Vietnam: un paese da scoprire
Sergio Ricaldone
Un importante riferimento internazionale per il movimento dei lavoratori
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Sono in molti a chiedersi se il Vietnam, un tempo simbolo di
una lotta eroica, oggi globalizzato, sia ancora un paese comunista. Chi si pone
questa domanda dimostra di non avere ben chiara la durata dei tempi storici
necessari per portare a compimento grandi rivoluzioni sociali e poter dare al
sostantivo comunismo un significato di soddisfacimento totale dei bisogni
materiali che non può che basarsi sul massimo sviluppo delle forze produttive.
Ed è esattamente questa la fase storica processuale che si è aperta per il
Vietnam. Per valutarne bene le difficoltà è bene ricordare che, sebbene siano
passati 29 anni dalla fine ufficiale della guerra, essa è finita sul serio
quando si è concluso 18 anni dopo il micidiale embargo economico degli Stati
Uniti. Da poco più di un decennio si sono cominciate a costruire strutture
economiche moderne che consentono di passare più avanti alla fase socialista e,
forse, a quella comunista; dico forse perché questa è una marcia verso l’ignoto
ancora tutta da sperimentare, ed è un’impresa assai più difficile di tutte
le imprese militari con cui il Vietnam ha stupito il mondo.
Pare che i più delusi da questo adeguarsi del Vietnam alla
nuova fase storica chiamata transizione siano tra coloro che negli anni della
guerra di liberazione avevano scelto il Vietnam come bandiera del loro impegno
politico e ideale. Poi, finita la guerra è calato il sipario sul periodo
eroico, il Vietnam è stato rapidamente archiviato e cancellato dalle agende
della sinistra antagonista senza nemmeno chiedersi come quel paese avrebbe
potuto risorgere dalle ceneri dell’aggressione imperialista più feroce e
devastante del XX secolo, e da cento anni di saccheggio coloniale.
Paradossalmente, i soli che non riescono a togliersi dalla
testa l’incubo vietnamita sono proprio i responsabili di quell’aggressione.
Ogni volta che in quel di Washington prevale la propensione imperialista di
aggredire paesi terzi, riappare il fantasma del Vietnam, quel malessere oscuro
che l’America ha introiettato, chiamato sindrome vietnamita. Un fenomeno che
continua ad avere conseguenze non banali sul piano internazionale ed intacca i
deliri di onnipotenza dell’imperialismo dominante.
Più volte recidivo nella coscienza collettiva degli
americani, quel tormentoso incubo riappare nei momenti in cui la soverchiante
potenza militare degli Stati Uniti si dimostra impotente a piegare la resistenza
dei popoli aggrediti. E permette di capire anche la riluttanza americana ad
iniziare nuove avventure militari contro i cosiddetti stati canaglia,
che, sebbene accusati di ogni sorta di crimine e minacciati di rappresaglie
terrificanti, al momento del dunque, come nel caso della Corea del Nord,
riemerge una prudente cautela ed il timore di ritrovarsi impantanati in nuovi
Vietnam. Che piaccia o no, il Vietnam continua ad essere un soggetto centrale
della politica internazionale.
La pesante cortina di silenzio, interrotta solo da qualche
occasionale distorsione mediatica radical-pannelliana, rende difficile
raccontare cosa sia realmente oggi il Vietnam, né mi pare ci sia tanta voglia
di approfondirla questa conoscenza da parte della sinistra antagonista se non
attraverso l’uso di luoghi comuni fuorvianti come quello che considera
incompatibili comunismo e mercato.
L’incalzare dei problemi e dei dibattiti interni al
Vietnam, connessi alla realizzazione dei programmi dello sviluppo economico,
concedono poco tempo ai ricordi dei tempi gloriosi e alimentano perciò il
sospetto nei disinformati, di un Partito Comunista in fase di mutazione. In
realtà il Partito e il Governo si devono spendere senza risparmio sui problemi
che travagliano la delicata e complessa fase di modernizzazione per poter
rispondere alle legittime aspettative di 80 milioni di vietnamiti. Ma mantengono
del tutto integro il lungo filo conduttore che li lega al loro patrimonio
storico e a quello del movimento comunista del novecento di cui si sentono eredi
e continuatori.
