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Energia: uno sguardo all’Europa

ROBERTO BONOMI

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1. Le politiche energetiche europee

Una analisi seppure limitata sull’andamento del setto- re elettrico italiano non può prescindere da alcune consi- derazioni riguardanti i temi dell’energia nel più vasto am- bito europeo. Il vecchio continente, in un contesto di continua cre- scita del fabbisogno energetico, sconta ancora oggi una serie ritardi storici, quali soprattutto la scarsa autosufficienza, una limitata diversificazione dei combustibili, la crescente dipendenza per le importazioni da aree geopolitiche instabili o i colli di bottiglia nelle infrastrutture di trasporto transfrontaliero. Problemi molto al di là dall’essere risolti e che in quest’ultimi anni, specie per quanto attiene all’approvvigionamento energetico, si sono ulteriormente complicati: ciò vale per gli idrocarburi a seguito della guerra in Iraq, dello sviluppo di grandi paesi come la Cina e di eventi circoscritti ma di grande impatto sul delicato equilibrio tra domanda e offerta (come gli uragani che hanno compromesso la capacità di raffinazio- ne USA), sia per il gas con le difficoltà sopraggiunte sulle forniture dall’est europeo (al limite delle possibilità e quindi facilmente condizionabili da una pluralità di fattori) e i recenti allarmi per un accordo tra la Sonatrach algerina e la russa Gazprom, finalizzato al condizionamento dell’offerta su quantità e prezzi verso l’area Euro.

L’aggravamento di queste difficoltà è la migliore riprova del disastro prodotto dalle politiche europee fin dalla fine degli anni ’90. Fu in quel momento decisivo che i problemi sopra richiamati, unitamente ad una campagna strumentale condotta in nome dei consumatori, consentirono lo sfondamento di una potente spinta liberista in seno al Parlamento di Strasburgo, con l’affermazione di una impostazione ideologica in favore dell’apertura dei mercati che forzando gli stessi principi del Trattato - limitativo della concorrenza nei servizi vitali per finalità di interesse pubblico - spalancò la strada ad una massiccia ristrutturazione del capitalismo europeo in questo settore strategico. Una linea d’azione concretizzatasi con una serie di importanti Direttive di cui oggi si possono costatare gli effetti negativi, contraddittori, e che, in buona sostanza, si sono risolte in una drastica riduzione dell’intervento pubblico nel settore che però non ha intaccato i di- versi monopoli né apportato vantaggi tariffari per i cittadini. Sotto questo profilo non è un caso che la stessa Commissione Europea, pur rilevando l’andamento positivo dei prezzi mediamente inferiori in termini reali a quelli di dieci anni indietro, sia oggi costretta ad ammettere una attuazione delle Direttive ancora largamente insufficiente - per non dire minimalista se non addirittura nulla per alcuni specifici paesi - puntando il dito sullo scarsissimo grado di apertura alla concorrenza realizzato nel comparto dell’energia: su questo piano, e in particolare per il settore elettrico, prova ne sia la situazione simbolo francese ancorata al mantenimento del vecchio monopolio EDF (società che peraltro realizza i prezzi di elettricità più bassi d’europa) o, come riflesso di queste difficoltà, le stesse notissime vicende italiane relative alla limitazione del diritto di voto nelle aziende elettriche partecipate alle aziende pubbliche estere non quotate e con posizioni dominanti nel proprio mercato (poi parzialmente rivista).

Una situazione, in definitiva, che di fatto sta conducendo verso un oligopolio di imprese a livello europeo,spesso ex monopoliste nei singoli paesi, che, pur vivendo un processo di progressiva privatizzazione si avvantaggiano della forza derivante dal mantenimento dei vecchi privilegi per stringere alleanze sempre più importanti - e profondamente condizionanti per i singoli paesi e per l’intera Unione - e allo stesso tempo giocare a tutto campo e in piena libertà sui mercati internazionali. In pratica il peggio che potesse accadere.

