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Maurizio De Santis
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Globalizzazione per chi e contro chi

Maurizio De Santis

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Se si pensa al Medioevo, lo si descrive come un momento della storia dell’umanità caratterizzato dal decadimento spirituale e culturale. Volando con la fantasia agli inizi del secondo millennio, siamo stati abituati ad immaginare il mondo di quei tempi buio e avvolto da una fitta nebbia, immerse nella quale, vagavano ombre scure con sembianze simil-umane.

E’ il quadro che nel Rinascimento viene fatto del periodo precedente. Ad un millennio circa di distanza, il giudizio su quell’epoca è totalmente diverso.

Ora, però, si avvicina all’orizzonte un Medioevo di vecchia concezione: è l’era della GLOBALIZZAZIONE.

Dice Lucio Levi (Federalismo nel mondo): “Globalizzazione è la parola che circola con insistenza sulla bocca di tutti e suscita l’inquietudine che provocano i cambiamenti profondi e inevitabili”.

Se il timore della globalizzazione è a livelli alti, quello che preoccupa è che il fenomeno sia “inevitabile”. Vale a dire che bisogna provare orrore perché non esiste più l’individuo, soprattutto come essere pensante, e quindi capace, con le sue scelte, con il suo pensiero, con la sua presenza di partecipare alla dialettica delle scelte socio-politiche.

Che voi leggiate “Il secolo breve” di Eric J. Hobsbawn o “La crisi del capitalismo globale” di George Soros o Lucio Levi o Giorgio Bocca su “La Repubblica” del 14 settembre 1999, il ritornello è sempre lo stesso: il crollo del comunismo nel 1989 ha fatto si che il capitalismo si affermasse come ideologia vincente.

Se non altro, dobbiamo ringraziare questo pseudocomunismo per aver fatto da argine, per anni, alla dittatura imperialista delle lobbies economiche.

Lo stesso Soros, che si definisce un filantropo oltre che un magnate della finanza, dice che il pericolo attuale proviene dal “fondamentalismo del mercato” che, con l’abolizione delle democrazie nazionali, vuole imporre i valori del mercato sulle scelte politiche; quasi l’inverso di quello che si prefiggeva il comunismo.

Soros si avvicina all’idea di Popper sull’organizzazione della società: quella della cosiddetta “società aperta”.

Secondo questa teoria, i regimi nazisti e comunisti partivano dal presupposto comune di rappresentare la verità ultima e perciò imponevano al mondo le loro idee con l’uso della forza. La società aperta è una società, continua Soros, che è perfettibile e che ha come nemici i regimi autoritari. Tradotto in poche parole, sembra si parli di una sorta di capitalismo “buono”.

Ma la legge del profitto impone, senza alternative, che chi possiede denaro debba guadagnarne dell’altro a dismisura, senza limiti. Il raggiungimento di questo scopo prescinde da regole moralistiche di comportamento. Se il sistema del profitto fosse posto sotto il controllo dello stato, non sarebbe più un sistema del profitto nella sua accezione originaria.

Peraltro, e forse anche questo è bene venga ricordato, l’ideologia marxista non è stata ancora applicata così come era nelle intenzioni di chi l’ha pensata. Quindi non possiamo parlare di esperienze comuniste e di crollo di queste esperienze. Lo stesso Lenin, nei mesi successivi al 1917 dovette fare i conti con i suoi contadini russi che rappresentavano la preponderante forza lavoro dell’Unione Sovietica. A questi, Lenin dovette garantire la proprietà dei terreni agricoli perché la rivoluzione potesse avere successo.

Se, come dicevamo, il controllo statale del profitto nega il presupposto su cui si basa la legge del profitto, è altrettanto vero che la proprietà privata è la negazione dell’ideologia comunista. Gli anni successivi alla morte di Lenin fino ai nostri giorni hanno dimostrato che i regimi politici in Russia e nei paesi confratelli altri non erano che parenti poveri dell’imperialismo.