La recente celebrazione del 50° anniversario della battaglia
di Dien Bien Phu e gli intensi preparativi per celebrare nel 2005, con analoga
ampiezza di partecipazione internazionale, altre due importanti date storiche
(il 30° della liberazione e il 60° della fondazione della Repubblica) sono i
passaggi che mantengono viva la memoria e l’orgoglio nazionale del popolo
vietnamita. E ricordano alle persone di poca memoria come la lezione
antimperialista del Vietnam non è mai stata marginale o residuale nelle vicende
del mondo dopo la seconda guerra mondiale ma, al contrario, è stata un fattore
determinante che ha lasciato un segno profondo, di dimensioni planetarie,
soprattutto in quella dei movimenti di liberazione, un segno tuttora perdurante,
anche quando, come è successo da noi, si è smesso di parlarne. Oggi che il
Vietnam, con i suoi eccezionali ritmi di crescita e con i suoi sorprendenti
risultati nella lotta contro la povertà, si colloca tra i paesi con il maggiore
dinamismo economico di tutta l’Asia, al secondo posto dopo la Cina (Rapporto
UNPD 2003), vale la pena di compiere una sommaria escursione nel tempo per
scoprire attraverso quali sofferti passaggi, errori inclusi, poi corretti, il
Vietnam sia pervenuto a questi risultati.
Per un caso un po’ bizzarro, nel corso della mia ultima
recente visita in Vietnam sono stato affiancato da un giovane interprete “saigonese”,
come lui stesso ama definirsi, di nome John, la cui storia personale e la cui
collocazione politica equidistante (non aderire, non sabotare) testimonia, più
di qualsiasi giudizio personale, quali e quante difficoltà abbiano incontrato i
vincitori della guerra di liberazione riunificare un paese spaccato in due per
decenni dalla guerra e dall’occupazione straniera. E con quanta pazienza e
tolleranza (altro che bagno di sangue!) abbiano cercato di superare le nefaste
conseguenze di un modello di vita e di una cultura importata nel sud dai
berretti verdi, dalla CIA e dai B-52.
John ha vissuto da ragazzo la drammatica esperienza dei “boat
people”, insieme alla sua famiglia di ricchi proprietari terrieri, originari
del delta del Fiume Rosso, emigrati nel sud del paese dopo gli espropri e la
collettivizzazione della terra degli anni ‘50. Oltre un milione di persone,
che dopo essersi arricchite con traffici di ogni genere durante gli anni dell’occupazione
americana di Saigon, decisero dopo la fine della guerra di lasciare
volontariamente il paese per “sfuggire”, così si raccontava allora, “le
terribili repressioni dei comunisti del nord” dopo la inevitabile
riunificazione del paese. Fu così che la famiglia di John giunse in quel di
Padova, in condizioni tutt’altro che miserabili, avviando, con consumata
abilità orientale, un’attività commerciale che permise al giovane rampollo
di frequentare la prestigiosa università padovana e, insieme alla laurea, di
imparare un ottimo italiano farcito qua e là di simpatiche espressioni
goldoniane.
Breve. Ora John è tornato da alcuni anni nella sua Saigon
(ostenta qualche difficoltà chiamarla col suo nome Ho Chi Minh Ville). Quando l’ha
lasciata l’avevano convinto di essersi salvato dai cannibali della Nuova
Guinea. Ora si nutre di hamburger e patatine, beve Coca Cola a volontà nei
McDonald e svolge una regolare attività di “tourist operator” guadagnando
mance incluse, il non disprezzabile stipendio di 3000 (tremila) dollari al mese,
mentre un funzionario del Partito, che lui cordialmente detesta, ne guadagna
meno di cento. Non potendo più dipingere se stesso come un perseguitato dei
tirannici nipoti di Ho Chi Minh, quando parla ai turisti occidentali limita al
minimo le informazioni sulla storia sociale e politica del suo paese, specie
quella della seconda metà del XX secolo, dilungandosi invece su quella dei
duemila anni precedenti esibendo una brillante quanto apprezzabile cultura
confuciana e buddista. Il personaggio offre alcuni spunti non banali per capire
che le vere gigantesche difficoltà della loro storia, meno sanguinose ma
sicuramente più complicate, politicamente dovute affrontare dopo la guerra
quando hanno dovuto inventare con alcuni terribili dilemmi: come riunificare un
paese diviso che ha contrapposto per decenni come nemici una metà contro l’altra;
come colmare l’abisso sociale, politico e morale esistente tra il nord
comunista e il sud americanizzato; se e come rendere compatibili la rigida
economia pianificata del nord con quella dominata totalmente dal mercato nero e
dalla corruzione del sud.
