Viviparus, Planorbarius, Pisidium, Anodonta).

 

In questo ambito di problemi mi sento far rilevare che, delle 194 specie di Mammiferi presenti in Europa, le 94 segnalate per la Rep. Federale di Jugoslavia comprendono almeno 8 importanti endemismi presumibilmente da considerare in pericolo (almeno nelle loro popolazioni balcaniche, tra Insettivori (Talpa caeca, Talpa stankovici) e Roditori (Nannospalax leucodon, Spermophilus citellus, Dinaromys bogdanovi, Microtus felteni, Microtus guentheri, Mus spicilegus); di questi vengono riportate in figura (da Mitchell-Jones et al., 1999) le prime quattro specie, cioè lo Spalace romeno Fig. 7 - Spalace romeno (da Mitchell-Jones et al., 1999) (specie pannonica, cromosomicamente variabile, tipica di suoli aperti sciolti e drenati non agricoli, già considerata specie vulnerabile nella lista rossa IUCN), il Citello comune Fig. 8 - Citello comune (da Mitchell-Jones et al., 1999) (specie pannonica divisa in due popolazioni principali dai Carpazi, già considerata vulnerabile a causa della trasformazione della steppa in terreno arabile), l’Arvicola dei Balcani Fig. 9 - Arvicola dei Balcani (da Mitchell-Jones et al., 1999) (endemica tipica, forma relitta carsica, distribuzione sporadica e frammentaria, già considerata vulnerabile nella lista rossa IUCN), l’Arvicola della Macedonia Fig. 10 - Arvicola della Macedonia (da Mitchell-Jones et al., 1999) (endemismo balcanico circoscritto alle foreste montagnose dell’area del conflitto, considerata a basso rischio nella lista rossa IUCN). L’insieme di tali specie costituisce complessivamente l’indicazione di notevoli livelli di diversità ambientale e di naturalità in quelle aree, ma anche di punto di incontro di elementi faunistici, similmente a quelli floristici, di origine asiatica, anatolica ed europea. Prima del conflitto infatti queste terre costituivano un’attrazione turistica rilevante per i suoi elevati livelli di naturalità, ma anche una delle principali aree di caccia sportiva ancora attive rispetto alle esauste risorse venatorie di molta parte dell’Europa (cfr. Alleva, 1999). Il ministro dell’ambiente jugoslavo J. Zelenovic (1999) riferisce di un 10% delle aree protette con 9 parchi nazionali (Durmitor, Monte Sar Planina, Biogradska gora, Lovcen, Lago Skadarsko Jezero, Derdap, Kopaonik, Tara, Fruska gora), 20 parchi regionali, 122 riserve naturali, 19 aree costiere. Nello stesso documento, che porta la data dei bombardamenti su Pancevo (17-18 aprile ‘99) egli accusa la NATO della violazione di ben 15 convenzioni internazionali per la tutela delle risorse naturali. Il territorio jugoslavo Fig. 11 - Collocazione geografica di 75 aree protette e destinate a protezione entro il 2010 della Rep. Fed. di Jugoslavia (da Mandic, 1999), divise con tre toni decrescenti di grigio in parchi nazionali, aree protette e aree da proteggere infatti (Mandic, 1999) rappresenta uno dei 6 centri europei e uno dei 153 centri mondiali più importanti della diversità biologica (38,93% di piante vascolari, 51,16% della fauna ittica, 74,03% degli uccelli, 67,61% della fauna a mammiferi con 1600 specie biologiche di significato internazionale)

