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TRASFORMAZIONI SOCIALI E SINDACATO

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Lotta per il reddito, centri sociali, sindacalismo metropolitano. Continua la ricerca e la discussione
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Lotta per il reddito, centri sociali, sindacalismo metropolitano. Continua la ricerca e la discussione

LUIGI NARNI MANCINELLI

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1. Una generazione precarizzata

Nato quasi come oggetto di dibattito nelle sole culture underground, il tema della precarietà del lavoro si è ormai imposto clamorosamente a livello nazionale sia nei media mainstream che nella stessa politica istituzionale. Non c’è ormai convegno o articolo di giornale o sito internet che non dedichi spazio alla figura del lavoratore precario, narrandone spesso i problemi ed invocando le più svariate soluzioni per la riduzione o addirittura l’abolizione stessa del precariato. Eppure, perché si arrivasse a questo, abbiamo subìto per anni il coro delle lodi incontrastate della flessibilità, assurta a mito intoccabile e necessario imposto dalle politiche di qualsiasi governo di qualsiasi colore. In effetti la storia della precarizzazione del lavoro e della conseguente ideologia liberista nasce sin dagli anni ottanta, con le prime riforme craxiane della scala mobile, fino ad arrivare al salasso del governo Amato del 1992, che aprirà la stagione dei sacrifici e dell’adeguamento agli standard europei che dura fino ad oggi, alle tormentate vicende del nuovo centrosinistra prodiano. Contrariamente a quanto si possa sostenere in una sede di un qualche partito politico della cosiddetta “sinistra radicale” o di un quotidiano come “Repubblica”, la storia della precarizzazione del lavoro in Italia è la storia politica dei governi di centrosinistra della Seconda Repubblica. Al già citato governo Amato, dobbiamo aggiungere l’azione dei governi di Ciampi, Dini e, dulcis in fundo, Romano Prodi. In questa storia, la tanto conclamata anomalia italiana impersonificata da Silvio Berlusconi ha, nonostante il suo contributo rilevante in tema di legislazione lavorativa, vedi Legge 30, un ruolo appena secondario. Basterebbe citare l’introduzione nel primo governo Prodi del cosiddetto “Pacchetto Treu”, con la nascita del lavoro interinale, per capire di cosa si sta parlando. Assieme all’adeguamento alle politiche monetarie europee, agli strettissimi parametri di Maastricht, all’introduzione della moneta unica, al rapporto deficit-PIL, insomma a tutto l’ampio spettro di politiche liberiste e monetariste, il nostro paese ha subìto negli anni novanta una clamorosa riduzione del potere contrattuale dei salari, del peso dell’organizzazione dei lavoratori e, di conseguenza, dell’uguaglianza sociale. Studi economici seri indicano l’aumento delle diseguaglianze in Italia raggiungere il vertice proprio nel biennio prodiano 1996-1998. L’introduzione di tutto un nuovo arco di figure contrattuali, dai contratti CO.CO.CO, poi “a progetto”, al job on call al ruolo della mediazione privata delle agenzie interinali, hanno portato un’intera generazione a ridurre il proprio potere contrattuale nei confronti delle aziende, sempre più incontrastate padrone di fare e disfare il mercato del lavoro a proprio vantaggio. In questo dislivello crescente tra imprenditori e lavoratori, tra imprese e giovani precari, va collocata quella che gli economisti hanno chiamato la “svolta finanziaria” di un capitale sempre più libero dalla produzione materiale ed alla ricerca del mito di una valorizzazione diretta di denaro a mezzo di denaro, saltando il passaggio obbligato del lavoro umano: “Diversamente dalle teorie sulla fine del lavoro, che di fatto parlavano della fine del lavoro fordista-taylorista, nel postfordismo si è dato un forte aumento del tempo di lavoro e una altrettanto forte riduzione del reddito salariale. ‘Il problema non è la fine del lavoro. Il problema è il lavoro senza fine’ (Cohen, 2001). L’aumento della quantità di lavoro è la conseguenza dell’aggiunta di nuovi blocchi di tempo sociale al tempo di lavoro prettamente esecutivo: il tempo della comunicazione-relazione, il tempo della riflessione, il tempo dell’apprendimento (cfr. Zarifian, 1995, 1996, 2001). Il postfordismo è strutturato in modo da superare la separazione taylorista, sancita dal contratto di lavoro, tra lavoro e lavoratore, tra prestazione lavorativa e corpo del lavoratore. La ‘competenza’, la ‘adattabilità’, la ‘reattività’, il ‘potenziale’ sono i criteri di reclutamento della forza lavoro, di quella giovane in particolare”1. Assieme alla crescita della tipologia post-fordista dell’organizzazione della fabbrica, della diffusione di un’impresa più snella, agile, senza scorte di magazzino, con una produzione just in time in un contesto aperto di concorrenza, il lavoratore si è trovato sempre più spaesato e ricattabile, mentre le sue conoscenze pregresse, il suo bagaglio formativo viene sempre più utilizzato dalle aziende senza retribuzione. Se si investono anni e denaro in una formazione permanente, totale e infinita del lavoratore, spesso non troveremo che aziende disposte a sfruttare corsisti, stagisti, laureati che lavorano, quasi gratis, il doppio di altri lavoratori, ormai sempre di meno, assunti decenni prima con contratti veri. E’ chiaro che questa situazione, il peggioramento crescente della qualità della vita dei lavoratori, la diminuizione continua del reddito dei giovani, il perpetuarsi di interventi rivolti alle sole “famiglie” chiamate a farsi carico di eterni adolescenti sempre più precari e ricattati, non poteva durare così a lungo senza una seria ripercussione nel tessuto della vita sociale di tutto il paese. E’ accaduto così che le culture più attente ed esposte a queste problematiche, sull’onda dell’esplosione del movimento globale nato a Seattle sul fine del 1999, si sono fatte carico, con i loro strumenti e la loro sensibilità, di affrontare questo problema nel vuoto e nell’assenza di sponde politiche pronte a risolvere i problemi di una generazione intera.