Da quasi due decenni i comunisti vietnamiti sono impegnati a
dare risposte a questi drammatici interrogativi. Anziché autoisolarsi in un
austero socialismo egualitario da terzo mondo basato sulle miserabili risorse di
un paese devastato e saccheggiato dalla dominazione coloniale, da 30 anni di
guerra e da 18 anni di embargo, i comunisti vietnamiti hanno scelto la strada
delle riforme per fare uscire ilpaese dalla stagnazione, dal caos macroeconomico
e dalla carestia agricolo-alimentare. Qualche nodo è stato sciolto in piena
autonomia ancor prima della perestroika. A differenza del “big bang”
sovietico e di Gorbaciov, che ha segato il ramo su cui era seduto, l’approccio
vietnamita è stato gradualista senza perdere di vista le conseguenze sociali e
rischi politici di una NEP in versione moderna che, volenti o nolenti, apriva le
porte del paese alla penetrazione del capitale straniero e legittimava il
riformarsi di una borghesia compradora che, nel sud, era comunque riuscita a
mantenere spazi di presenza economica tollerata dal Governo centrale dopo la
riunificazione del paese.
Il 9° Congresso nazionale del Partito, svoltosi ad Hanoi
nell’aprile 2001 può essere considerato a tutti gli effetti la continuazione
della svolta iniziata nel 1986 al 6° Congresso. Si è infatti discusso e deciso
su come proseguire il processo di rinnovamento (doi moi) in un quadro nazionale
segnato da un consistente sviluppo delle forze produttive e da importanti
risultati in campo economico e politico, ma in un contesto di rapporti di forza
su scala internazionale che costringe il Vietnam a compiere scelte strategiche
innovative per fronteggiare al meglio, in una fase che è difensiva, la
globalizzazione imperialista che tende a ristabilire ovunque i poteri del nuovo
ordine e a cancellare in ogni angolo del pianeta ciò che rimane del primo
tentativo di assalto al cielo compiuto dalle rivoluzioni socialiste del XX
secolo.
Coniugare “utopia e stato di necessità” non è mai stato
facile per i comunisti, a cominciare dai grandi leaders dell’Ottobre
sovietico, quando, sconfitta l’idea di una possibile rivoluzione socialista a
dimensione mondiale, dovettero scegliere se e come proseguire il tentativo di
cambiare il mondo mantenendo il potere politico in un solo paese, arretrato e
assediato come la Russia, oppure di prendere atto del fallimento di una impresa
che era stata sconfitta nei paesi più industrializzati. Il Vietnam sta
affrontando una sfida altrettanto difficile per la proporzione delle forze in
campo: da una parte i dominatori del pianeta, vincitori del primo storico round
che ha opposto capitalismo e socialismo, diventati Stati Uniti in testa, i
detentori di una schiacciante superiorità economica, tecnologica e militare.
Dall’altra i paesi con i comunisti ancora al potere come il Vietnam (ma anche
Cuba e la Cina) che non hanno mai mostrato l’intenzione di alzare bandiera
bianca e di riconsegnare il potere ai capitalisti, ma che hanno dovuto rivedere
percorsi, obiettivi e strategie di sviluppo economico e sociale, ricalibrando
tempi e modi della fase di sviluppo comunemente definita transizione al
socialismo. Una fase, che pur mantenendo ferma la prospettiva storica, non
è esente da compromessi e da arretramenti sociali dolorosi che, insieme al
processo di accumulazione necessario, reintroducono le calamità tipiche del
capitalismo: corruzione, disoccupazione, disuguaglianze, ecc.