E tuttavia, lentamente, è emerso anche dell’altro. Pa- rallamente al procedere di questo processo - e anche in ragione dei suoi punti critici evidenti - sono infatti maturate ulteriori e nuove esigenze, in parte confliggenti con l’indirizzo generale in favore del libero mercato dell’energia: materie trattate precedentemente in modo marginale e che in sostanza riportano in primo piano il tema di un intervento regolatore dell’autorità pubblica, quali una migliore efficienza energetica, lo sviluppo delle energie al- ternative e rinnovabili, la lotta ai cambiamenti climatici, l’innovazione tecnologica e, in prospettiva l’adozione di una politica energetica comunitaria capace di coordinare gli orientamenti - spesso contraddittori e contrastanti - dei singoli stati membri.

Una trattazione di rilievo di questi temi si è quindi avuta con due recenti pubblicazioni, l’una del Parlamento europeo e l’altra della Commissione europea: il Libro verde sull’efficienza energetica, del giugno 2005, in cui si definisce un obiettivo di risparmio sui consumi di energia per l’Europa del 20% entro il 2020 e obiettivi ambiziosi per le energie rinnovabili, e, del marzo 2006, il Libro ver- de per una strategia europea per un’energia sostenibile, competitiva e sicura, nel quale la sopraggiunta criticità nella sicurezza degli approvvigionamenti del gas naturale ha spinto i responsabili di Bruxelles a tracciare i lineamenti di una rinnovata politica energetica. In questa prospettiva, è invece della primavera di quest’anno (8 e 9 marzo 2007) l’adozione da parte del Consiglio Europeo del Piano d’azione globale in materia di energia (2007- 2009) “Politica Energetica per l’Europa” (PEE), in cui oltre a ribadire l’esigenza di una tempestiva ed effettiva apertura dei mercati (sia elettrico che del gas) attraverso la separazione delle attività di produzione dalle operazio- ni di rete, l’armonizzazione e il rafforzamento dei poteri delle autorità nazionali di regolamentazione, un migliore coordinamento dei gestori delle reti di trasmissione e un sistema più integrato per gli scambi transfrontalieri - ossia di interventi più coerenti al disegno generale e volti ad una regolazione di sistema prima non prevista - si pone l’accento sulla necessità di un approccio integrato per affrontare i cambiamenti climatici e la prospettiva di uno sviluppo sostenibile, con particolare riferimento alla promozione delle energie rinnovabili nell’Unione (per cui viene fissato un obiettivo concreto del 20% al 2020 sul to- tale dei consumi energetici) e ai biocarburanti (per i quali si stabilisce un contributo, sempre al 2020, del 10% rispetto ai consumi totali di benzina e gasolio per autotrazione).

In definitiva, dopo l’ondata liberista, sul tema dell’energia si intravedono oggi in Europa elementi di novità interessanti, che, in ogni caso, definiscono solo un primo approccio per un cambio di tendenza difficile da realizzare, in ragione delle le numerose - e assenti - variabili economiche e politiche che ne dovrebbero costituire il presupposto e per un contesto di settore, è bene sottolinearlo ancora, che risulta già largamente opzionato dagli interessi nelle grandi corporation europee dell’energia.

2. Evoluzione del sistema elettrico

nazionale dal ’99 a oggi

Il quadro appena descritto può fornire alcune coordinate di riferimento per meglio comprendere la vicenda italiana, che, in gran parte, riflette fedelmente quanto accaduto a livello europeo. Sotto questo aspetto, per ciò che riguarda l’energia elettrica risulta allora importante comprendere la situazione determinatasi a seguito dei processi di riforma in corso, nonché le possibili linee di sviluppo del comparto per i prossimi anni.

Come è noto, il fondamentale punto di svolta per l’avvio della profonda riforma del settore, è stata la Direttiva 96/92, recepita in Italia con il decreto 79/99, il famigerato “decreto Bersani”. E’ altresì noto come detto decreto sia andato ben oltre le richieste europee - limitate agli obiettivi di una timida apertura nell’area della produzione e di una separazione contabile delle imprese integrate - per realizzare un assetto del settore falsamente liberista, sicuramente gradito al capitale industriale e finanziario, al principale monopolista e alle stesse aziende locali ma al- trettanto certamente destinato - questa era la nostra va- lutazione nel ’99 - a produrre guasti importanti per il Paese. L’avanzamento di questo processo, passato ad una svolta fondamentale con l’avvio del dispacciamento di merito economico (aprile 2004) che ha chiuso la fase dei prezzi amministrati, ci consente oggi di focalizzare con più precisione le maggiori criticità del sistema.