La demonizzazione voluta dagli occidentali delle ideologie di “oltre cortina” ha avuto la funzione (Hobsbawn) di stimolare il capitalismo a riprendersi dalla crisi del 1929 e ad accrescersi negli anni successivi fino ad arrivare al 1991, con il cosiddetto crollo del comunismo, legittimandosi come verità ultima dato che, nel frattempo, il capitale aveva raggiunto connotati sovrannazionali.

Questi connotati fanno si che oggi tutti parlino di globalizzazione del sistema economico.

Questa nuova pestilenza, tanto per ricordare il Medioevo, sta creando situazioni di tensione tra gli stati nazionali e le lobbies economiche anche se la maggior parte dei paesi occidentali nulla può o vuole fare per opporsi allo strapotere del dio denaro.

Il pericolo imminente di questa situazione si sintetizza in ciò che dice Lucio Levi in “Globalizzazione e democrazia internazionale”: “......La conseguenza più grave di questa situazione è il declino della democrazia. La più acuta contraddizione della nostra epoca risiede nel fatto che i problemi dai quali dipende il destino dei popoli, come il controllo della sicurezza e dell’economia o la protezione dell’ambiente, hanno assunto dimensioni internazionali, un terreno dove non esistono istituzioni democratiche (efficienti ed efficaci -n.d.r.), mentre la democrazia si ferma tuttora ai confini degli stati, entro i quali si decide ormai su aspetti secondari della vita politica. Così il controllo delle questioni determinanti per l’avvenire dei popoli, sfuggito alle istituzioni democratiche, sta saldamente nelle mani delle grandi potenze e delle gigantesche concentrazioni capitalistiche multinazionali”.

In fondo, un epifenomeno di ciò è stata l’ultima guerra nei Balcani, che ha sottinteso anche uno scontro tra sistemi capitalistici sfumatamente diversi ovverosia quello anglo-americano e quello europeo.

L’interesse, infatti, di chi muove le fila della globalizzazione è la frantumazione degli stati per ridurne l’importanza politica ed economica.

Un’operazione analoga fu compiuta alla fine della I guerra mondiale, crando così ulteriori presupposti perché scoppiasse la seconda.

In effetti, per contrastare la globalizzazione economica, occorrerebbe la creazione di stati anch’essi sovrannazionali: un principio sostenuto dal già citato Lucio Levi e da Gianpaolo Salvini in “Globalizzazione economica e paesi del sud del mondo” (la rivista Emmaus).

Questa operazione intellettualmente e democraticamente di ampio respiro è ovvio che trovi degli ostacoli, sia per volontà delle lobbies economiche, sia per la scarsa onestà intellettuale delle classi politiche. L’intoppo è rappresentato dai paesi del terzo mondo. Per il potere economico sono terreni di sfruttamento sia come mercato di investimenti, sia come mercato di lavoro schiavistico. Per il potere politico, c’è l’ottusità e la pervicacia di continuare l’ideologia della supremazia delle potenze occidentali nei confronti dei paesi in via di sviluppo. Enrico Mattei è morto proprio inutilmente!

La globalizzazione economica viene affiancata dalla “globalizzazione culturale”; con un termine rubato alla Biologia, si può dire che si sta creando una simbiosi mutualistica, ovverosia un mutuo soccorso per il raggiungimento dei loro scopi.

Ad agosto di quest’anno è uscito un numero di National Geographic interamente dedicato alla “Cultura Globale”. Edita negli U.S.A., è questa una di quelle riviste che parlano principalmente per mezzo delle fotografie di cui sono ricche.

Analizzando proprio queste foto e quel po’ di scritto che vale la pena considerare, si intuisce bene qual’è il senso che il termine di cultura globale è impresso nella ideologia degli americani.

Si comincia con l’articolo: “Una sola cultura” dove , sulle due pagini iniziali troviamo 11 volte riprodotta la foto di un’immagine di un film di Marilyn Monroe. Si prosegue con: “Un solo mondo”; la foto è quella della collina sovrastante Hollywood; una didascalia dice: “Collegàti da Jet, e.mail, cellulari e FILM, “noi tutti”, dice il sociologo inglese Mike Featherstone, “siamo vicini di casa”.

