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Mauro Fotia
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Professore di Sociologia Politica. Fac. Scienze statistiche nell’Università di Roma “La Sapienza”

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Profit State e crisi delle democrazie contemporanee

Mauro Fotia

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1. Capitalismo finanziario e globalizzazione dell’economia

 

 

Lo scenario economico e politico delle democrazie capitalistiche, dopo i tormentati anni Trenta, si ritrova ad affrontare nuove profonde trasformazioni nei primi anni Settanta, trascinandosele dietro aggravate ogni anno più sino ai nostri giorni.

Due choc petroliferi, il disordine monetario, l’inflazione, il rallentamento del tasso di sviluppo, l’appesantimento del bilancio dello Stato mettono in evidenza un forte peggioramento della performance economica dei maggiori Paesi industriali dell’Occidente.

In particolare, peggiora il trade-off tra disoccupazione e inflazione. L’aumento dei prezzi si accompagna ad un rallentamento della crescita economica di medio periodo e, nel breve termine, a quote più o meno apprezzabili di capacità produttiva inutilizzata. L’inflazione cioè coesiste con la disoccupazione dovuta a difetto di accumulazione di capitale (disoccupazione strutturale) e con la disoccupazione provocata da deficienza di sbocchi (disoccupazione congiunturale). All’accoppiata inflazione strisciante-sviluppo subentra così l’abbinamento dell’inflazione aperta col ristagno (fenomeno detto della stagflazione).

L’intreccio, poi, di queste difficoltà economiche con difficoltà sociali e politiche, specie con quelle derivanti dall’aumento del tasso di conflittualità e della fine anticipata delle legislature, deteriora ulteriormente la situazione.

L’interpretazione di questi fenomeni - e cioè del carattere globale assunto dall’aumento dei prezzi e del suo verificarsi contemporaneamente al ristagno se non alla recessione - diviene materia di grandi controversie tra le diverse scuole economiche.

Tra le spiegazioni più rilevanti, due meritano di essere ricordate per l’importanza assunta nel dibattito scientifico e politico: la neomarxista da un lato, quella neoliberista dall’altro.

La prima spiegazione inserisce il problema della crisi nell’ambito di una più generale teoria dello stato e dei rapporti tra stato e società civile nei sistemi a capitalismo maturo. Nell’analisi di Offe, ad esempio, le tendenze autodistruttive immanenti al capitalismo stesso non sarebbero risolte, ma solo attenuate o temporaneamente rinviate dai cosiddetti “meccanismi di recupero” [1]. Così, se negli anni Trenta l’intervento economico dello stato aveva permesso di trovare una via d’uscita dalle difficoltà della depressione, oggi la contraddizione tornerebbe a riemergere, manifestandosi nei fenomeni sintetizzati da O’Connor nella nota formula della “crisi fiscale dello stato”  [2]. Alla base vi sarebbe l’esigenza dello stato nel capitalismo maturo di assolvere due esigenze tra loro contraddittorie: sostenere da un lato il processo di accumulazione, e ad un tempo garantire la lealtà e il consenso delle classi subalterne. Nella tensione tra spese sociali per il consenso e sostegni all’investimento si produce un vuoto finanziario che genera crisi fiscale ed inflazione, ed alla lunga l’arresto dello stesso processo di accumulazione.

La spiegazione neo-liberista ricerca invece le ragioni della crisi nell’impatto del modello keynesiano di controllo dell’economia con i meccanismi della democrazia politica. Nella concezione di Keynes, essa sostiene, la gestione pubblica dell’economia doveva essere affidata a saggi od esperti al di sopra delle parti, isolati dal processo politico e liberi di assumere le proprie decisioni indipendentemente dalle “pressioni democratiche”: in tale contesto l’intervento dello stato poteva e doveva essere orientato non solo in senso espansivo ma anche restrittivo, a seconda delle circostanze. Al contrario, l’incontro dei principi keynesiani, ed in particolare l’abbandono del vincolo della parità di bilancio, con le istituzioni della democrazia e quindi con la pressione delle domande sociali sarebbe alla base degli squilibri attuali (crescente deficit di bilancio, stagflazione). Se la soluzione indicata dagli autori di approccio neomarxista era sostanzialmente di superare il capitalismo per salvare le democrazia, la soluzione neoliberista suggerisce di ridurre invece gli spazi di democrazia: isolare i governi dalle pressioni popolari, contenere gli interventi economici dello stato, ripristinare il funzionamento del mercato - in primo luogo del mercato del lavoro [3].