Alcuni tra questi principali problemi si trovano nell’area della generazione elettrica, laddove il Decreto Bersani ha imposto all’azienda pubblica una cessione di 15.000 Mw che non ha prodotto vera concorrenza bensì un so- stanziale e negativo oligopolio dei produttori. I fatti ci dicono che i primi sei gruppi di rilevanza nazionale coprono oltre l’80% della produzione, e che in luogo di una auspicata “guerra” commerciale tra imprese abbiamo la triste evidenza di una loro coalizione, di una armata speculativa guidata dalla corazzata Enel, che, ancora oggi, contribuisce al 38% della produzione lorda e al 45% dell’energia destinata al consumo finale. Non casualmente la stessa Autorità di regolazione, nell’indagine del 2006 sul- lo stato di attuazione della liberalizzazione nel settore, ha ripetutamente puntato il dito sulla scarsa concorrenza e sulla posizione dominante di un unico operatore nell’ambito di sostanziale accordo tra imprese. Una situazione non casuale, oltremodo penalizzante per i consumatori e di grande beneficio per i bilanci aziendali - a fronte di margini di profitto nel settore tra i più alti in Italia - che ha soddisfatto le aspirazioni di crescita dei produttori minori e permesso ad Enel di lanciarsi sui mercati internazionali.

Ma questo è solo uno degli aspetti negativi. Insieme al rilevante livello di concentrazione, infatti, si sono determinate situazioni critiche anche sul versante dei combustibili utilizzati e dell’evoluzione del parco di generazione. In particolare l’elemento di maggior spicco che può essere registrato risiede nell’aumento smisurato degli impianti a ciclo combinato (di nuova costruzione o derivanti dalle riconversioni delle centrali ex Enel) alimentati a gas naturale, favoriti dai bassi costi di produzione, dall’alto rendimento e redditività, e dal minore impatto ambientale relativo a parità di energia prodotta: un tipo di sviluppo conseguente alla liberalizzazione - e quindi all’assenza di una politica di programmazione - che ha prodotto una problematica specializzazione del parco italiano in impianti baseload e un accentuato squilibrio nelle fon- ti utilizzate per la produzione dell’energia elettrica, con una conseguente dipendenza dal gas (con cui si alimenta ormai il 65% del termoelettrico) che rendo il settore eccessivamente vulnerabile agli effetti della congiuntura internazionale fatalmente incidente su prezzi e tariffe (rammentando che i prezzi di petrolio e gas sono legati tra loro). Tutti aspetti che oggi dovrebbero condurre le autorità pubbliche a riprendere in mano le redini del comparto, spingendo le imprese ad un riequilibrio nel mix dei combustibili fossili utilizzati e ad un deciso salto di qualità nella produzione da fonti alternative, il cui sviluppo, pur se proposto ripetutamente in ragione della loro riconosciuta convenienza (per il clima, l’ambiente e la salute, ma anche, non secondariamente, per la bilancia dei pagamenti e per la riduzione della dipendenza energetica) non riesce da anni a decollare: prova ne sia la quantità minimale di elettricità da fonti rinnovabili che il Decreto Bersani ha imposto di immettere sul mercato a produttori e importatori, appena un 2 % del totale che il Decreto 387/03 ha poi aumentato di un ulteriore misero 0,35 % annuo, portandola al 3,05 % per il 2007.