Dal punto di vista floristico nel parco di Fruska Gora (prov. Della Vojvodina), sottoposto a bombardamenti a tappeto, si lamenta (prof.ssa V. Stojsic) la distruzione di 100 ettari di parco (con circa 1000 crateri) e ciò ha determinato la probabile scomparsa di essenze (es. Orchidacee) altamente sensibili, in quanto caratterizzate da diffusione limitata (Epipactis helleborine, Orchis purpurea, Limodorum abortivum, Platanthera bifolia) e di altre almeno sette specie (Lilium martagon, Daphne laureola, Doronicum hungaricum, Ajuga laxmanii, Ruscus aculeatus, Ruscus hypoglossum, Hepatica nobilis) in pericolo di estinzione. Fig. 12 - Piante in pericolo: 1) Dianthus behriorum; 2) Gentiana nopscae; 3) Tulipa serbica (da Lakusic, 1999) sono riportate tre specie considerate ad alto rischio in Serbia e Kossovo a seguito dei bombardamenti (Dianthus behriorum, Gentiana nopscae, Tulipa serbica). La diminuzione di specie vegetali rare e quindi sensibili è conclamata in tutta l’area colpita Fig. 13 - Concentrazione delle piante rare ed in pericolo in Serbia (da Lakusic, 1999), addirittura fino alla Moldavia (prof.ssa T. Azema). Un già raro insetto curculionide (Otiorhynchus kopaonicensis) costituisce una specie che forse si dovrà considerare estinta a seguito dei martellanti bombardamenti del Massiccio del Kopaonik posto tra Serbia e Kossovo (Mesaros,1999). Gli studi di presenza-assenza delle specie rare può avere un significato immediato, anche perché esse testimoniano, gli effetti transfrontalieri che possono presentarsi nell’immediato sugli ecosistemi, laddove esistano dei dati di confronto.

Nel comparto marittimo i pescatori sui bassi fondali dell’Adriatico, a spese della loro stessa incolumità e dell’attività alieutica, ma poi anche a spese della collettività’ (60 miliardi di indennizzo concessi dal governo italiano per il cosiddetto “fermo bellico”), hanno esperito che molti bombardieri, per evitare rischi all’atterraggio, si disfano in mare delle bombe più ingombranti e rischiose (come le bombe a grappolo CBU-97B da 450 kg, contenenti complessivamente 202 granate a penetrazione, a frammentazione e incendiarie). Su 20.000 azioni aeree effettuate in Jugoslavia, 143 ordigni (oggi 235) furono sganciati in 6 aree del diametro di 10 miglia ciascuna, tre in Alto Adriatico a 30, 55, 50 miglia rispettivamente da Chioggia, Marina di Ravenna e Pesaro, su una profondità da 30 a 70 m (le più pericolose per la pesca), tre in Basso Adriatico a 70, 40, 30 miglia rispettivamente da Bari, Brindisi e Santa Maria di Leuca sui 400-800 m di profondità (cfr. Marra S. su Avvenimenti del 30 maggio ‘99). Si ricordi che al tracollo dell’attività di pesca si è accompagnato il calo del turismo su tutta l’area adriatica; pertanto la gestione del territorio in attività a basso impatto ambientale, anche se da una parte lascia gli ecosistemi a riposo, alla lunga, convivendo con condizioni di guerra, rischia di renderli fragili per mancanza di tutela da parte delle stesse categorie che ne dovrebbero trarre usufrutto.

 