2. La strada del Reddito/Salario Garantito

Le proposte di garantire a tutti un reddito o salario sociale affondano la loro origine nei movimenti di contestazione degli anni ’70, dove di fronte alle lotte sul salario della nuova generazione di operai si fece strada la rivendicazione di un salario svincolato dal lavoro come punto programmatico qualificante dell’autonomia operaia. La successiva sconfitta del movimento e la disgregazione del campo operaio, con il superamento del modello fordista di produzione, hanno ridislocato il terreno di ogni rivendicazione di parte proletaria, fino agli anni novanta, dove vecchie proposte si sono confrontate con la nuova situazione complessiva e si è rinnovato il pensiero antagonista. L’emergere delle nuove figure lavorative instabili, prima ancora della precarizzazione contrattuale operata dai governi, hanno riproposto il tema del reddito garantito in un nuovo ambito. Nei Centri sociali di “prima generazione” e nella loro elaborazione teorica si è arrivati a rompere il muro lavorista del movimento operaio tradizionale, il quale ha sempre nutrito forti perplessità di fronte alle proposte alternative alla rivendicazione di aumenti salariali per i già occupati: “L’attualità del reddito di cittadinanza e la sua praticabilità derivano, infatti, proprio dall’analisi delle moderne forme dell’accumulazione dominanti nel mondo capitalistico occidentale. La ristrutturazione tecnologica, esito della diffusione di tecnologie di linguaggio che si sostituiscono o sono complementari alle tradizionali tecnologie meccaniche e ripetitive di stampo taylorista, ha profondamente modificato le forme di erogazione del lavoro e di origine del profitto”2. La richiesta di affrontare la crescente disoccupazione con una base garantita di reddito da distribuire a tutti, piuttosto che provvedere all’inserimento lavorativo dei fuoriusciti dal mondo del lavoro, ha aperto un dibattito tutt’ora in corso, suscitando perplessità, resistenze, ma anche un forte sviluppo di lotte sociali. “Un milione di Lire al mese”, reclamavano negli anni novanta riviste di movimento come Infoxoa, mentra le “Tute Bianche” irrompevano negli studi televisivi di Michele Santoro scandendo lo slogan “Reddito, Lavoro, Dignità”3. Allo stesso tempo, questo filone culturale che potremmo definire, almeno in Italia, prevalentemente di stampo post-operaista, si è incrociato con un altro, più presente all’estero, che aveva sviluppato un eguale percorso di superamento della vecchia cultura antagonista degli anni settanta. Mi riferisco a tutto quell’ambiente che in Francia, Olanda, Belgio, Germania ha portato alla nascita della teoria di un “Basic Income”, di un reddito di “esistenza” sganciato dal lavoro salariato. Questo ambiente è nato spesso nelle culture ecologiste, laddove nascevano i primi movimenti “verdi” in Europa, ha incrociato in Francia le sensibilità più aperte della cultura cattolica, come nel caso dell’adesione all’appello per un reddito di base della famosa rivista “Esprit”, ma non ha trovato un clima favorevole nella sinistra comunista e operaia e nei sindacati. Dalla nascita del movimento che approdò a Genova 2001, nel quale si trovarono a confronto le più svariate tendenze della sinistra vecchia e nuova, abbiamo invece il vero aprirsi del dibattito sul reddito o salario sociale tra movimenti, partiti della sinistra e le organizzazioni del sindacalismo di base. Si sono così sviluppate, frutto di un lavoro di mediazione e spesso di compromesso, diverse proposte, anche portate in Parlamento da petizioni popolari o da esponenti politici “sensibili”, che riguardassero il reddito di cittadinanza. Queste proposte si distribuiscono su un campo teorico differenziato, che risente delle diverse impostazioni analitiche iniziali. Da un estremo di questo campo troviamo la proposta di un reddito di esistenza completamente sganciato dalla prestazione lavorativa e sufficiente al sostentamento del singolo, con una erogazione mensile alta e livellata al salario medio (posizione tipica del Basic Income di Philippe Van Parijs) e distribuito a tutti senza requisiti se non la residenza4. Dall’altro lato, invece, tutte quelle proposte che tendono a considerare l’integrazione salariale, con il “salario sociale”, un momento intermedio e temporaneo orientato alla occupazione: un aiuto offerto esclusivamente ai disoccupati o ai giovani con l’evidente finalizzazione al lavoro. Tra queste due proposte si collocano tutta una serie di soluzioni intermedie, che si avvicinano alla prima o alla seconda ipotesi a seconda della quantità di reddito erogato, delle condizioni poste per l’acquisizione, per la finalizzazione o meno al lavoro. Questo dibattito avviene mentre l’Italia rimane l’unico paese dell’Unione Europea, insieme alla Grecia, a non aver sperimentato praticamente nessuna delle forme di integrazione al reddito presenti negli altri paesi. Queste esperienze andrebbero valutate per i risultati raggiunti, per la loro efficacia a sostegno soprattutto dei giovani: tipici a riguardo sono i sussidi presenti in Olanda e Belgio, come pure le leggi di marca più liberale e di “workfare” di tipo anglosassone. La proposta di “Reddito sociale” avanzata da Cestes Proteo anni fa e riproposta in questi mesi in Parlamento, affronta, a mio parere, la questione su un livello molto avanzato di compromesso delle varie ipotesi in campo: si prevede infatti una integrazione del reddito per una fascia molto ampia di soggetti, siano essi lavoratori o disoccupati, fino ad una quota di diecimila euro annui. In questo modo si supera la divisione del dibattito tra lavoristi ed antilavoristi, spostando il livello sull’accrescimento del potere contrattuale generale di tutti, migliorando le condizioni dei lavoratori e dando una possibilità di dignità e di esistenza ai disoccupati.

