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MARIO CARUCCI
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Telecom Italia, privato è bello; per chi?

MARIO CARUCCI

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L’occupazione del settore ridotta più di 40.000 dipendenti; aggravio per l’INPS di 500 ml. di euro; un’azienda comprata caricandola di debiti; il patrimonio immobiliare interamente perduto; il valore delle azioni più che dimezzato; gli investimenti sulla rete fermi dal 1994 e la necessità di spendere circa 10 mld d’euro per correre ai ripari; 6000 dossiers su privati cittadini e dipendenti, con buona pace della privacy e delle più elementari regole democratiche. Questa è la madre di tutte le privatizzazioni a otto anni dalla sua realizzazione, mentre chi ha gestito tutto ciò si è personalmente arricchito (Colaninno, Tronchetti Provera, etc) e chi lo ha appoggiato (Prodi & Co. e CGIL-CISL-UIL) fa finta di niente e la butta sul NON PASSI LO STRANIERO.

Il fatto che, all’ultima assemblea degli azionisti Telecom Italia, Beppe Grillo, senza nulla voler togliere ai meriti del personaggio, abbia assunto la leadership dell’opposizione al gruppo dirigente della stessa azienda, la dice lunga su quale, nell’affaire Telecom, sia stato il ruolo di CGIL-CISL-UIL e delle forze di sinistra e su come, in questi anni nella società cosiddetta civile, siano mutati i ruoli e la collocazione nella scala dei valori del mondo lavoro e di quello dei consumatori. L’intera vicenda Telecom, comunque, presenta una notevole serie di avvenimenti e coincidenze che confinano con la satira, ed, in qualche modo, potrebbe sembrare del tutto naturale che fornisca il palcoscenico ad un grande comico. Ed allora, poiché, siamo in tempi in cui la memoria è corta o, peggio ancora, taroccata, ed in cui, proprio quelli che hanno contribuito all’attuale situazione, CGIL-CISL-UIL e Centro Sinistra, mettono in scena copioni che, al grido di non passi lo straniero - vedi la recente vicenda dell’At&T - si battono per “l’italianità”, è opportuno che questo mio contributo inizi rivisitando, sia pur in estrema sintesi, gli avvenimenti succedutesi nella vicenda Telecom. Procediamo con ordine.

1. La fusione delle varie aziende che operavano nelle telecomunicazioni

Nel 1994 si concretizza il processo di unificazione del settore delle telecomunicazioni, raggruppando in una nuova unica azienda - TELECOM ITALIA - le varie società che operavano nell’ambito delle telecomunicazioni: la SIP, che gestiva la rete fissa ed i primordi di quella mobile, principalmente allora erano i radiotelefoni, montati sulle auto, l’ITALCABLE, la telefonia internazionale, TELESPAZIO, quella via satellite. Tutte aziende di natura privata e di capitale, a stragrande maggioranza, pubblico che facevano capo alla capogruppo STET che a sua volta era controllata dall’IRI. A quelle aziende si unì anche l’AZIENDA di STATO, azienda pubblica che gestiva gli snodi distrettuali del traffico teleselettivo e che, prima di passare in Telecom Italia, era stata privatizzata e, transitoriamente, si chiamava ASSTEL. Tutte quelle aziende, allora, occupavano più di 120.000 dipendenti. Già in questo passaggio avviene un primo scippo alla collettività, perché il capitale immobiliare che l’azienda di stato porta in dote - si tratta di terreni ed edifici nei centri storici delle più importanti città italiane, ad esempio a Roma in una traversa di Fontana di Trevi, a Milano a Via Cordusio, etc - viene volutamente sottostimato, per rendere più appetibile la futura cessione ai privati. Restano senza valide risposte le numerose interrogazioni parlamentari, presentate in merito. Alla fine del processo, maggio 1997, la STET è soppressa, e tutte le aziende sono raggruppate all’interno di TELECOM ITALIA. Tutto ciò è presentato come un processo di riassetto e modernizzazione del settore delle telecomunicazioni, in realtà, come ho già sottolineato, è funzionale alla vendita, o per meglio dire alla svendita, di Telecom.