Oltre a questo, occorre sottolineare come il grande sviluppo dei cicli combinati abbia determinato altre rilevanti criticità. In primo luogo il continuo aumento - fino ad un vero e proprio sovradimensionamento nominale - della capacità produttiva lorda (cui ha in passato corrisposto un margine di riserva esiguo) senza con questa abbia condotto ad una vera pressione competitiva sul lato dell’offerta o quantomeno risolto il problema delle importazioni di energia elettrica: importazioni che a tutt’oggi non solo ammontano a circa il 14 % del fabbisogno ma risultano oltremodo esposte a variabili non controllabili, come verificatosi nell’estate 2003 a seguito di eventi atmosferici negativi e delle maggiori opportunità di vendita per gli operatori nelle borse europee (a cui si permette ancora di lucrare sul prezzo rivendendo all’estero quella energia importata che potrebbe essere vitale per il paese). In secondo luogo un aumento dell’efficienza complessiva della generazione che non si è risolta in sostanziali vantaggi per il consumatore, aspetto significativo che ci consente alcune considerazioni sul prezzo dell’energia elettrica.

Su questo fronte va riconosciuto come il recente e impressionante aumento del prezzo del petrolio (al livello dei primi anni ’80) e del gas si sia solo parzialmente scaricato sul prezzo dell’energia elettrica, in ragione dei maggiori rendimenti nella generazione di cui si diceva e del nuovo meccanismo di calcolo del prezzo riconosciuto ai produttori: un punto che va segnato a favore delle riforme in corso. E tuttavia deve essere ugualmente riconosciuto come il continuo aumento dei prezzi all’ingrosso segni un sostanziale fallimento delle politiche liberiste, laddove al di là degli elementi non governabili - quali ad esempi la producibilità idroelettrica o l’evoluzione del fabbisogno (giunto a 350.000 GWh, con un aumento me- dio di circa il 2 % annuo) - hanno giocato negativamente una serie di fattori dovuti essenzialmente all’assetto di settore. Tra questi - ripetiamo - il mix inadeguato dei combustibili utilizzati nella generazione (L’Italia è il solo paese europeo ad aver rinunciato al nucleare e, contem- poraneamente, ad avere una quota di produzione elettrica da carbone del 12% contro il 33% della media europea), ma anche il mancato sviluppo delle energie alternative (che se si esclude l’idroelettrico - ormai saturo - e il geo- termico, coprono appena l’1 % della domanda), il prezzo dei certificati verdi e dei diritti di emissione, la disponibilità dei gruppi termoelettrici e le strategie di offerta degli operatori (convenienza delle esportazioni per i grossisti): tutti elementi connessi all’orientamento impresso dalla falsa liberalizzazione, a cui va aggiunta l’azione di cartello svolta dai produttori per trasferire gli aumenti di produttività sui profitti, specialmente di Enel in termini di controllo degli impianti marginali (ossia quelli necessari al soddisfacimento dei picchi di domanda), di indisponibilità dei gruppi termoelettrici (in particolar modo per il programma delle manutenzioni, fattore corresponsabile anche delle criticità manifestatesi nel 2003 e nel 2004) e di condizionamento delle attività di trasmissio ne. Sotto questo ultimo aspetto la riunificazione decisa dal governo tra gestione (GRTN) e proprietà della rete, passate nel 2005 in capo a TERNA spa, rappresenta un tentativo necessario ma comunque insufficiente per limitare almeno in parte il potere dell’ex monopolista. In questa situazione è difficile immaginare un contenimento dei prezzi a breve, e ancora più difficile sperare che la recente apertura generalizzata del mercato - avvenuta formalmente il 1 lugio del 2007 con la possibilità per ogni utente finale di contrattare le condizioni di fornitura - possa produrre benefici reali per i consumatori. Il vero problema è dal lato dell’offerta: la verità è che il sistema complessivo è stato pensato e realizzato per favorire le imprese elettriche, pic- cole o grandi che siano, e non si intravedono all’orizzon- te segnali che possano far sperare in una inversione di tendenza. Oltretutto non va dimenticato come sia ormai prossi- ma una importante revisione del sistema tariffario dome- stico. Da molti decenni la situazione italiana al riguardo è caratterizzata da una struttura tariffaria progressiva - rafforzata dal sistema di imposizione fiscale che non col pisce i bassissimi livelli di consumo - tale per cui il prezzo unitario dell’elettricità aumenta al crescere dei quantitativi di consumo, per lo meno sino ad un certo livello annuo: una impostazione da cui risulta che ancora oggi gli utenti italiani con livelli di consumo più bassi, pari a 600 kWh e 1200 kWh annui, sostengono prezzi molto inferio- ri a quelli medi in Europa (tra il 35 il 50 % in meno), mentre quelli con livello di consumo più elevati sostengono prezzi al di sopra della media europea per il 42-44%. E’ noto come tale sistema trovi origine dalla volontà politica di proteggere le famiglie più povere e di limitare l’uso dell’energia elettrica, una volontà che oggi è invece venuta meno in favore di un indirizzo liberista che di qui a breve, con un transitorio da definire su proposta dell’Autorità per l’energia, condurrà ad una tariffa dove il singolo Kwh avrà lo stesso prezzo a prescindere dai consumi, salvo il mantenimento di alcune condizioni favorevoli per i clienti domestici in stato di disagio economico e in gravi condizioni di salute. In sostanza un assetto che porrà fine alla “tutela di massa” della “fascia sociale”, che produrrà una impennata della domanda con conseguente aumento della “penetrazione elettrica” (in sostanza il fattore di utilizzo dell’energia elettrica, che finora vede l’Italia agli ultimi posti dell’area Ocse) della produzione e, quindi, dei profitti. 3. Considerazioni finali