In base alle scoperte di fisica nucleare avvenute in questo secolo, sono state ideate armi di tipo radioattivo, affini per gli effetti biologici interni a quelle chimiche e quindi come queste considerate non convenzionali, che si avvalgono del potere detonante derivato dalla disintegrazione dell’atomo. A partire dal primo esperimento effettuato in Alamogordo (Deserto del Nuovo Messico), il 16 luglio 1945, fu lanciata subito dopo dagli USA sulla città di Hiroshima (6 agosto 1945) la bomba nucleare all’uranio arricchito (U-235), immediatamente seguita da quella al plutonio (Pu-240) lanciata su Nagasaki (9 agosto 1945), si è giunti, attraverso una serie di dannosissimi esperimenti nucleari, fino ai proiettili contenenti uranio “impoverito” (U-238), scoria a basso prezzo - ce ne sono 560.000 tonnellate nei soli USA “stokkate” come esafluoruro di uranio - del materiale fissile “arricchito” (U-235) usato come carica di bombe atomiche e del combustibile nucleare per le centrali. L’uranio di per sé, oltre alla elevata e durevole radioattività (4,5 miliardi di anni come tempo di decadimento per l’U-238, che rappresenta praticamente la venerabile età del pianeta Terra), soprattutto con radiazioni di tipo alfa (bassa penetrabilità nella materia, ma elevatissima efficacia biologica, per cui praticamente il radionuclide agisce sulle cellule internamente e/o a breve distanza, ma con elevato trasferimento di energia radiante), in quanto metallo pesante ha anche un’elevatissimo calore di combustione (affine al meno reperibile tungsteno); esso riesce a forare le corazze dei carri armati contro i quali viene sparato a bassa quota tramite uno speciale cannone a 7 bocche da 30 mm denominato Gau-8/A Gelting (produttore Air-Jet Ordinance Company), in dotazione degli aerei Fairchild A-10A Thunderbolt II; inoltre ne è rivestita l’ogiva dei missili Tomahawk (General Dynamics SCLM BGM-109A) (Pacilio & Pona, 1999; Ardeljan,1999). In queste condizioni il materiale uranifero, venuto a contatto dell’aria, si ossida emettendo finissime particelle di aerosol (< 5 micron), inalabili e diffusibili col vento, le quali ancora calde aderiscono alle superfici praticamente “metallizzando” i corpi vicini. I proiettili furono sperimentati dagli USA, prima in un’isoletta deserta presso Okinawa appena dopo la Seconda guerra Mondiale (Poole, 1997), poi più recentemente per la guerra di terra direttamente sull’uomo e sull’ambiente in Iraq (14000 proiettili di grande calibro e 940000 pallottole sparati) lungo la cosiddetta ”autostrada del suicidio” dove si potevano distinguere corpi “imbalsamati all’uranio radioattivo” (è per questo infatti che sui corpi umani metallizzati non si poggiavano insetti) ed anche previamente all’utilizzazione di appositi contatori Geiger per la determinazione della radioattività. Questa particolarità avrebbe potuto permettere in Bosnia e nel Kossovo di distinguere tali corpi da quelli bruciati col fuoco delle normali combustioni di una guerra civile.

L’uranio in generale, come pure quello impoverito (U-238) in particolare, che all’impatto brucia a 170°C e viene micronizzato in particelle inalabili, presenta uno spiccato rischio radiologico per i polmoni e per le ossa, si accumula nel fegato e nella milza, mostra un rischio tipico da metallo pesante nei reni Fig. 14 - Organi bersaglio dell’uranio nell’uomo e rischi chimici e radioattivi bassi*, medi** e alti*** legati all’esposizione interna (modif. da Ribera e coll., 1996); a livello cellulare Fig.15 - Effetti cellulari dell’uranio sugli animali (modif. da Ribera e coll., 1996) infatti opera sul nucleo ed in particolare sul DNA, determinandone mutazioni genetiche ai diversi livelli di organizzazione; inoltre agisce sul citoplasma vacuolizzandolo, sugli organelli cellulari (reticolo endoplasmatico, mitocondri, apparato del Golgi, lisosomi) e sulla membrana cellulare (Ribera e coll., 1996); alcuni effetti riscontrati dopo la guerra del Golfo (sistema immunitario, sistema nervoso, pelle) sembrerebbero stati sottostimati nei precedenti studi. Si dà infatti per appurato che la cosiddetta “sindrome del Golfo” (Jamal, 1998), abbia colpito anzitutto gli iracheni, ma con essi anche, assieme ai soldati britannici ed ai familiari di tutti quanti (gli effetti teratologici passano ad es. con maggiore efficacia sui figli delle donne soldato), circa 90.000 reduci USA (su complessivi 697.000), dei quali 4500 sarebbero già morti, con i seguenti sintomi: abbassamenti generali delle capacità immunitarie, disfunzioni respiratorie, epatiche e renali, cefalee, febbre, bassa pressione sanguigna, nervosismo, fino all’insorgenza di tumori e di progenie deforme. La principale responsabilità viene attribuita soprattutto alla contaminazione interna (in ordine di importanza attraverso la respirazione, le ferite e l’ingestione) con U-238 combinato con altri fattori sinergici. Le proiezioni basate sulla quantità di proiettili sparati (circa 500.000 nel solo Kossovo) e sugli altri usi dell’U-238 in Jugoslavia effettuate da Pacilio & Pona (1999) stimano quindi il danno in una decina di migliaia di casi fatali nell’uomo; per non parlare delle ulteriori malattie indotte dal trasferimento del metallo radioattivo nel corpo e negli organismi in generale.