2. La privatizzazione

Nel 1997, dunque, sotto la presidenza del consiglio di Prodi, parte la collocazione in borsa della Telecom Italia. E’ presentata come esempio di modernità, madre di tutte le privatizzazioni, fiore all’occhiello del centro sinistra di allora. In particolare, viene agitata con forza l’idea dell’azionariato popolare, della Public Company, dove i piccoli azionisti “democraticamente” governeranno la più importante azienda italiana. Il piano della privatizzazione prevede che una parte minima sia riservata ad investitori finanziari ed industriali, nessuno può avere più del 3% del capitale, il resto al mercato, per realizzare, in tal modo, una public company. Nei fatti, nessuno degli investitori del nucleo stabile, si avvicinò al tetto massimo, l’IMI che investì più di tutti, acquisì lo 0,8%. Al Tesoro che mantenne il 5,5% delle azioni fu attribuita anche la Golden Share, il diritto di veto, peraltro mai esercitato. A propagandare la leggenda metropolitana della Public Company contribuiscono attivamente anche CGIL-CISL-UIL che, in Telecom, danno il loro consenso all’utilizzazione del TFR, anche nel caso dei lavoratori/trici che già ne hanno usufruito, per l’acquisto delle azioni. Come si vede, il vizio di mettere le mani sul TFR parte da lontano. Il prezzo di collocamento in borsa è lit. 10.908 (euro 5.63) e di 10.795 (euro 5.58) per i dipendenti : chi avesse tenuto le azioni Telecom dal 1997 ad oggi (euro 2.09), si troverebbe una perdita del 169% circa, con buona pace di chi sostiene il vantaggio di conferire il TFR dei lavoratori alla Borsa. Per preparare l’operazione e renderla più presentabile, venne eletto, nel frattempo, Presidente il Prof. Rossi, che , come conferma il tormentone degli ultimi due anni - Lega Calcio / Telecom - ha fama di riformista illuminato e, come il prezzemolo, va bene con tutto. Tutta la vicenda, al di là dei presunti megalomani progetti di riforma del capitalismo italiano e delle leggende metropolitane sulla public company, in realtà, non rappresenta altro che la vendita dei gioielli di famiglia per ripianare il debito, come dichiarò alla Camera l’allora ministro del Tesoro Ciampi. Il Tesoro incassò dalla vendita 11,82 miliardi di euro.

Il nucleo stabile è composto da: IMI 0,8 - Credito italiano 0,7 - Credito Suisse First Boston 0,7 - Ifil 0,6 - Generali 0,6 - Compagnia San Paolo 0,6 - Comit 0,5 - Ina 0,5 - Mps 0,5 - Fondazione Cariplo 0,5 - Alleanza 0,4 - Rolo Banca 0,3

L’operazione porta i soldi ma, dal punto di vista del progetto industriale e della conduzione aziendale si rivela una bufala; allora il Prof. Rossi sbatte la porta e se ne va, - come tornerà a fare in Telecom ed in altre esperienze - e viene nominato presidente Rossignolo, uomo della FIAT che, tramite l’IFIL , con il solo 0,6% di azioni acquistato, pretende di governare l’azienda. Il progetto, o perlomeno la speranza, prevede che la FIAT, collocato il suo uomo, prenda in mano l’azienda Telecom e ci metta qualche altro soldino. Ma, non è così, l’azienda torinese è in crisi e piena di debiti ed, inoltre, è abituata da decenni ad investire con i soldi dello stato e, perciò, non mette una lire, oltre allo 0,6% che già ha. La presidenza di Rossignolo è caratterizzata da una rissosità estrema dei managers e dei soci che gli sono dietro che tentano di governare Telecom senza metterci altri soldi. Per esemplificare, Rossignolo ostacola Tommasi, amministratore delegato, provenienza IRI-STET, un cosiddetto boiardo di stato, che ha quasi chiuso un accordo con AT&T (corsi e ricorsi !) per uno scambio azionario, e manda a monte l’accordo stesso. Tommasi si dimette. Gamberale, sostenuto dai DS, in particolare da D’Alema, gli succede, vincendo la lotta contro Caio, ex Olivetto, sostenuto da Profumo, Credito Italiano, ma la musica non cambia: la conflittualità continua e l’azienda è paralizzata. Rossignolo tenta un approccio con Berlusconi (Mediaset), la storia si ripete, ma viene stoppato dagli Agnelli, cerca un partner internazionale, CABLE & Wireless, ma anche questa operazione non riesce. I titoli calano in borsa, arrivano a 4,33 euro, e Rossignolo, capita l’antifona, si dimette. Nell’ottobre del 1998, arriva Bernabè, manager apprezzato in Italia e all’estero, proveniente dall’ENI, ma lo scenario sta cambiando. Sono cominciate le grandi manovre su Telecom ed è in gestazione l’operazione Colaninno-Cuccia-D’Alema che porterà , nel febbraio del 1999, all’OPA lanciata dal consiglio d’amministrazione di Olivetti, che ha venduto INFOSTRADA ed OMNITEL al gruppo Mannesman. 3. La scalata di Colaninno