Entrambe queste spiegazioni tuttavia non convincono. Esse hanno alla base un meccanismo interpretativo sostanzialmente simile: il tentativo di spiegare una variabile (la crisi degli anni Settanta e i suoi successivi sviluppi) con una costante (l’incompatibilità tra capitalismo e democrazia).

Meriti tuttavia vanno riconosciuti a quegli studiosi che hanno analizzato taluni gruppi di cause e di circostanze attive, nel lungo termine, nel modificare la scena economica mondiale di questo periodo.

Essi hanno individuato la cornice dell’inflazione e della stagflazione, che stanno a monte dei successivi processi di globalizzazione, nella crescente integrazione dei mercati nazionali, sia dal lato dei prodotti che dal lato dei capitali, e nell’introduzione di elementi politici, non riconducibili alla semplice meccanica delle forze di mercato o alle relazioni economiche tra classi sociali o tra segmenti delle borghesie nazionali e degli establishment politici dei diversi Paesi.

L’integrazione dei mercati ha costituito, nella versione più debole che se ne è data, un fattore permissivo della diffusione dell’inflazione
 così come era stato un elemento necessario nel quarto di secolo post-bellico allo sviluppo economico diffuso nell’area occidentale. L’idea che regge questa ipotesi è quella dell’economia dominante (gli USA) da cui provengono stimoli monetari (sotto forma di accresciuta liquidità internazionale, cioè emissione di dollari che poi circoleranno nel resto del mondo) o stimoli reali (cioè domanda effettiva di merci prodotte dagli altri paesi e importate negli USA), che si traducono nell’addizione di potere d’acquisto ingente o incontrollato nei mercati esteri provocando una combinazione variabile di aumento delle produzioni e aumento dei prezzi.

La tesi dell’integrazione economica internazionale e del connesso ruolo predominante degli USA come fonte dell’inflazione nel resto del mondo, ha ricevuto ulteriore sostegno dallo statuto particolare assunto esplicitamente dal dollaro a partire dall’agosto del 1971, da quando cioè ne fu dichiarata anche formalmente l’inconvertibilità. Da quell’epoca è apparso che l’ultimo riferimento della moneta per eccellenza, cioè della moneta internazionale, ad una condizione oggettiva per la sua emissione e circolazione - cioè alle condizioni di produzione di una merce, l’oro - è venuto meno, conferendo un signoraggio illimitato al paese la cui moneta nazionale serve anche come principale mezzo di pagamento internazionale. Al tempo stesso questa “grande trasformazione” sopraggiunta negli anni ’70 si è venuta ad innestare in una situazione profondamente modificata, rispetto al dopoguerra, nei rapporti economici internazionali. Alla supremazia incontrastata degli USA come paese leader nel progresso tecnico, nella produzione di nuove merci, e come centro finanziario egemone, ha fatto seguito la formazione di due poli in Europa (la Germania) ed in Asia (il Giappone) che reggono le fila dei rapporti economici nelle rispettive aree di influenze ed hanno l’ambizione di contrastare o condividere l’egemonia americana. La fase di trapasso da una situazione all’altra - cioè da rapporti economici internazionali fortemente gerarchizzati a rapporti articolati su più aree o potenze economiche concorrenti - non si è ancora compiuta: l’integrazione economica sorretta da un centro dominante si è rovesciata quindi in una condizione di grande instabilità, di cui la spia fenomenica è data dalle fluttuazioni nei valori reciproci delle monete più rappresentative e dall’andamento a singhiozzo del commercio internazionale.

Qui gli studiosi in questione vengono ad introdurre il secondo gruppo di fenomeni che concorrono a delineare la congiuntura attuale come combinazione di inflazione e ristagno presenti in forme più o meno acute sui singoli mercati nazionali, quelli che abbiamo chiamato prima elementi politici.