Noi tutti chi? Quelli che viaggiano in Jet, dialogano con e-mail e vivono in simbiosi con il cellulare. Non ci sembra che ci si rivolga al mondo intero. Forse ne resterebbe fuori qualche bambino brasiliano delle favelas, o qualche indigeno australiano o africano; chissà cosa ne pensano i bambini del sud est asiatico intenti a lavorare sfruttati dalle grosse ditte occidentali in cambio di una manciata di riso.

Le altre pagine scorrono via tempestate da foto di argomento cinematografico. Colpiscono, tra l’altro, le immagini di un gruppo di acrobati cinesi in un atteggiamento che non fa onore alle migliaia di anni di civiltà che quel popolo esprime. I redattori non dimenticano di ritrarre un gruppo di monaci tibetani intenti a bere Coca-Cola seduti in un ristorante di Los Angeles in California.

Tra pubblicità alla Coca-Cola e sorrisi demenziali da pseudofelicità ecco apparire una bella foto di tramonto africano campeggiata dal titolo: “Culture al tramonto” in cui si annuncia che, con la distruzione di migliaia di culture, entro 100 anni, dalle 6000 lingue parlate oggi passeremo a 3000.

Quello che si ricava da National Geographic è che, per mezzo della cinematografia americana, il mondo intero dovrà subire un mutamento socio-culturale propagandato come paese di Bengodi.

Questo per quanto riguarda la carta patinata e le belle foto.

Nei giorni successivi all’uscita della rivista sono apparsi sui mass media una serie di articoli che rappresentano un po’ meglio la realtà culturale che dobbiamo importare da oltre oceano.

La Repubblica - Giovedì 19 agosto 1999:

“Ragazzi, salvatevi così: al liceo lezione di strage. Metal detector, telecamere, genitori-vigilantes e bidelli armati, assalti simulati: dopo l’assalto di Columbine l’America blinda gli istituti. Nel 1998, in America, ci sono stati 4730 episodi di violenza” (nelle scuole n.d.r.).

Televideo Rai di settembre o ottobre 1999:

Nel 1996, negli U.S.A., sono morte per armi da fuoco oltre 30.000 persone. Il 25% di queste avevano meno di 24 anni.

Liberazione - 1 settembre 1999:

“La salute non è merce”. Un medico di Rovereto recensisce un articolo apparso sul New England Journal of Medicine a cura di due ricercatori americani. Conclusione: negli ospedali U.S.A. for profit (privati) la missione è il denaro e nella nostra società (americana n.d.r.) “l’assistenza sanitaria è troppo preziosa, intima, corruttibile per affidarla al mercato”. In questi ospedali privati la percentuale dei morti aumenta rispetto a quella dei non profit (pubblici), specialmente nei casi di malati più gravi.

La Repubblica - 26 ottobre 1999:

“U.S.A., tema shock a scuola: come uccideresti un vip?”. Tema proposto da un professore dell’Ohio.

TV americana - 26 novembre 1999:

Tre ore di diretta televisiva per una caccia all’uomo. Protagonista la Polizia ed un automobilista che non si è fermato all’alt dei poliziotti. L’uomo è stato ucciso appena è sceso dall’auto, sempre in diretta televisiva. Ovvero, la morte vera come show!

Così sono state ristabilite le giuste misure.

La cultura globale non può essere sopraffazione di altre culture. Non può essere quella delle armi in pugno. Non può essere quella basata sulle monete.

Per ricordare cosa significa evoluzione della cultura in senso globale e dialettico basta ripensare alla storia dei popoli del Mediterraneo e a quale sintesi culturale ha portato in un continuum di cui, ancor oggi, per fortuna godiamo.

La voce della cultura globale si scontra con iniziative ben più illuminate.