Su questa operazione è stato detto e scritto tanto. Colaninno, che ha iniziato con OLIVETTI il gioco delle scatole vuote per controllare le imprese importanti, opera attraverso la BELL, società con sede in Lussemburgo di cui sono soci Gnutti ed altri industriali bresciani, Consorte (UNIPOL), ed altri, in parte quelli che diventeranno i furbetti del quartierino, L’operazione, comunque, non sarebbe stata possibile senza Cuccia (Mediobanca), che fa da tramite con le banche americane (Dlj,Chase, Lehman) le quali offrono il credito sufficiente per la scalata di Telecom, e senza il sostegno dell’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema che, prima consente la vendita di Olivetti a Mannesman, malgrado esista la clausola dei 5 anni, che consentirebbe la vendita stessa solo alla fine del 1999, poi fa in modo che Banca d’Italia e Tesoro non si presentino all’assemblea degli azionisti, convocata da Bernabè, per raggiungere il consenso del 30% degli azionisti, necessario per bloccare l’OPA. Il disegno di D’Alema è quello di dare uno schiaffo ai poteri forti (FIAT, etc) e crearsi un polo industriale amico: è la copia dell’operazione messa in atto da Craxi con Gardini e Schimberni (Montedison). Con Colaninno ha inizio il controllo di Telecom attraverso numerose società, una dentro l’altra come le matriosche, e l’indebitamento di Telecom che attraverso quello che produce deve pagare i debiti contratti con le banche per l’acquisto e dare gli utili alle società che la controllano.

HOPA BELL OLIVETTI TECNOST TELECOM

Dopo l’OPA, Olivetti, attraverso TECNOST controlla il 51% delle azioni ordinarie Telecom. 51% che equivale per il gruppo a un debito di 25,5 miliardi di euro. Debito che dovrà essere saldato con i ricavi della stessa Telecom. La gestione di Colaninno è principalmente una gestione finanziaria, preoccupata, attraverso artifizi (fusioni, scorpori) di impedire un’eventuale scalata di Telecom e di rendere più agevole il flusso di denaro che da Telecom deve affluire, attraverso le varie scatole, a TECNOST per sanare il debito. Emblematica in questo senso è l’operazione Seat-TIN.IT. La Seat Pagine Gialle è stata ceduta al Tesoro nel 1996; produce notevoli utili, ma ha un “cancro” al proprio interno, la Multi Media Pubblicità -MMP- vicedirettore è Giorgio Fanfani, figlio di Amintore, che attraverso la concessione di contratti di pubblicità garantiti finanzia quasi tutti i quotidiani di partito ed ha accumulato notevoli debiti (194 milioni di euro alla fine del 1997). Per rendere appetibile la privatizzazione, MMP viene scorporata da Seat e fatta fallire; così, nello stesso anno, la Seat, senza più il “cancro”, viene venduta ad una società costituita ad hoc - la OTTO . tra gli azionisti figurano, tra gli altri, la De Agostini e la stessa Telecom che, oltre alla quota d’acquisto, assicura 10 anni di contratti. In pratica, ai privati viene venduta a 853,7 milioni di euro, di cui 170 milioni versati dalla Telecom, una società che è già si è ripagata con il solo contratto decennale della stessa Telecom. Nel 2000, la Telecom, nel pieno della bolla speculativa che imperversa in borsa sulle telecomunicazioni, ricomprerà la Seat a 20 miliardi di euro, fondendola con TIN.IT, un’azienda scissa da Telecom, sempre di proprietà della stessa, che gestisce i servizi relativi ad INTERNET. Perché Telecom paghi così tanto SEAT non è ben chiaro, né è possibile conoscere chi c’è dietro alle poche società, tutte residenti all’estero, che ricevono questo fiume di denaro. L’operazione, in un primo tempo, ha successo, gli acquisti fioccano, da parte dei risparmiatori e, soprattutto, dei fondi d’investimento, salvo poi cominciare una precipitosa caduta, per arrivare ai 0,48 euro odierni - anche qui con buona pace di chi avesse affidato il proprio TFR ai fondi pensione. E’ chiaro, con questi presupposti, che la gestione Colaninno sia tutta proiettata sulla ricerca del taglio dei costi, per pagare i debiti con le banche ed indirizzare i profitti ai soci di maggioranza. Per ottenere ciò, oltre ad operazioni d’ingegneria finanziaria, si opera sulla riduzione del personale, tramite mobilità e cessioni di rami d’azienda, sull’organizzazione rigidamente divisa in unità di business, sulla speculazione sugli immobili - hanno inizio le dismissioni -, sul blocco di ogni spesa sulla rete e sugli investimenti, sui bilanci sempre meno trasparenti,attraverso le varie acquisizioni all’estero, dal Brasile alla Serbia.