Gli economisti includono questi fattori sotto il segno dell’accresciuto “potere di mercato”, attribuendovi un carattere permanente, oppure pensando che essi costituiscano la causa di occasionali (anche se costose, sotto il profilo del benessere collettivo) deviazioni di prezzi e dei redditi dai loro valori normali, di lungo periodo. Il riferimento più immediato all’esercizio di un “potere di mercato” come fonte dell’inflazione internazionale, è il cartello dei paesi produttori di petrolio (Opec) che ha provocato alla fine del 1973, col forte aumento (quasi quattro volte) del prezzo del greggio, il rialzo dei costi e dei prezzi in tutte le economie consumatrici di petrolio.

La “tassa degli sceicchi” ha avuto nel breve periodo un duplice effetto sui paesi importatori di greggio: inflazione dei prezzi e deflazione delle quantità prodotte (a causa delle politiche economiche restrittive adottate da questi paesi per creare, nel settore non petrolifero della bilancia dei pagamenti, un surplus con cui pagare le più costose importazioni di petrolio). Nel medio termine, il rincaro del petrolio si è portato dietro il rincaro di tutte le fonti di energie, una parziale sostituzione delle fonti non petrolifere al petrolio nei consumi dei paesi industrializzati, modifiche nei prezzi relativi dei diversi settori dell’economia dal lato della produzione e cambiamenti negli schemi di domanda della popolazione. Ma la tassa esatta dai produttori di petrolio non è stata riscossa, se non per piccola parte, in termini di merci e servizi, cioè mediante un flusso di accresciute esportazioni di manufatti industriali verso i paesi dell’Opec. Per cui il tentativo dei paesi consumatori di costituire un avanzo nel settore non petrolifero della bilancia dei pagamenti, quando è riuscito, si è risolto in guerra commerciale agli altri paesi, cioè nell’aumentare le quote di mercato a spese degli altri. Il disavanzo petrolifero dei paesi industrializzati si è trasformato in un gigantesco investimento finanziario (per lo più a breve termine): i dollari riscossi dai produttori di petrolio sono stati collocati in obbligazioni, depositi bancari, raramente in azioni. Sono serviti a finanziare operazioni che vanno dalla speculazione nei cambi, ai programmi di investimento alle imprese di pubblica utilità, attraverso le banche satatunitensi e le loro filiali europee. Il carattere prevalentemente liquido degli investimenti finanziari fatti da alcuni grandi esportatori di petrolio ha contribuito all’instabilità dei mercati valutari (con tutte le ripercussioni che ciò ha sui flussi di merci e di capitali da paese a paese) ed ha innescato una mina vagante per la solvibilità delle banche detentrici degli averi in dollari, rendendo concreto il rischio di dissesti bancari a catena [4].

I processi di finanziarizzazione rappresentano peraltro la nuova chiave esplicativa della globalizzazione dei giganteschi fenomeni speculativi che caratterizzano l’economia contemporanea. Per questo gli economisti, come i politologi, più attenti si avvalgono di essa per cogliere le disastrose dinamiche dei fenomeni stessi.

Tanto significativamente mostra il volume di Rita Martufi e Luciano Vasapollo, Profit State, redistribuzione dell’accumulazione e reddito sociale minimo, La Città del Sole, Napoli, 1999. Un lavoro estremamente rigoroso e al contempo impegnato che si presenta come il frutto di circa due anni di ricerche compiute dai due giovani autori con l’ausilio del “Centro Studi di Trasformazioni Economico-Sociali” (CESTES), dell’Unione Popolare, dell’Associazione Progetto Diritti e con il determinante contributo della rivista “Proteo”.

Martufi e Vasapollo colgono puntualmente il nucleo centrale del ciclo ridefinitorio dello sviluppo capitalistico, avviatosi sin dagli anni Settanta, ma giunto a compimento nell’ultimo decennio, nella finanziarizzazione di ogni attività economica di rilievo.