3. L’apparizione di San Precario

Quando si parla di reddito sociale è chiaro che ogni riferimento e possibilità di applicazione va inquadrato nel contesto generale dei rapporti di forza e di espansione dei movimenti sociali di lotta contro la gestione neoliberista e tecnocratica che attualmente chiude i possibili spazi di riforma. Per questo motivo la ripresa delle proposte di reddito garantito è stata possibile grazie al continuamento del ciclo cosiddetto “no war”, che da Genova 2001 ha portato alle grandi mobilitazioni sfociate negli eventi di massa del 2003 contro la guerra in Iraq. Intrecciandosi con il discorso di rivolta contro la guerra americana e globale, i movimenti hanno messo in campo una serie di mobilitazioni che hanno aperto uno spazio pubblico contro la precarietà di grande spessore e prospettiva. Se in Francia le lotte popolari contro i contratti di primo impiego per i giovani hanno risposto in maniera immediata ai tentativi di flessibilizzazione e precarizzazione operati dal governo di destra, in Italia, invece, si è dovuto agire recuperando una situazione già da tempo stabilizzata in senso negativo. Le prime campagne con le azioni spontanee di contestazione alle agenzie di lavoro interinale, con la chiusura simbolica e le “sanzioni dal basso” delle sedi dell’intermediazione privata della precarietà, la creazione di sportelli per l’organizzazione di precari operanti nelle “catene” commerciali, i chainworkers, o degli operatori dei call center, sono sfociate nella creazione di un immaginario collettivo contro la precarietà ben raffigurato nell’immagine simbolo di San Precario. Questa operazione di mitopoiesi ha permesso l’unificazione di questi movimenti spontanei con l’azione del sindacalismo di base che si apriva all’organizzazione delle nuove figure lavorative, nonché del movimento dei migranti e di quello per la chiusura dei CPT. La May Day Parade è stato l’evento principale di questo incontro, nel contesto di un approfondimento teorico che dalla richiesta del reddito garantito ha esplorato anche altre strutturazioni del mercato del lavoro che, a livello europeo, potessero portare in avanti il discorso italiano: la proposta di flexicurity, che prende spunto dalla situazione nord-europea, principalmente in Danimarca, consistente nella costruzione di ammortizzatori sociali e di continuità di reddito in assenza di contratti a tempo indeterminato, è tipica di questo sviluppo di nuove possibilità di superamento del precariato. Nell’arco temporale delle May Day europee, il movimento e il sindacalismo di base hanno attraversato questo terreno portando avanti anche altre iniziative di lotta simboliche e non, quali i comitati contro il carovita e per la quarta settimana, nonché le tante autoriduzioni nei supermercati come in altri esercizi commerciali, le occupazioni di case ecc. Questo movimento è stato duramente represso e la quantità di denunce e di processi attualmente in corso testimonia la difficoltà di aprire dal basso una dinamica che faccia della riappropriazione l’elemento di spinta della lotta alla precarietà e dell’adeguamento del reddito a livelli dignitosi.