4. L’arrivo di Tronchetti Provera

La borsa comincia a perdere colpi, il titolo Olivetti anche; occorrerebbero altri investimenti, ma il gruppo dei bresciani, che fa capo a Gnutti, vuole realizzare e, perciò, se ne frega del progetto sulle telecomunicazioni. Questo fa sì che la proposta di Tronchetti Provera di acquistare il 27,7% delle azioni Olivetti a 4.17 euro venga accolta al volo, nonostante il parere contrario di Colaninno. La parola d’ordine dei bresciani è prendi i soldi e scappa e l’affare è concluso a Luglio del 2001. Da questa operazione, il gruppo bresciano, attraverso le scatole della Bell e dell’HOPA, ricava una plusvalenza di 1,8 miliardi di euro. Acquistando le azioni della Olivetti, mediante OLIMPIA, società creata ad hoc, direttamente dalla Bell, società con sede in Lussemburgo, che, come abbiamo visto, fa capo alla HOPA che a sua volta controlla Telecom, evita la necessità di un OPA su Telecom, che gli avrebbe fatto sborsare molti più soldi, con buona pace dei piccoli azionisti che da tutta questa operazione non ricavano niente. Tronchetti Provera (Pirelli), nel 2000, ha venduto alla Cisco ed alla Coming le attività di produzione di sistemi e componenti ottici, incassando 4,7 miliardi di dollari e, dopo i dividendi agli azionisti, con i restanti 2,7 miliardi di euro è andato alla carica di Telecom. Quella per Telecom è una passione che Pirelli coltiva da tempo e, in questa scalata, si muove con il gruppo bancario di Lazard, antagonista di Mediobanca, e JP Morrgan Chase e con la famiglia Benetton. Anche il quadro politico è cambiato; al governo è subentrato il centro destra e le “ coincidenze” dell’acquisto della Edilnord, del gruppo FININVEST, da parte di Pirelli Real Estate, il settore di Pirelli che opera negli immobili, al prezzo di 211 milioni di euro, prezzo ritenuto sovrastimato, e dell’affossamento del progetto del canale televisivo, la 7, fanno pensare che sull’acquisto ci sia stato, perlomeno, il lasciapassare governativo. Le cose, però, cominciano subito male: l’Olivetti crolla in borsa, c’è l’11 settembre, crollano tutti i principali titoli delle telecomunicazioni. Tronchetti Provera, rinegozia con Gnutti l’importo da pagare ed ottiene che l’HOPA ricompri una piccola quota in Telecom ed è costretto subito a ricapitalizzare le differenze, tra valore di borsa e valore in bilancio, dei titoli di Olivetti, per farlo, contrae nuovi debiti. I debiti Telecom arriveranno a 51 miliardi di euro. La gestione Pirelli si accomuna a quella di Colaninno dal punto di vista delle scatole di controllo di Telecom, che sono ancora di più di HOPA, per il taglio del personale e per la prosecuzione della spogliazione del capitale immobiliare, ceduto a Pirelli Real Estate, per le cessioni di ramo d’azienda, per l’intenzione di spremere TIM, l’allora mucca grassa, scorporandola e incorporandola in Telecom, per l’assenza di investimenti sulla rete. Al contrario di Colaninno, che operava in tempi d’interessi bassi sul costo del denaro, Tronchetti Provera, per rientrare dal debito, vende quasi tutte le società e le quote possedute all’estero. Ma, ciononostante, continua l’andamento negativo della borsa, le azioni calano ulteriormente di valore ( le azioni Telecom nel bilancia di Pirelli sono quotate a 4 euro, ma in borsa ne valgono meno della metà) e la necessità di ricapitalizzare, immettere nuovi soldi, aumenta. Inoltre, l’HOPA di Gnutti incappa nella vicenda dei furbetti del quartierino e quindi diventa un socia scomodo e, perciò, alla scadenza, prevista per il riscatto della quota acquistata in Telecom, Tronchetti Provera è costretto a scaricare lo scomodo socio ed ad immettere nuovi capitali. La famiglia Benetton comincia ad avere mal di pancia e con essa le banche che dovrebbero immettere ulteriori capitali. E, malgrado ulteriori marchingegni sulle scatole di controllo, per far affluire, nel modo più diretto gli utili Telecom ai soci di comando, si arriva ai fatti di questi giorni: la decisione di vendere il 66% di Olimpia, quota che dà diritto al governo di Telecom. Infine, la costante delle gestioni Colaninno-Tronchetti Provera è caratterizzata dal fatto di spremere al massimo Telecom, assegnando alti dividendi agli azionisti, anche quando l’andamento dei profitti non lo giustificherebbe e gli utili andrebbero indirizzati agli investimenti ed alle innovazioni. Ma questo è il mercato, bellezza.