Trattasi invero di una trasformazione diretta a realizzare profitti crescenti e con sempre minore fatica, a conquistare rendite di posizione suscettibili di dilatarsi ogni giorno più, senza arresti. Il capitalismo finanziario infatti promuove investimenti scollegati dai processi di produzione reale. Esclusivamente volti, in altre parole, a massimizzare il profitto complessivo concretato da incrementi di dividendi, interessi, capital gain.

Oltretutto, il sistema finanziario globale, che viene a formarsi in conseguenza dei massicci processi di finanziarizzazione di cui parliamo, risulta estremamente instabile.

Dal 19 ottobre 1987, il “lunedì nero”, in cui gli analisti ritengono si sia sfiorato il totale tracollo della Borsa valori di New York, si è sviluppato un modello estremamente variabile, caratterizzato da frequenti e sempre più gravi sconvolgimenti delle principali borse, dal crollo delle divise nazionali in Europa Orientale e America Latina, nonché dalla caduta a picco dei nuovi “mercati finanziari periferici” (quelli di Messico, Bangkok, Cairo, Bombay), fatti precipitare dalle “vendite di realizzo” e dall’improvvisa ritirata dei grandi investitori istituzionali.

I mercati periferici sono così divenuti il nuovo mezzo per ottenere il surplus dai paesi in via di sviluppo.

Si è sviluppato anche un nuovo ambiente finanziario globale: l’ondata di fusioni di imprese verso la fine degli anni Ottanta ha spianato la strada al consolidamento di una nuova generazione di finanzieri raggruppata intorno alle banche di affari, agli investitori istituzionali, alle società di brokeraggio, alle grandi compagnie di assicurazioni.

In questo processo, le funzioni delle banche commerciali si sono fuse con quelle delle banche di investimento e dei mediatori di borsa.

Pur ricoprendo un ruolo importante nei mercati finanziari, questi “amministratori di denaro” si allontanano sempre più dalle funzioni imprenditoriali nell’economia reale. Le loro attività (che sfuggono al controllo statale) includono transazioni speculative in futures e derivati, e la manipolazione dei mercati valutari. I principali attori finanziari sono di solito coinvolti in “depositi di denaro scottante” nei mercati emergenti dell’America Latina e del Sud-Est asiatico, nonché del denaro riciclato e dello sviluppo di banche private specializzate nel consigliare i clienti ricchi nei tanti paradisi fiscali.

Il giro d’affari delle transazioni di valuta estera è nell’ordine di 1.000 milioni di dollari al giorno, di cui solo il 15 per cento corrisponde all’effettivo scambio di merci e flusso di capitale. In questa rete finanziaria globale, il denaro passa a gran velocità da un paradiso fiscale all’altro, nella forma intangibile di trasferimenti elettronici. Le attività affaristiche legali e illegali si intrecciano sempre più e vengono accumulate ingenti ricchezze private non denunciate.

Favorite dai programmi di aggiustamento strutturale e dalla concomitante deregolamentazione del sistema finanziario, le mafie hanno allargato il raggio d’azione al campo dell’attività bancaria internazionale. In diversi paesi in via di sviluppo, i governi sono sotto l’influenza delle organizzazioni criminali. queste si sono impadronite di numerose proprietà statali mediante programmi di privatizzazione presentati dalla Banca mondiale.

 


[1] Cfr. C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Milano, 1977.

[2] Cfr. J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Torino, 1977.

[3] Cfr. S. Brittan, The economic contradictions of democracy, “British Journal of Political Science”, 1975, aprile, pp. 129-159; J.M. Buchanan - R.E.Wagner, Democracy in deficit: the political legacy of lord Keynes, New York, 1977. Una buona messa a punto del dibattito tra neomarxisti e neoliberisti si ha in L. Bordogna - S. Provasi, I rapporti tra politica e mercato nei paesi capitalistici avanzati: varianti nello sviluppo, differenze nella crisi, “Stato e Mercato”, 1981, n.1.

[4] Cfr. M. D’Antonio, L’arcano della “stagflazione”, “Il Contemporaneo”, supplemento di “Rinascita”, 10 nov. 1978, n.44, dedicato a “La crisi attuale del capitalismo”.