Quando si apre la porta, oltre all’aria fresca, entra lo
sporco, dice un proverbio vietnamita. Di aria fresca ne è entrata parecchia in
questi 15 anni di riforme. C’è stato addirittura un periodo, tra il ‘91 e
il ‘96, che alcuni osservatori stranieri hanno definito, con ottimismo
eccessivo, l’età dell’oro. In dieci anni il PIL è raddoppiato e i
progressi, (al diavolo le statistiche!) sono visibili a occhio nudo. Chi si
ricorda la straziante povertà di 20 anni fa rimane stupefatto dai cambiamenti:
i mercati e i negozi che traboccano di merci e di gente che compra, che la sera
affolla i bar, le gelaterie e i ristoranti. La povertà, beninteso, non è
scomparsa ma non è lontanamente comparabile con la massa di disperati, con il
“popolo dell’abisso” che ti sommerge giorno e notte nelle strade di
Bombay, di Calcutta e nelle sterminate periferie di Lagos. Secondo stime delle
Nazioni Unite nel 1986 il 70% della popolazione vietnamita viveva sotto la
soglia della povertà. Nello spazio di pochi anni il tasso di povertà in
Vietnam è crollato: nel ‘93, secondo dati della Banca Mondiale, era sceso al
50%, poi al 26% nel ‘97 e al 17% nel ‘99.
La rinuncia alla collettivizzazione e la trasformazione del
sistema agrario ha prodotto risultati incoraggianti: la fame è stata sconfitta
e lo sviluppo del settore agro-alimentare (anziché quello dell’industria
pesante) è una delle priorità del governo. Da paese assistito e importatore il
Vietnam è diventato il secondo esportatore al mondo di riso dopo la Thailandia
e uno dei maggiori esportatori di caffè, gomma e prodotti ittici. La speranza
di vita è cresciuta a 68 anni, una delle più alte dell’Asia sud- orientale.
Il paese è uscito dall’isolamento politico in cui era
stato confinato dall’embargo americano. Fa parte a pieno titolo dell’ASEAN,
che da alleanza anticomunista quale era in origine, è diventata area di libero
scambio che consente di esportare a tariffa nulla o irrisoria i beni prodotti in
Vietnam in tutti i paesi membri: Brunei, Cambogia, Filippine, Indonesia, Laos,
Malesia, Birmania, Thailandia e Singapore. Il Vietnam è membro dell’Associazione
dei Paesi dell’Asia e del Pacifico (APEC) che comprende Giappone, Cina e USA,
ed ha lo scopo di liberalizzare progressivamente il commercio dell’area. Sta
conducendo trattative per essere ammessa nel WTO. Sbaglia tuttavia chi pensa che
il Vietnam abbia rinunciato alla sua autonomia e sia diventato subalterno alle
regole dettate dalle istituzioni internazionali come il FMI e la BM.
Il peso delle aziende di stato resta maggioritario: oltre al
controllo dei settori strategici la loro presenza rimane consistente. Ad
esempio, delle 600 aziende tessili operanti in Vietnam alla fine del ‘98, solo
un centinaio sono private. Una delle forme di investimento estero è la Build
operate and transfer. L’investitore straniero costruisce l’opera, la
gestisce fino a ricuperare l’investimento più un congruo profitto, e la
trasferisce infine, a titolo gratuito, al governo vietnamita. Di pari passo
progrediscono le garanzie per i lavoratori dipendenti dai privati. L’Assemblea
Nazionale ha introdotto per legge il diritto di sciopero come forma di protesta
contro il lavoro nero e per far rispettare i diritti sanciti da accordi
sindacali. Dal 1 ottobre ‘99 è stata introdotta (unico paese del sud-est
asiatico) la settimana di 40 ore. Gli iscritti al sindacato erano circa 4
milioni nel 2002; l’adesione è volontaria e le quote vengono raccolte ogni
mese dai collettori.
Il passaggio da un sistema economico pianificato ad “un’economia
di mercato a guida socialista” aperta al commercio internazionale non ha
potuto evitare di esporre il paese alle dinamiche perverse della globalizzazione
imperialista. Un rischio calcolato, ovviamente, ma difficile da evitare quando
sei costretto ad agire in un ambito planetario dominato dal nemico di classe. La
crisi valutaria e finanziaria, che nel 1997 si è abbattuta come un ciclone sull’Asia
orientale travolgendo le economie più dinamiche e mettendo in grave difficoltà
lo stesso Giappone, ha creato non poche difficoltà anche al Vietnam. La
crescita è rallentata, la produzione industriale, pur continuando a crescere si
è allontanata dai livelli record del ‘95/’96; in alcuni settori si è
registrata addirittura una stagnazione. Tuttavia le difese immunitarie del
paese, gestite con prudenza dai comunisti, hanno evitato il peggio successo
invece in Thailandia, Sud Corea e Indonesia. Il Vietnam ha continuato a
crescere, seppure con meno slancio degli anni precedenti (5% annuo, anziché il
9%). Ma si è rapidamente ripreso e i dati odierni lasciano prevedere una
crescita del PIL nel 2004 superiore all’8%.
