Profit State e crisi delle democrazie contemporanee
Mauro Fotia
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2. Neoliberismo globale e precarizzazione della vita
sociale
Come che sia, non deve perdersi di vista che, da un punto di
vista culturale, siffatta rivoluzione non è niente altro che un naturale
sviluppo delle logiche capitalistiche, delle loro origini legate all’esaltazione
dello spirito individuale d’intrapresa, alla centralità del profitto come
motore dello sviluppo, al ritorno, insomma, agli “spiriti animali” dell’economia
concorrenziale e del mercato autoregolato. Il capitalismo finanziario in effetti
enfatizza l’iniziativa capitalistica, attacca ogni forma di solidarismo,
insegue forme economico-sociali di darwinismo capaci di spazzare via dal mercato
non solo le imprese più deboli, ma anche quelle che in qualsiasi maniera
risultino idonee a contrastare il dominio assoluto dei grandi gruppi, combatte
fortemente tutto ciò che esprime relazioni sociali a contenuto valoriale non
monetizzabile.
Gli archetipi del capitalismo finanziario sono due: quello
anglosassone e quello renano-nipponico. Il primo modello che ha per capostipite
gli Stati Uniti e per proseliti, da due decenni, l’Inghilterra, il Canada e l’Australia,
è contraddistinto in genere da un forte spirito competitivo, dalla preminenza
della tradizione utilitaristica individuale, dalla massimizzazione dei profitti
a breve termine, dalla supremazia delle corporation. Il secondo modello,
tenuto a battesimo dalla Germania e condiviso pur in diversa misura, oltre che
dal Giappone, da vari paesi del nord Europa, si fonda su una combinazione fra
iniziativa privata e politiche economiche pubbliche, sulla ricerca di una
qualche partecipazione, su un intreccio più o meno stretto fra banche e
imprese, sulla programmazione degli investimenti a medio lungo periodo. Il
referente finanziario per il modello anglosassone è il mercato borsisitico, per
il modello renano-nipponico è il sistema banca-impresa.
Se il primo modello sembra più vantaggioso per efficienza
economica e capacità di reazione alle innovazioni, non lo è altrettanto per
quanto riguarda la distribuzione del reddito e la solidarietà verso le fasce
più deboli della popolazione, e viceversa.
Gli interrogativi sul nostro futuro non riguardano unicamente
l’esito di tale competizione: come essa si concluderà e quale dei due
modelli, o quale altro ancora, riuscirà a imporsi. C’è da chiedersi infatti
se, al di là del successo riportato dal capitalismo in virtù delle sue
maggiori capacità di produrre sviluppo, le sue forme di organizzazione e i suoi
meccanismi siano ora in grado non solo di garantire un’ulteriore crescita dei
paesi più industrializzati ma anche di scongiurare un aggravamento degli
squilibri con il resto del mondo, aiutando le aree più deboli a liberarsi del
fardello dell’indigenza e da uno stato di avvilimento e di emarginazione.
Quel che è avvenuto negli ultimi anni ha modificato
profondamente il quadro di riferimento delle economie più avanzate e, di
conseguenza, anche la natura e i termini dei loro rapporti con i paesi in via di
sviluppo. La sempre più accesa competizione su scala mondiale ha determinato il
decentramento di una quota consistente di attività produttive e di investimenti
diretti, dai paesi più avanzati, caratterizzati tanto da una maggior rigidità
del mercato del lavoro quanto da una più accentuata dinamica salariale, verso
alcune aree periferiche a più basso costo del lavoro dove è possibile inoltre
utilizzare in modo assai più duttile e prolungato, per l’assenza di vincoli
sindacali, sia le prestazioni della manodopera che le potenzialità degli
impianti, e far conto talora su particolari esenzioni in materia fiscale.
In Italia, rilevano gli autori del volume che qui stiamo
analizzando, l’archetipo destinato ad attecchire è quello più aggressivo,
espresso dal capitalismo finanziario anglosassone. L’ipotesi infatti che
sembra affacciarsi di più sul panorama economico-finanziario italiano è quella
di un neoliberismo selvaggio, poco preoccupato delle compatibilità
socio-politiche del modello di sviluppo economico.
Il quadro teorico entro il quale il capitalismo finanziario
si muove a livello mondiale è fornito da una visione ispirata e sorretta dal
famigerato pensiero unico di questi anni, vale a dire dal neoliberismo globale.