Queste le vicende di questi anni, relative all’assetto proprietario, ripercorriamo, se pur sinteticamente, le loro ricadute sul mondo del lavoro e sulla cittadinanza, nonché i comportamenti di CGIL-CISL-UIL in queste vicende. Cominciamo con l’OCCUPAZIONE. Come abbiamo visto, all’inizio dell’accorpamento delle varie società che operavano nelle telecomunicazioni, gli occupati erano poco più di 124 mila. Ora sono 68.823 quelli in Telecom, bilancio 2006, che uniti a quelli delle altre aziende (Wind, Vodafone, etc) arrivano all’incirca agli 80.000 dipendenti. Come si vede, il saldo negativo supera i 40.000 posti di lavoro. La riduzione è avvenuta, principalmente, attraverso prepensionamenti, mascherati da mobilità (dal 2000 ad oggi, con varie procedure, sono stati avviati alla pensione all’incirca 17.000 dipendenti) - il costo dell’operazione per l’INPS è stato di circa 500 milioni di euro, costituito dall’indennità di mobilità, versate per 3 o 4 anni ai lavoratori, a seconda che gli stesi fossero occupati al centro nord o al sud. Costi che, proseguendo nella tradizione nobile di questo paese, sono stati accollati alla collettività, mentre gli utili, come abbiamo visto, affluivano nelle casse dei vari scalatori. Questo esodo incentivato, nei settori tecnici, ha prodotto l’incremento del fenomeno appalto-sub appalto: in molti casi, si è verificato che i lavoratori posti in mobilità siano andati a lavorare, in nero, per le ditte appaltatrici della stessa Telecom o per le altre aziende che s’immettevano sul mercato. Il fenomeno di appalti e sub-appalti meriterebbe un approfondimento a parte, perché è generalizzato, nel pubblico e nel privato, ed è intimamente connesso a tutte le privatizzazioni. Oltre al mancato rimpiazzo di chi andava in pensione, l’altro strumento utilizzato per diminuire il numero degli occupati è intervenuto grazie alle esternalizzazioni, operate tramite lo strumento delle cessioni di ramo d’azienda. Si tratta, al di là delle terminologie tecniche, di mettere fuori da Telecom settori operativi o parte di essi (ad esempio, motorizzazione, approvvigionamenti, gestione degli immobili, etc) passandoli o ad imprese vicine agli stessi azionisti (Pirelli Re, MP facility, di proprietà delle Coop, TNT, etc) o, peggio ancora, ad aziende inesistenti create ad hoc, cedendo lavoro e lavoratori. In tal modo, il lavoro sporco, porre in mobilità e peggiorare i trattamenti economici e normativi, è assegnato alle aziende che subentrano, mentre i lavoratori e le lavoratrici continuano a svolgere le stesse mansioni, molto spesso, con le stesse attrezzature e negli stessi locali sociali.