Tuttavia questo andamento altalenante dello sviluppo è stato
salutare ed ha risvegliato coloro che si erano illusi di avere spianato la via
ad una industrializzazione rapida e indolore, mettendo a nudo alcune distorsioni
del nuovo sistema economico. Sebbene gli indici non siano mai caduti sotto il
segno più, la crisi del ‘97/’98 ha allarmato i dirigenti del paese e ha
aperto un animato confronto interno al Partito all’epoca del 9° Congresso nel
2001, tra chi avrebbe voluto frenare le riforme e coloro che per evitare altri
contraccolpi negativi, insistevano per accelerarle con misure miranti a dare
maggiore stabilità agli investimenti e ad incentivare la modernizzazione dei
settori più arretrati, a cominciare dall’agricoltura che occupa ancora il 70%
della popolazione ed è in parte ferma all’autoconsumo. Molte imprese
vietnamite sono inefficienti, dotate di macchinari che risalgono talvolta all’epoca
coloniale. I nuovi manager si trovano a disagio in un’economia di mercato
priva delle reti di protezione delle sovvenzioni statali. La burocrazia e le
procedure sono ancora troppo lente, spesso esasperanti. Il sistema fiscale sta
muovendo i primi passi ed è esposto alle pratiche elusive e fraudolente della
borghesia compradora.
Il 9° Congresso del Partito è stato molto importante per l’ampiezza
democratica della consultazione. Il dibattito, iniziato nell’ottobre 2000, è
durato parecchi mesi ed ha coinvolto la maggioranza dei 2,4 milioni di comunisti
iscritti al Partito e dei 4 milioni di membri dell’Unione della Gioventù
Comunista Ho Chi Minh. Centinaia di petizioni, documenti ed emendamenti
sono circolati e discussi nel Partito a tutti i livelli. Tutto è stato messo in
discussione, i programmi e gli uomini (e le donne beninteso la cui presenza all’Assemblea
Nazionale, sia detto per inciso, è pari al 27% dei seggi, la più alta di tutta
l’Asia).
Pur avendo assunto in certi momenti un carattere molto aspro
ed una ampiezza di partecipazione alquanto insolita nei partiti comunisti di
cultura eurocentrica, il confronto non è mai sconfinato in rotture e
contrapposizioni ma ha sempre saputo trovare una sintesi molto alta di unità
interna, per le tesi e gli uomini messi in minoranza nel dibattito congressuale.
Ma questo è uno stile che appartiene ormai alla storia dei comunisti vietnamiti
e alla gestione democratica del loro partito anche nelle situazioni più
estreme. I temi più scottanti non sono mai stati elusi con appelli inzuppati
nel dogmatismo e nella ipocrita fedeltà ad altri modelli di edificazione
socialista.
Le esperienze altrui, sempre osservate nel massimo rispetto,
si è sempre cercato di coniugarle con la storia, la cultura, le tradizioni e le
dinamiche di classe del proprio paese, compiendo, quando necessario e senza
nascondere errori e arretramenti, svolte e correzioni di rotta ritenute
necessarie per il bene del paese. Si può dire che il profondo legame dei
comunisti con il popolo sia stato alimentato anche dal coraggio dei gruppi
dirigenti di avere sempre saputo ricercare, e trovare, specie nella lotta contro
la corruzione, un vero ed autentico consenso di massa.
Il grande problema del paese resta quello di colmare il
divario tra i suoi risultati attuali, tutt’altro che disprezzabili, ed un
potenziale di risorse umane giudicato eccezionale se raffrontato a quello delle
altre “tigri” asiatiche. Ridurre questo divario sarà il vero test su cui la
direzione politica del paese sta misurandosi ma anche cogliendo risultati che le
stesse Nazioni Unite giudicano tra i più promettenti.