Pertanto lo scenario che previdi lo scorso Giugno per il Kossovo (Cristaldi, 1999) è ancora attuale, anche se non si è ancora svolto completamente: 1) invasione “pacifica” con 50.000 uomini “soltanto”; 2) contaminazione degli stessi e dei profughi (prima degli albanesi durante il conflitto, poi dei serbi nei più recenti avvenimenti) con polveri derivate dalla combustione dei proiettili all’uranio impoverito; 3) futuribile “grandiosa scoperta” della mutagenicità, cancerogenicità e teratogenicità dell’uranio e del notevole rischio per gli esposti; 4) nel “nuovo piano Marshall” viene compreso un programma di decontaminazione da uranio, 5) “decontaminazione” con copertura di terra (intombamento) sui territori interessati, laddove possibile; 6) alimentazione con culture idroponiche d.o.c. (le acque si contaminano meno con i metalli che si depositano nei sedimenti) e con alimenti geneticamente modificati delle popolazioni kossovare, ridotte non più a profughi, a rifugiati, a scudi umani, ma finalmente a cavie umane e consumatori; infine a soldati. Visto che sono sostituibili e per il momento diversi sono ancora sopravvissuti, sarà loro concesso di diventare reduci, eventualmente di ammalarsi, ma sempre senza diritto di parola.

 

Per il momento infatti, nonostante le evidenze, la NATO sull’uranio impoverito fa ancora la politica dello struzzo, come pure per altre nefaste previsioni che seguono. Nel senso che, se troveranno qualcosa per guadagnarci, dopo il Kossovo, li vedremo ancora all’opera nella ricostruzione della Serbia (tenendosi magari in caldo Milosevic come “uomo per tutte le stagioni”), quando, dopo averla distrutta e contaminata, ma non si sa ancora se e quanto rifinanziata, constateranno (se ce ne fosse qualche bisogno) che la “restoration ecology” (“restauro ecologico”) da operare nel Danubio non potrà mai eliminare la presenza di microinquinanti nell’acqua (anche potabile) negli organismi fluviali e quindi nel pescato dulciacquicolo e marino). Si tratta (cfr. Triolo e coll. su “Imbrogli di guerra”), tra l’altro, di molte sostanze scarsamente biodegradabili (cloruro di vinile monomero, bifenili policlorurati, idrocarburi policiclici aromatici, diossine, nafta, metalli pesanti), originate dai bombardamenti su raffinerie, industrie e depositi di sostanze chimiche Fig. 16 - Visione generale di raffinerie, depositi e complessi petrolchimici colpiti dai bombardamenti NATO sulla Jugoslavia sec. lo Yugoslav Daily Survey dell’8 giugno ‘99 (da Lausevic, 1999). Fig. 17 - Obiettivi di aziende civili e di distruzioni territoriali operate dalla NATO sulla Jugoslavia sec. lo Yugoslav Daily Survey dell’8 giugno ‘99 (da Lausevic, 1999). L’intervento bellico, per chi ha seguito da vicino questo conflitto, appare strettamente programmato secondo un piano sperimentale di intervento e di studio dell’impatto bellico in un paese del Secondo Mondo su impianti dell’industria avanzata con una sequenza tecnico-politica delle azioni di bombardamento determinata a priori (simbologici, strategici e distruttivi, sec. il prof. C. Cancelli).