LA RETE. GLI INVESTMENTI: gli ultimi risalgono al 1994/96, progetto Socrate, che prevedeva la installazione della fibra ottica in tutte le principali città italiane. Progetto faraonico, interrotto dopo circa un anno e mezzo, perché eccessivamente costoso e, tra l’altro, anche tecnicamente di dubbia validità. Poco dopo ci fu il demenziale tentativo del DECT - il telefono fisso che poteva funzionare da portatile per alcune centinaia di metri, con il quale Telecom faceva concorrenza a se stessa, TIM - abbandonato, dopo aver sprecato circa 450 milioni di euro. Tutti investimenti messi in cantiere dai cosiddetti boiardi di Stato (Pascale-Tommasi, etc). dopo, gli imprenditori padani e della Pirelli interromperanno ogni azione in tal senso, malgrado le dichiarazioni ed i piani industriali, presentati in occasione delle richieste di mobilità. Uguale è il comportamento dei nuovi gestori che, tranne Fastweb che molto limitatamente dispone di una propria rete, si limitano ad affittare da Telecom l’utilizzo e della rete e ad ottenere il proprio profitto dalla differenza tra il prezzo d’affitto e quello proposto ai clienti: un vero e proprio ruolo d’intermediazione, che spesso serve per assicurare guadagni agli amici degli amici, con buona pace sulla retorica del rischio d’impresa e sull’intraprendenza degli imprenditori. Il risultato, come è emerso dalle analisi di questi ultimi mesi, è che sulla rete sarebbero necessari interventi per circa 10 miliardi di euro, in previsione anche degli investimenti per i nuovi sistemi che permetteranno il transito di tutti i servizi(TV-Dati, etc),

LA SEGRETEZZA. Le vicende giudiziarie, in corso a Milano, hanno messo in luce il drammatico problema dell’intercettazioni e ribadito l’importanza del controllo della rete nel sistema delle telecomunicazioni. Sempre secondo l’indagine giudiziaria sarebbero emersi dossiers su 6000 persone, alcuni anche dipendenti Telecom, indagati sui loro orientamenti politici, prodotti dalla premiata ditta Tavaroli-Sasinini-Ghioni-Cipriani-Mancini - tutti managers Pirelli - Telecom, che godevano piena fiducia di Tronchetti Provera, con l’aggiunta del vice capo del SISMI. Sempre secondo l’indagine, la polis d’Istinto, la società d’investigazione dello spione Cipriani, avrebbe fatturato e, quindi, incassato da Telecom-Pirelli, 20 milioni di euro, senza che al vispo Tronchetti Provera ed a nessuno dei vertici aziendali sia venuto un solo dubbio sulla natura e la necessità di così importante spesa. Salvo, scoppiata la bufera giudiziaria, un comunicato di scuse, come se si trattasse di una questione di galateo e non di spionaggio e di democrazia. Intendiamoci, non è che in Telecom, e prima in SIP, i servizi non abbiano svolto il loro ruolo e che le intercettazioni non siano mai esistite; Pecorelli, negli anni 70, nella sua rivista O.P., parlava di una loro presenza nelle telecomunicazioni. Tuttavia, non occorreva essere grandi strateghi nel prevedere che nel dare un così grande potere ad un solo privato, questo potesse essere tentato di usarlo per suo vantaggio o al servizio di terzi. Non c’era bisogno di arrivare al 2007 e alla delibere dell’Autority per capire che la rete rappresenta una struttura strategica indispensabile; lo si sarebbe potuto facilmente dedurre, già al momento della privatizzazione. A proposito della ora ventilata separazione della rete, sarà opportuno seguirne attentamente gli sviluppi, perché, al di là delle presunte volontà dell’Autority è difficile ipotizzare che chi avrà acquistato Telecom sia propenso a perdere i benefici del possesso della rete, a meno che, nella consolidata tradizione della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite, non si trovino soluzioni che scarichino i miliardi di euro dei futuri investimenti sulla collettività.