Di recente, ad opera dell’Academie Universelle des Cultures, è stata redatta una “Carta” che ha lo scopo di difendere ogni tipo di cultura.

L’Academie (e-mail: www.academie.asso.fr) ha prodotto un manuale ad opera, tra l’altro, di Furio Colombo, Umberto Eco e Jacques Le Goff. Questo manuale (Accepter la diversité) ha la caratteristica di essere interattivo perché tramite Internet si può dialogare con gli autori per la sua stesura. E’ rivolto principalmente agli studenti e ai loro professori ed ha lo scopo di insegnare che le diversità esistono (sesso, religione, handicap, ecc.) ma che nella diversità si è uguali. Il principio base è che la diversità è un dato di fatto ed è per questo che ogni individuo va rispettato: il mezzo per raggiungere questo fine è la tolleranza.

Come si è visto, che si tratti di globalizzazione dell’economia o della cultura o di entrambe, chi ne farà le spese sarà l’individuo. L’evoluzione culturale a cui stiamo assistendo pone in un angolo le persone ed i loro diritti (perdita della democrazia); in fondo, il passaggio dal Welfare State, che aveva come presupposto la tutela dei singoli, al Profit State che ha come presupposto la tutela delle sole imprese economiche è la logica conseguenza della globalizzazione.

Non tenendo in debita considerazione questo passaggio, diventa impossibile la rivendicazione di una società giusta.

Quando i nostri politici accusano i pensionati di essere troppi; oppure quando tolgono le ultime briciole all’assistenza sanitaria; o quando cercano di far passare come buoni-libro i finanziamenti alla scuola privata, altro non fanno che adeguarsi allo spirito della globalizzazione.

L’isolamento dell’individuo rappresenta un pericolo ulteriore per la società. I singoli sono costretti a trovare dei succedanei ad una organizzazione societaria. In questo si muovono per proprio conto e, per lo più, in antitesi o in aperto scontro con il resto dell’umanità. Si favoriscono così gli odi razziali, gli odi religiosi, i contrasti generazionali, la ricerca del privilegio con il solo risultato di generare una moltitudine di individui insoddisfatti. Tale moltitudine, frastornata dal carpe diem, non riconosce più gli artefici della propria insoddisfazione e, nello stesso tempo, in conflitto reciproco, può essere facile preda di ideologie autoritarie come ci insegna la storia passata (v. Nazismo e Fascismo) e la storia recente con i successi dell’estrema destra in Svizzera e Austria.

Vi è poi una crescente sensazione che la globalizzazione economica sottintenda una crisi del sistema capitalistico.

I continui accorpamenti, a livello mondiale, dei grossi gruppi bancari, finanziari e industriali, cui si assiste giornalmente possono essere il sintomo di una cattiva salute del sistema del profitto.

I paesi del terzo mondo non possono più rappresentare un terreno di espansione dei mercati perché stritolati da un debito estero spropositato.

Le monete più forti: Dollaro, Euro e Yen, continuano ad urtarsi tra loro come vasi di coccio su un carro che percorra una strada sterrata.

Il 15 settembre del 1998 George Soros offriva la sua testimonianza dinanzi al Congresso U.S.A. affermando tra l’altro che il sistema capitalistico globale, artefice dei successi economici americani è in via di disgregazione. Nel frattempo accadono crolli economici, come quello asiatico e russo che sono di livello ben superiore a quello di Wall Street del 1929.

Questo quadro apocalittico, descritto da un magnate della finanza, è lecito supporre che sia una realtà prossima a venire.

Ma se il crollo del 1929 ha avuto gli effetti globali che ha avuto; se la presenza di regimi non capitalistici ha avuto l’effetto di stimolare la ripresa in forza dello spauracchio e dell’alternativa che rappresentavano; oggi, in cui non esiste più il pericolo di oltre cortina; oggi in cui non esiste una dialettica ideologica da contrapporre e a cui fare riferimento; oggi, quali scenari stanno per abbattersi sul mondo globalizzato?