Poi cercheranno fino al termine massimo possibile, fidando sul silenzio della Grande Stampa, di permettere ai non addetti ai lavori di misconoscere il problema, cercheranno di ignorare gli effetti epidemiologici sull’uomo come specie “target”, trincerandosi dietro un maestoso programma di ripristino ecologico, per ripulire solo lo sporco visibile, magari immettendo specie ittiche resilienti di alto pregio e resistenza, che poi verranno vendute nei mercati d’Europa, in quanto sicuramente gli USA non compreranno questi prodotti. Ma ci sarà sempre il sistema per farne farina di pesce diretta all’alimentazione del bestiame, che si piazza sicuramente meglio sul mercato, anche se a minor prezzo; così la dispersione nella catena trofica porterà man mano i livelli a valori più “accettabili” per chi “eventualmente” effettuerà i controlli; gli organi interni del bestiame che riconcentrano di più si potranno riciclare come liofilizzati nello stesso modo, ed il resto lo si potrà sempre imbellettare e immettere sul mercato, magari inscatolato. Nel frattempo qualcuno dovrà pure ingerire questi residui opportunamente diluiti! Oppure, se la contaminazione dovesse essere troppo elevata (sempre ammesso che qualcuno la vada a determinare), si invierà il pescato come apporto alimentare integrativo per la fame nel mondo.

Agiscono inoltre, come indiretti aggressivi chimici generalizzati ad ampio effetto transfrontaliero, anche le emissioni degli aerei a reazione, che contengono, tra gli altri composti (cf. Triolo e coll., 1999), ossidi di azoto altamente reattivi che interferiscono con l’ozono atmosferico, trasformandolo in ossigeno e assottigliando, con l’effetto buco dell’ozono ai poli, la fascia stratosferica sita a circa 60000 m di altezza, la quale ha il potere di impedire, a favore della vita nella biosfera, la penetrazione dei raggi ultravioletti solari. L’aumento di tumori alla pelle per esposizione al sole è l’effetto più documentato di tale fenomeno, che espone sempre più al massimo rischio le popolazioni nordiche di pelle bianca. Inoltre l’anidride carbonica emessa dai jet aumenta anche l’effetto serra (conosciuto in natura a seguito dell’emissione dei vapori vulcanici), il quale, dopo l’avvento delle macchine a vapore ed il massicccio incremento dei consumi energetici, come Di Fazio (1999) evidenzia per l’ultimo cinquantennio Fig. 18 - Variazioni dell’anidride carbonica (CO2) e suo relativo aumento di origine antropogenica dopo l’avvento della Rivoluzione Industriale (1880): Fonte: IPCC (1995), Carbon Dioxide Information and Analysis Center (in Di Fazio, 1999) Fig. 19 - Grafico delle anomalie della temperatura dopo il 1860 Fonte: IPCC, UK Meorological Office (in Di Fazio, 1999), sta sempre di più compromettendo l’andamento del clima globale terrestre, provocando un generalizzato aumento della temperatura (il 1998 è stato in assoluto l’anno più caldo conosciuto per il pianeta) con conseguenti squilibri complessivi che si vanno traducendo in uragani, alluvioni, scioglimento delle calotte glaciali e innalzamento del livello del mare (esempi ancora modesti i casi di alluvioni a Sarno e al Coto de Doñana in Andalusia, ma ben più disastroso l’effetto del Niño in Centro America).

Tutto ciò, finché non verranno ufficialmente riconosciute delle colpe di questa guerra sperimentale ed ingiusta dei paesi occidentali da parte degli stessi paesi occidentali, abitualmente gestori e giudici di sé stessi. Nel frattempo contaminazione alimentare, malattie, insorgenza di anomalie, spostamenti di profughi, freddo e carenze energetiche saranno soltanto questioni interne jugoslave e dei paesi vicini, fedeli alleati NATO, o al massimo di qualche ONG di effettivo sostegno (ben poche dopo il lavaggio delle coscienze nei denari dell’Arcobaleno). Silvana Salerno (1999) in “Imbrogli di guerra” elenca i rischi indiretti aspecifici sulla salute fisica: inquinamento e carenza di acqua, carenza qualitativa e quantitativa di cibo, promiscuità ambientale, carenze economico-retributive, carenza di fonti energetiche, cure sanitarie assenti o inadeguate, incremento delle patologie generali, effetti sulla salute della donna e sulla salute mentale; i bambini e nei vecchi sono indicati come soggetti maggiormente a rischio.