4. L’esperienza delle lotte per il Reddito nella regione Campania

Nel 2004 si è avuto in Campania uno dei primi esperimenti di legislazione regionale di “Reddito di cittadinanza”, suscitando grandi aspettative in un territorio che, come è noto, presenta forme di disoccupazione elevatissime, collegate ad un grande disagio sociale sia nelle fasce deboli che in quelle giovanili e più istruite. In realtà la Legge regionale, dopo le trattative ed i compromessi fino alla sua stesura definitiva, si è configurata come un mero sussidio familiare di povertà, che sostituiva una misura precedentemente abolita anni addietro. A fronte di 140.000 domande di aventi diritto al sussidio, la Regione ha potuto erogare a soli 7000 nuclei familiari il reddito di cittadinanza, una somma mensile di 350 euro, creando così scontento e malumori, aumentati dalle critiche sulla poca trasparenza della gestione delle graduatorie5. Questa Legge, nonostante tutti i suoi limiti, è servita comunque alla crescita ed all’organizzazione di un movimento per il reddito in tutta la Regione Campania. La creazione di sportelli da parte delle RdB/CUB insieme ai Centri sociali campani è stata un’esperienza significativa che ha tentato di canalizzare l’esigenza di reddito e le aspettative suscitate dal provvedimento in organizzazione di nuove lotte per l’autoriduzione, contro il carovita, per il diritto alla casa, per rilanciare la battaglia sul reddito a livello nazionale ecc. Negli ultimi mesi, con l’approvazione del nuovo Bilancio regionale per il 2007, i fondi per il reddito di cittadinanza sono stati praticamente tagliati fino a far prevedere una prossima conclusione dell’esperimento. A questo ha contribuito anche il governo nazionale, che era coinvolto nel finanziamento con una sua quota: nella Finanziaria 2007, oltre ai pesantissimi tagli alla spesa pubblica e ai sacrifici imposti a senso unico, il centrosinistra ha di fatto eliminato ogni aiuto alle esperienze di reddito di cittadinanza a livello regionale, presenti anche in altri luoghi come il Lazio, il Friuli, le Marche ecc., cassando anche la vecchia proposta del Reddito minimo d’inserimento presente nella Legge 328/2000. Questa situazione negativa ha suscitato la ripresa del movimento che, a partire dalla riapertura degli sportelli, sta cercando di collegare la vertenza locale per il rifinanziamento della Legge regionale al discorso più generale delle politiche di welfare del governo italiano. A Salerno, in particolare, abbiamo ripreso l’esperienza passata dello sportello per il Reddito con le RdB/CUB ed il Laboratorio sociale Diana, creando una struttura organizzativa di precari e disoccupati legata direttamente al sindacato di base che possa interagire con i movimenti di lotta dei disoccupati presenti sul territorio ed in generale nelle varie situazioni di conflitto, portando avanti la proposta di Reddito sociale avanzata da Cestes Proteo.

Laboratorio Sociale Diana (Salerno).

C. Marazzi, Capitale e linguaggio, Derive Approdi, 2002, pag. 39.

A. Fumagalli, Flessibilità o precarizzazione del lavoro?, in L’Italia flessibile, manifestolibri, 2003, pag. 61-62.

A. Mantegna e A.Tiddi, Reddito di cittadinanza, Infoxoapress, 1998.

P. Van Parijs e Y.Vanderborght, Il reddito minimo universale, Egea, 2006.

D. Dell’Aquila, Disuguaglianza o povertà. Analisi, limiti e prospettive del reddito di cittadinanza regionale, Proteo, 2004 n.2