Per questo i danni provocati sul piano sociale e politico
sono incommensurabili. Intanto, gli investimenti finanziari nella grande
maggioranza dei casi distruggono ricchezza reale. Riducono gli investimenti
produttivi, mettendo in forse l’efficienza delle imprese e determinando di
conseguenza un alto tasso di disoccupazione ed un incremento dei costi sociali
in genere. Disarticolando inoltre i meccanismi del tessuto produttivo, creano
elementi reddituali e patrimoniali a bassa tassazione, se non addirittura facili
alla totale evasione ed elusione fiscale. L’Italia in questo senso, osservano
Martufi e Vasapollo, in quanto favorita da una Borsa giovane, asfittica,
instabile, appare pronta più che altri Paesi a consentire a i nuovi mercenari
del capitalismo finanziario di rincorrere l’illusione della ricchezza
cartacea. Oltretutto neppure nei casi di forte capitalizzazione borsistica può
darsi per assicurato uno sviluppo dell’economia reale. E così accade spesso
che la “bisca finanziaria” elargisce premi a quelle imprese capaci di
tagliare l’occupazione e diminuire i salari.
Gli alti contenuti di flessibilità lavorativa esigiti dagli
investimenti finanziari sono un altro risultato deleterio di questa forma di
espansione drogata. Per massimizzare i profitti la strada più facile è la
compressione dei redditi da lavoro dipendente, la riduzione dei salari [i].
In questo senso, nel fondo del sistema economico globale s’annida
una pesante contraddizione. Essa scaturisce dalla non compatibilità del
conflitto esistente tra ricerca di nuovi mercati e diffusione del lavoro a basso
costo.
La minimizzazione del costo del lavoro mina l’espansione
del mercato dei consumi, poiché l’impoverimento di vasti settori della
popolazione mondiale, sotto i colpi della riforme macroeconomiche, conduce ad
una drammatica riduzione del potere d’acquisto.
Inoltre, sia nei paesi in via di sviluppo, che in quelli
industrializzati, i bassi livelli dei salari si ripercuotono sulla popolazione,
provocando un’ulteriore sequela di chiusure di stabilimenti e di fallimenti.
Ad ogni stadio di questa crisi, si va incontro alla sovrapproduzione mondiale e
al calo della domanda di consumo. Riducendo la capacità di consumo della
società, le riforme macroeconomiche applicate su scala mondiale ostacolano in
definitiva l’espansione del capitale.
In un sistema che genera sovrapproduzione, le aziende e le
società commerciali possono soltanto ampliare i propri mercati, indebolendo o
distruggendo simultaneamente le basi produttive interne dei paesi in via di
sviluppo, ovvero sganciandosi dalla produzione nazionale orientata al mercato
interno. In tale sistema, l’espansione delle esportazioni nei paesi in via di
sviluppo si fonda sul calo del potere d’acquisto interno. La povertà fa da
introduzione all’offerta. I mercati emergenti vengono aperti con la
concomitante sostituzione del sistema produttivo preesistente, le piccole e
medie imprese sono costrette a fallire oppure si trovano obbligate a produrre
per un distributore mondiale, le imprese statali vengono privatizzate o chiuse,
i produttori agricoli indipendenti si impoveriscono [i].
Sul piano sociale generale ne consegue una precarizzazione
dell’intero tessuto collettivo ed un forte abbassamento della qualità della
vita. Fatti che alimentano diffuse e sempre più drammatiche condizioni di
disagio, in particolare fra gli strati più deboli.
3. Privatizzazioni e sostituzione del Welfare State col
Profit State
Tra le misure economiche idonee a far raggiungere il pieno
dominio dei mercati da parte del capitalismo finanziario si distinguono le
privatizzazioni. Il fenomeno delle privatizzazioni, caratteristico dell’ultimo
ventennio, esprime meglio che ogni altro intervento la necessità dei vari
modelli di capitalismo finanziario di mettere in discussione sul piano mondiale
a partire naturalmente dalle nazioni occidentali ad economia avanzata - le
conquiste del movimento operaio. Dando per scontato che le politiche di
mediazione economico-sociali di stampo keynesiano sono divenute oramai
incompatibili.
Si va dall’offerta pubblica di vendita (OPV), assai seguita
nei Paesi occidentali (senza tuttavia escludere Paesi di altri continenti come
il Giappone, la Tailandia, la Malesia), all’asta pubblica, praticata nelle
nazioni dell’Est europeo, unitamente alla procedura dei “buoni cartolari”,
che, dopo esser stati convertiti in azioni, sono stati distribuiti al pubblico a
prezzi vantaggiosi, realizzando una sorta di azionariato popolare. Nei Paesi,
poi, caratterizzati da una situazione di estrema crisi finanziaria, bisognosa di
metodi di dismissioni semplici e rapidi, viene usata la trattativa privata.
Tanto è accaduto in nazioni dell’America Latina quali l’Argentina, il
Brasile, il Cile, la Bolivia, il Messico. E ancora, in Paesi sia avanzati che in
via di sviluppo è stata utilizzata anche la cessione delle azioni ai dipendenti
e ai manager dell’azienda stessa (Employees buy out). Infine,
seppure a livello locale, negli Stati Uniti, in Canada, in Inghilterra, in
Giappone, si è ricorsi al metodo della concessione di attività in appalto ai
privati.