GLI IMMOBILI. Lo scippo del valore degli immobili, iniziato nel 1994 con l’assorbimento della ex Azienda di stato, è stato portato a termine con la privatizzazione. Basta ricordare che nel 1999 a bilancio della Telecom gli immobili figuravano per un valore di 5 mld. di euro ed ora, nel bilancio 2006, il loro valore è pari a zero. Tutti gli immobili sono stati venduti al valore di 787 euro a metro quadrato e sono stati riaffittati dalla stessa Telecom, per la durata di 30 anni, al prezzo di 33,4 miliardi di euro. Lo scippo degli immobili, iniziato già con Colaninno, è proseguito alla grande con Pirelli; a conferma di ciò, si può constatare che il valore di PIRELLI Real Estate, nel 2001 prima dell’entrata in Telecom, era pari a 1 mld. di euro, ora è di 2,5 mld. TELECOM, EDEN DEI MANAGERS. Il discorso sulle retribuzioni dei vertici aziendali, dagli anni novanta ad oggi, e la cartina tornasole dello spostamento dei rapporti di forza tra le classi sociali, avvenuto in questi anni sia a livello economico sia a quello culturale. La Telecom si è particolarmente distinta in questa redistribuzione del reddito, collocando, dal 2000, i suoi dirigenti ai primi posti nella speciale classifica dei managers più pagati d’Italia, mentre il costo del lavoro, relativo ai dipendenti “normali”, è calato, mediamente, del 4-5% annuo. I vari Buora, Ruggiero, De Benedetti, etc hanno costantemente occupato i primi posti di questa speciale classifica e hanno viaggiato sui 5/7 milioni di euro all’anno, con la performance di Buora del 2006, anno in cui ha percepito 18,8 milioni di euro, ahimè comprensive della liquidazione di Pirelli. Per non parlare, poi, di Colaninno e Tronchetti Provera; il primo nei due anni circa di presenza, tra azioni e compensi, ha avuto guadagni all’incirca di 250 milioni di euro, il secondo, pur avendo conseguito risultati negativi per la Pirelli - il gruppo che ha acquisto Telecom - ha guadagnato, tra stipendi e stock options, 41 milioni di euro all’anno e a fronte di un investimento di 138 milioni ne ha incassati, al termine dell’avventura Telecom, 295.