Lausevic, Lakusic & Spasojevic nell’importante ultimo contributo della Società Serba di Ecologia denominato “Ecocide” sintetizzano la previsione dei futuri rischi potenziali di questa guerra a livello ecologico: 1) effetti negativi generalizzati sulla riproduzione; 2) accumulo e diffusione di materiale tossico e cancerogeno; 3) contaminazione del cibo e conseguenze sulla salute; 4) la devastazione degli ecosistemi e la carenza di fonti energetiche provocherà una notevole scomparsa di individui e di specie (aumento del rischio per le specie rare ed in pericolo); 5) crescente erosione del suolo e rischio di frane; 6) la distruzione del sistema economico provocherà l’impossibilità di controllare e gestire sia i sistemi agricoli che quelli naturali; 7) ci si attende un allargamento delle conseguenze in tutte le aree limitrofe con riduzione complessiva della biodiversità.-----

Non è consolante per l’opinione pubblica che, solo tra qualche tempo, prima nella letteratura specialistica e poi in quella divulgativa potremo verificare l’effettiva portata dei catastrofici accadimenti comunicati dagli osservatori e nella relazione della commissione CE (per buona pace dei “Verdi da parlamento” non definiti disastri ecologici). Nonostante questi disastri di tipo acuto è pur vero che la natura tende a ritrovare, passando sovente attraverso altri eventi disastrosi, più di tipo cronico (dismetabolismo, mutagenesi, cancerogenesi, teratogenesi, alterazioni della biodiversità con eventuali estinzioni di specie), un suo equilibrio (riparo, selezione adattativa, riequilibrio ecologico), che però diviene sempre meno stabile ed al quale corrisponde un livello crescente di depauperamento di risorse. Infatti è ormai risaputo che al criterio di sopraffazione economica si accompagna sempre il relativo effetto di degrado per ogni sistema in esso e con esso coinvolto, non solo quindi a livello umano, politico ed economico, ma anche a livello biocenotico, ecosistemico e della biosfera. Tuttavia i tempi con cui si mostrano tali modificazioni orizzontali sono relativamente ampi; di conseguenza, le ricerche scientifiche che servono per fare emergere le responsabilità non sempre sono incontrovertibili e presentano lunghe latenze. Queste permettono al sistema politico e legislativo di adeguarsi per eventualmente intervenire a disastro già consumato, magari con comodo attraverso qualche correttivo a posteriori, quando cioè i profitti del restauro sono stati ampiamente accumulati, la riconversione è divenuta ormai l’unica scelta “realisticamente” conveniente ed i danni bio-ecologici sono stati già ampiamente consumati. Ad es. un cancro da radiazioni ci mette mediamente una decina di anni dall’esposizione prima di manifestarsi e quindi non solo purtroppo gli effetti delle bombe atomiche sul Giappone e l’evento di Chernobyl (senz’altro gli eventi di contaminazione di massa più seguiti a livello scientifico) staranno a dimostrare emblematicamente quanto sopra affermato.

 

 

4. Alcune proiezioni per il futuro

 

L’olocausto, il genocidio, la discriminazione razziale, il biocidio e l’ecocidio fin qui sperimentati con particolare veemenza in diverse recenti occasioni (nazismo, apartheid, fame, guerre, compromissioni e distruzioni di interi ecosistemi) sono soltanto l’esordio di un nuovo sistema di controllo di una biosfera depauperata delle sue caratteristiche di massima diversità, che diviene sempre più incompatibile con lo sviluppo naturale frutto di milioni di anni di evoluzione sulla Terra. L’apparato unipolare “USA e getta” si mostra intenzionato a sostituire a tale patrimonio storico-biologico scientemente alterato un sistema artificiale da esso controllato fin dalle cellule con lo slogan: “le risorse naturali sono compromesse, noi le controlleremo per voi”.