Nonostante i processi di ristrutturazione, riconversione,
innovazione tecnologica avviati in seno alle imprese privatizzate, spesso l’aumento
di efficienza e di produttività è stato illusorio. In realtà, è molto
difficile stabilire un nesso tra proprietà dell’azienda e sua efficienza.
Senza dire che gli indicatori tipici di efficienza e produttività aziendale non
sono quasi mai trasportabili dal privato al pubblico e viceversa sulla base di
semplici criteri quantitativi.
In ogni caso fortemente negative sono state le ripercussioni
delle privatizzazioni sul piano della vita sociale e di quella politica.
In campo sociale sono conseguiti dannosi processi di
privatizzazione del pubblico impiego, di desocializzazione di servizi pubblici
di singolare portata civile, come la sanità e l’istruzione, di
aziendalizzazione delle funzioni più tipiche del Welfare State.
Finalità ultima cui tutto appare rivolto è quella di
abbattere ogni situazione che si riveli non dico conflittuale, ma semplicemente
non omologabile alle compatibilità del profitto. Sì da poter dar vita ad un
patto sociale complessivo che annienti ogni antagonismo, da innescare un
panconsociativismo idoneo ad inglobare per intero tutti i rapporti sociali.
Sul piano politico, infine, il disegno palese da portare a
compimento è quello di togliere allo Stato il ruolo di garante e di regolatore
dei conflitti. Poiché gli interessi si aggregano ormai per settori, ragionano i
teorici del neoliberismo globale, non c’è più l’esigenza di pensare in
termini di interessi generali. E dunque lo Stato può liberarsi della sua natura
di entità pubblica. La ristrutturazione moderna delle sue istituzioni deve
ispirarsi ad una visione privatistica delle realtà politiche [1].
Il che, detto in termini ancora più espliciti, afferma la
necessità che lo Stato rivesta il duplice ruolo di trasmettitore in seno al
tessuto sociale delle idee forza della competitività del mercato e di fautore
del raggiungimento del massimo profitto da parte dei grandi gruppi finanziari.
Compito dell’odierno potere politico, lasciano intendere i neoliberisti, non
può essere altro che la sostituzione del Welfare State col Profit
State. Poco importa se con una siffatta operazione esso viene a rendersi
totalmente subalterno al potere economico.
Dopotutto gli assertori come gli operatori della
finanziarizzazione dell’economia a livello mondiale sono i nuovi
colonizzatori, i nuovi assertori della fabbrica sociale generalizzata, gli
apostoli dell’accumulazione flessibile globalizzata. Nessuno può resistere
loro. Essi a tutto il resto aggiungono un pressing che si concretizza in
un vero e proprio terrorismo sociale. Chi non accetta le ricette del
neoliberismo promuove il “disastro mondiale”, rifiuta l’unica strada che
può oggi assicurare la “salvezza dell’umanità”.
4. Strategie di resistenza al capitalismo globale
Tutte queste sono conseguenze di un approccio che vede l’espansione
del mercato in quanto tale saldata al progresso sociale e alla democrazia. E che
guarda alle vaste sacche di povertà, disoccupazione e marginalizzazione sociale
da esso prodotte come a fenomeni transitori destinati ad essere riassorbiti in
breve tempo nella sua circolarità virtuosa. Questo stesso approccio giudica
semplicisticamente l’approdo dell’economia odierna alla globalizzazione come
ineluttabile. Senza preoccuparsi di porsi il problema se l’interdipendenza
economica fra gli Stati non debba essere negoziata; se non si debbano definire e
sostenere forme di sviluppo a livello nazionale; se non vadano corrette,
anziché lasciate inasprire, le ineguaglianze di partenza.
Nonostante il perseguimento dell’utopia neoliberista abbia
prodotto in poco tempo risultati catastrofici e la sua teorizzazione stia
perdendo forza ogni giorno più, la posizione predominante degli scienziati
sociali (economisti e politologi) rimane a favore della promozione di un sistema
economico globale.
[i] M.
Chossudovky, La globalizzazione della povertà. L’impatto delle riforme
del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale , Torino, 1998,
p.9.
[i] M. Chossudovky,
o.c., pp. 217-271. V. pure H.P. Martin - H. Schumann, La trappola della
globalizzazione. L’attacco alla democrazia e al benessere, Bolzano, 1997. Più
specificatamente, per la ragioni che hanno portato il sistema finanziario a
divenire sempre più folle e incontrollabile, cfr. S. Strange, Denaro
impazzito. I mercati finanziari: presente e futuro, Milano, 1999.
[1] Per l’interconnessione
tra economia, società e Stato affermata dai processi di globalizzazione, v. T.
Spybey, Globalizzazione e società mondiale, Trieste, 1998. Ma v. anche E.B.
Kapstein, Governare l’economia globale. La finanza internazionale e lo
stato, Trieste, 1999.