5. CGIL-CISL-UIL & CO. Negli scenari, sin qui descritti, va sottolineato che CGIL-CISL-UIL & CO hanno tenuto fede al celebre motto “Franza o Spagna, purché se magna”, nel senso che hanno pienamente appoggiato e sostenuto tutti i processi attuati. Anzi, come ogni neofita che si rispetti, sono stati zelanti sacerdoti del libero mercato ed interessati rappresentanti della cogestione, infittendo le stanze della cogestione e della compartecipazione economica - un esempio per tutti il fondo pensioni integrativo (Telemaco), e sottoscrivendo una serie di accordi a perdere a danno di lavoratrici e lavoratori. Hanno cominciato, già, nel 1996, predisponendo, quando ancora l’unica azienda delle telecomunicazioni era Telecom, la trasformazione del contratto nazionale dei lavoratori Telecom in quella di settore delle telecomunicazioni, peggiorando, naturalmente, le condizioni normative ed economiche di partenza, ad esempio soppressione della 14 mensilità, coefficienti, etc. Hanno dato, come scritto sopra, il loro consenso all’uso del TFR per l’acquisto delle azioni, al momento della privatizzazione. Hanno sottoscritto tutte le esternalizzazioni, stipulando accordi d’armonizzazione, salvo offrire, successivamente, un’opposizione di circostanza, di fronte alle preoteste di lavoratrici e lavoratori che inviavano loro diffide a sottoscrivere accordi che li riguardassero. Hanno sottoscritto tutti gli accordi sulla mobilità, a prescindere di chi governasse Telecom, chiudendo gli occhi sull’incremento del fenomeno degli appalti e sub appalti. Hanno dato il loro consenso allo smantellamento del settore informatico aziendale (sia FINSIEL, sia TELECOM), accettando che lo stesso fosse dato in appalto e sub appalto ad una miriade di aziende e azienducole. Hanno appoggiato la crescita di mostri tipo ATESIA, favorendo l’uscita del lavoro da Telecom e TIM e siglando accordi che davano legittimità all’adozione dei contratti CO.CO.CO. nei riguardi di decine di migliaia di lavoratori e lavoratrici. Come le tre scimmiette non hanno visto, sentito e detto nulla sulla vergognosa vicenda delle intercettazioni, malgrado siano presenti in una valanga di commissioni paritetiche a livello nazionale, regionale, provinciale. Al termine di questa sommaria, se pur lunga, ricostruzione della vicenda Telecom, vorrei riallacciarmi al riferimento iniziale della delega affidata a Grillo, quale principale difensore del “popolo Telecom oppresso”, per sottolineare quanto questa innaturale supplenza sia logica e fatale conseguenza dell’assenza di una consistente opposizione, sociale e culturale, alle balle del libero mercato, del privato è bello, della libera concorrenza che favorisce il cittadino consumatore, del siamo tutti sulla stessa barca, della Borsa che non funziona qui in Italia, ma nelle altre parti , invece.. . La privatizzazione di Telecom ha dimostrato che è stato sperperato un capitale pubblico nell’ambito di un settore fondamentale per lo sviluppo di qualsiasi Paese. La cosiddetta tutela del cittadino consumatore, del piccolo azionista, che, sostituendo il conflitto capitale-lavoro, dovrebbe agire a favore del libero mercato e, quindi, secondo la logica imperante, per il bene di tutti, rappresenta una grande mistificazione, funzionale al profitto di pochi. In nome del promesso risparmio tutto è monetizzato : si tagliano posti di lavoro e si distrugge ricchezza collettiva. La figura del cittadino-consumatore, al di là do ogni interessata retorica, non è in grado di garantire gli interessi della collettività, né dal punto di vista economico, né etico. Quella del cittadino consumatore è una figura sociale impercepibile, utile a sistemare gli ex tromboni sindacali (vedi federconsumatori-adiconsum) e funzionale alla speculazione finanziaria: ad esempio, si batte sulla grancassa pubblicitaria dell’abolizione della tassa sulla ricarica dei cellulari, ma nessuno si è chiesto, seriamente quanto incida la spesa della comunicazione sui bilanci familiari e come, il diritto a comunicare sia garantito anche alla fasce sociali più svantaggiate. Culturalmente rappresenta un regresso dei valori della società, che finiscono per essere incentrati solo sul consumo e sul risparmio, anziché sull’utilità e la socialità del servizio stesso. Anche la decantata libera concorrenza si rivela un falso mito, sia perché l’intervento dei nuovi gestori non ha prodotto ricchezza, si è limitato alla intermediazione sulle telefonate, sia perché, come evidenzia l’entrata della spagnola Telefonica in Telecom, va avanti il raggruppamento dei gestori sul mercato mondiale: nella logica di mercato chi rimane solo a livello nazionale è fatto fuori. In questo scenario, per il prossimo futuro, sarà opportuno seguire attentamente lo sviluppo della separazione della rete, per cercare di evitare sia delle ulteriori prese per i fondelli, sia che, proseguendo nella consolidata tradizione, non si finiscano per scaricare sulla collettività i costi degli investimenti necessari - 10 miliardi - lasciando i profitti alle banche ed alla speculazione finanziaria.

CUB Lazio