In conclusione, vi sono più che fondate ragioni per una critica sostanziale al processo di liberalizzazione/privatizzazione impresso al settore elettrico. Ovviamente non è tutto da buttare: la maggiore efficienza produttiva (e quindi anche ambientale) ottenuta nella generazione elettrica, già richiamata, o l’oggettivo trend positivo registrato nella durata delle interruzioni per cliente in bassa tensione, costituiscono risultati importanti che devono essere valutati favorevolmente. E tuttavia, sull’altro piatto della bilancia, pendono troppi e sostanziali elementi di segno contrario. Per sinteticità di esposizione ne abbiamo qui ricordati solo alcuni, ma, anche scontando i tanti aspetti negativi - dagli squilibri sul piano delle fonti e della generazione fino, ad esempio, agli effetti nefasti sul piano occupazionale - ciò che conta è valutare se il tutto alla fine valga la candela, se cioè l’apertura al mercato e ai privati abbia raggiunto lo scopo che ne ha costituito la premessa: vale a dire quello di consegnare ai cittadini e al Paese un vantaggio reale, altrimenti non ottenibile. Un punto, questo, ineludibile, che per l’elettricità - come per molti altri servizi pubblici - non può avere una risposta positiva. A meno che, per interesse del Paese, non si intendano solamente i super profitti delle imprese, gli stipendi milionari dei manager, qualche vantaggio di bottega per gli amici di partito, o, soprattutto, gli interessi del capitale finanziario, il grande beneficiario della svolta liberalizzatrice in Italia che regge le fila dell’intera architettura del settore e che alimenta (insieme alle super bollette pagate dai consumatori) l’assalto di Enel ai mercati internazionali. Difficile in questo contesto immaginare cambiamenti a breve. E tuttavia se la scelta politica di fondo in favore del libero mercato (nonché gli interessi che intorno ad essa si sono consolidati in tutta Europa) appare irreversibile, risulta assolutamente necessario che il movimento sindacale ritorni all’attacco sui temi del contenimento delle tariffe, di un maggiore equilibrio nel mix di combustibili utilizzati (anche per rintuzzare i tentativi di ritorno al nucleare), nella tipologia di impianti e nella loro ubicazione, del risparmio energetico e di un vero svilup- po delle energie alternative, in una che riproponga con forza i temi della programmazione e dell’interesse pubblico, ossia quei temi che in un settore per vocazione monopolistico (nessuno spende miliardi di euro per costruire centrali o impianti che possano correre il rischio di non essere utilizzati) non potranno mai essere garantiti solo dal mercato.

* RdB/CUB Civitavecchia