Allo stato attuale dell’arte l’avanzamento biotecnologico è arrivato al punto di poter permettere l’inserimento nel corredo genetico umano di modificazioni volutamente invalidanti che permettono per di più il controllo diretto di popolazioni “target” (per posizione geopolitica strategica, per elevato potenziale demografico, per caratteristiche razziali), sia per via direttamente riproduttiva, che per via alimentare, che per inalazione, che per inoculazione: una vera e propria sofisticata eugenetica, ma non priva di imprevedibili rischi. Così, mentre a livello internazionale si avanza sul doppio binario delle proibizioni formali degli esperimenti in vivo e sul commercio di prodotti geneticamente modificati, gli strateghi del Pentagono dalle segrete dei loro laboratori, anche utilizzando all’occorrenza come cavie quegli stessi elettori bombardati dalla propaganda mediatica o quei militari di cui non si tollera più lo spettacolo della morte in diretta, ci daranno presto, con le dovute riserve, i risultati degli esperimenti effettuati sul campo, che poi ci verranno banalizzati con i migliori effetti tranquillizzanti a consolazione di sempre più assottigliati livelli di coscienza.

L’importante in definitiva, in favore di questa bella strategia di dominio bio-ecologico, è che nel vigente sistema di mercato continui a non attuarsi la prevenzione primaria delle malattie degenerative (leucemie, tumori solidi, alterazioni immunitarie, circolatorie, ecc.), e cioè che resti opportunamente confinato e poi trincerato l’interesse alla rimozione delle cause, ma che tali rischi diventino poi concreti ai fini della loro monetizzazione (diagnosi, farmaci, irraggiamenti, sistemi diagnostici e cure di mantenimento) in un sistema di consenso che si rispetti, dove la malattia sia l’arma di ricatto per tenerci supini in vita. Le ricerche per la “cura del cancro” e le relative polemiche sui fondi di finanziamento non sono altro che lo specchio di questa realtà produttiva e di mercato che è canalizzata a speculare sulle malattie che essa stessa provoca: evitare la cancerogenesi semplicemente non facendo la guerra potrebbe essere già il miglior contributo all’igiene ambientale!.

Il ricatto della cura e il controllo genetico delle popolazioni sottoposte a contaminazione (umane, d’allevamento e naturali) andrebbe dunque quantificato per metterlo a confronto con quelli che sono gli abituali parametri della convenienza nell’impero unipolare più di recente NATO (USA+alleati subimperiali complici): corridoi di approvvigionamento energetico (Cararo, 1999; Gattei, 1999), petrolio e gas, materie prime, risorse minerarie rare ed emergenti, soprattutto per la galvanica (Altvater, 1997), delle quali è ricco il Kossovo (rame, cromo, molibdeno e antimonio).

A questo poi si dovrebbe aggiungere una valutazione dei costi per gli effetti psicologici dell’alienazione nel lavoro, che vengono pagati soprattutto dalle popolazioni dei paesi “avanzati”, in cambio del fatto di venire risparmiate da bombardamenti diretti: miniaturizzazione informatica invasiva del tempo libero (televisione, telefonini, computer) e conseguente virtualizzazione della sfera privata (autosfruttamento e flessibilità degli orari di lavoro), che comporta abbassamento della fertilità, sindromi psicologiche e neurologiche, tumori da inadeguata alimentazione, oltre alla solita nocività occupazionale e a qualche omicidio bianco: ... Prima del taglio alle pensioni, già si poté constatare che avevano tolto ai vecchi la possibilità di curarsi; intanto però si potevano inviare le “missioni umanitarie” per farsi un po’ di largo, rimediare finanziamenti bellici indiretti (e.g. missione Arcobaleno) ed usare il volontariato come valvola di sfogo per un lavoro socialmente utile che non si è mai voluto creare

Il naturalista ed etologo austriaco Konrad Lorenz (1979) affermò che “è un disastroso errore economico considerare la ‘selezione naturale’ che opera all’interno della libera economia di mercato un potere altrettanto benefico e creativo quanto la selezione naturale che ha operato nella trasformazione delle specie viventi. Nella vita economica l’unico criterio della selezione è l’aumento di potenza a breve termine”. Si tratta dunque dello stesso equivoco che in economia viene sinteticamente chiamato “darvinismo sociale”, che porta all’acuirsi improduttivo dei conflitti.

Senza una seria alternativa politica di incanalamento degli interessi economici sulla conservazione e sulla oculata gestione delle risorse, sul rispetto della diversificazione naturale del germoplasma umano e degli altri organismi viventi, non si potrà evitare il deterioramento genetico all’interno degli ecosistemi, eredità obbligata per le generazioni future, che attualmente, assieme alla generalizzazione della povertà, sta divenendo arma di ricatto in mano alle multinazionali ed ai governi bellicisti.

Un’intermedia via d’uscita, come suggerisce Marcello Cini (1994), si può identificare in adeguati sistemi di controllo pubblico di tutte le tecnologie (non solo per le biotecnologie) e dei loro prodotti prima e non dopo la loro immissione sul mercato; anche e soprattutto per le tecnologie belliche, di cui abbiamo constatato l’invasività nella guerra ecocida, ma di cui constatiamo il protrarsi invasivo anche in tempo di pace (nucleare, spaziale, elettronica, ecc.). Tale sistema di controllo, oggi ridotto a disgregato parassitario terziario del sistema di mercato (cfr. Min. dell’Ambiente, ANPA, ARPA, ISPESL, Enti parco) e denominato (cfr. Cristaldi & Tommasi, 1991) equivocamente VIA (cioè Valutazione di Impatto Ambientale sui nuovi impianti, mentre i vecchi restano tali), potrebbe divenire occasione di occupazione stabile nel terziario di molto personale qualificato attualmente condannato alla sottoccupazione o alla disoccupazione (Martufi & Vasapollo, 1998). La risultante contrazione del numero di merci in campo produttivo, corrisponderebbe però ad una produzione più duratura e garantita, meglio suscettibile di manutenzione, anche se di costo iniziale più elevato, ma nascente da un lavoro maggiormente qualificato come grande investimento sociale. Allora determinati strumenti si potrebbero concentrare nei luoghi appropriati per essere utilizzati al meglio delle loro potenzialità, concependoli come beni comuni sottoposti a tutela, ma non soggetti all’ideologia dello spreco e del consumo.

Attualmente l’acquisizione tecnologica ancora viene vista come un fattore neutrale, che quindi puo’ essere diretto verso un buono o un cattivo uso produttivo, senza pensare al costo tecnologico che ne stabilisce, a priori e secondo leggi di mercato, la quantità d’uso. In pratica più il prodotto tecnologico costa, più quantità ne viene prodotta e immessa sul mercato, incidendo quindi sulle risorse primarie e contribuendo sempre più allo spreco (ah, se Ronchi pensasse di più alle ragioni dei suoi rifiuti, forse defecherebbe anche meglio!): l’esplosione del settore galvanico ed elettronico, di origine bellica e spaziale, è la diretta testimonianza di tale fenomeno di deriva (Altvater, 1997). In tale contesto le tecnologie più semplici ed immediate, comprese quelle più naturali, vengono considerate obsolete e pertanto non incentivate o addirittura osteggiate: ottimo esempio è l’industria farmaceutica ed alimentare con l’uso di biotecnologie ad elevato costo tecnologico. In questo senso si può intendere il paradosso dell’aumento complessivo della povertà, e quindi del tasso di disoccupazione, delle società industrialmente avanzate.

Una via d’uscita alternativa riguarda il capovolgimento del criterio originario che conferì importanza sociale ai maschi in funzione del loro potere nell’ambito della difesa fisica (militare) del gruppo, acquisita nell’organizzazione sociale durante la caccia, per rivolgersi alla diffusione degli interessi sociali sulle scelte riproduttive, alimentari, lavorative caratterizzate da limitata invasività del territorio, che comporta invece, in un modello di territorialità di tipo femminile, il criterio di uso rispettoso della diversità (genetica, biocenotica, colturale-culturale, razziale, etnico-religiosa, comportamentale), come premessa per la diversificazione culturale umana e come effettiva ricchezza da far emergere in funzione dei comuni interessi sociali attraverso la promozione della eterogeneità costruttiva delle opinioni.

 

 

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