Le ragioni dell’invasione dell’Iraq da parte degli Usa
non sembrano essere ancora molto chiare se persino nell’editoriale di Limes,
una delle più autorevoli riviste italiane di geopolitica, si giudica come poco
plausibile che i vertici americani abbiano scatenato la guerra per il petrolio
dell’Iraq. Limes sostiene, inoltre, che, per trovare una via d’uscita
alla situazione irachena, bisognerebbe semplicemente sgombrare dalle
menti degli arabi il sospetto che l’interesse occidentale in Mesopotamia sia
il petrolio. Il governo provvisorio dovrebbe, quindi, presentare un piano alle
Nazioni Unite per garantire la destinazione dei proventi del petrolio al popolo
iracheno, limitando, nello stesso tempo, le truppe Usa al controllo delle
frontiere del paese [1].
Ciò è semplicemente impossibile, non solo perché
sarebbe in contraddizione con le ragioni profonde dell’intervento Usa, ma
soprattutto perché il controllo dell’Iraq è vitale per il mantenimento della
posizione dominante americana nel sistema delle relazioni internazionali e per
la loro stessa sopravvivenza come potenza mondiale.
Messe da parte le fantomatiche armi di distruzioni di massa,
mai esistite, e la malvagità del dittatore Saddam, già foraggiato dagli Usa
quando faceva loro comodo, rimangono da indagare le vere cause, essenzialmente economiche,
della guerra.
1. Il ruolo dell’Iraq nel mercato petrolifero internazionale e nel
confronto tra aree valutarie
Cominciamo dalla questione del petrolio. Il potenziale
petrolifero dell’Iraq non ha nulla a che vedere con i 3 milioni scarsi di
barili al giorno del vecchio programma oil for food, organizzato nel
periodo dell’embargo successivo alla Prima Guerra del Golfo. Le riserve
accertate del paese, 112 miliardi di barili, lo collocano al secondo posto
mondiale dopo l’Arabia Saudita. A queste vanno, però, aggiunte quelle
probabili, pari a 220 miliardi e quelle stimate dall’Energy Information Agency
del Dipartimento Americano dell’Energia che fanno salire il totale a 400
miliardi di barili [2]. Se confrontiamo le riserve irachene con quelle mondiali
stimate a 1000 miliardi di barili ci rendiamo conto del peso e dell’importanza
potenziali dell’Iraq nel mercato mondiale del petrolio. Il petrolio iracheno
è, inoltre, in grado di incidere profondamente sul prezzo mondiale del greggio,
in quanto è il più economico da estrarre, con un costo d’estrazione di 1
dollaro a barile contro i 2,5 dell’Arabia Saudita, i 6-8 dollari di Messico e
Russia e i 10 degli Usa. Il greggio dell’Iraq è poi di qualità premium
ed è collocato vicino a vie di transito ottimali per raggiungere tutti i
mercati di sbocco. I pozzi iracheni sono, infine, molto produttivi, permettendo
in media l’estrazione di 13700 barili al giorno contro i 10200 dell’Arabia
Saudita e i 17 degli Usa. Tutto ciò vuol dire che chi domina l’Iraq,
controllando anche il suo petrolio, domina il mercato mondiale di questa
fondamentale materia prima.
Lo sfruttamento di questa enorme ricchezza era stato promesso
da Saddam, ancora durante la fase dell’oil for food, ad altre potenze
che non erano gli Usa ed il Regno Unito, pure egemoni sull’area e sulle sue
ricchezze energetiche sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale. In vista della
fine delle sanzioni, il governo iracheno stipulò contratti con la russa Lukoil,
per lo sfruttamento di pozzi con riserve per 15 miliardi di barili accertati,
con i francesi della Total Fina Elf per 20 miliardi, e con l’Eni per 3
miliardi. Alla fine delle sanzioni gli anglo-americani avrebbero così rischiato
di rimanere fuori dallo sfruttamento delle importanti risorse petrolifere a
favore dei loro più agguerriti concorrenti, che, in aggiunta, potevano vantare
ancora consistenti crediti da esigere nei confronti del governo iracheno.
Ma se il petrolio è fondamentale per il funzionamento delle
moderne economie avanzate e per i lauti profitti che consente alle
multinazionali del settore, la sua importanza va oltre, investendo il
funzionamento del sistema finanziario mondiale e soprattutto i rapporti di forza
e gli equilibri tra le grandi potenze. Infatti, Saddam non si limitò a
stipulare dei contratti con i concorrenti delle multinazionali petrolifere Usa
ma, un anno prima dello scoppio della guerra, fece una scelta che gli sarebbe
risultata fatale, tramutando il fondo dell’oil for food da dollari in
euro, subito seguito dall’Iran che passò all’euro con parte delle sue
riserve valutarie [3]. Se l’Iraq avesse mantenuto l’euro, una volta che le
sanzioni fossero terminate, anche gli altri paesi dell’Opec avrebbero potuto
seguirne l’esempio e, senza meno, lo avrebbero fatto anche la Russia, già
commercialmente molto legata all’Europa, ed il Venezuela di Chavez, molto
critico verso l’egemonia Usa in America Latina. Del resto, la maggioranza
degli scambi commerciali (il 60%) dei principali paesi medio-orientali
produttori di greggio avvengono già con l’area dell’euro.
Nel caso in cui il passaggio delle transazioni petrolifere
all’euro si fosse realizzato, data la centralità sul mercato globale degli
scambi di questa materia prima, ne sarebbe conseguita la fine del dollaro come
moneta di riserva e soprattutto di transazione commerciale internazionale. Ciò
è esattamente quanto gli Usa non si possono permettere, nel modo più assoluto.
Per capirne il perché dobbiamo andare a vedere quale è la
situazione economica degli Usa e confrontarla con quella del loro nuovo sfidante
globale, la potenza emergente dell’UE.
2. La decadenza economica USA ed il ruolo di moneta mondiale del
dollaro
Al termine della Seconda Guerra Mondiale gli Usa detenevano
una egemonia praticamente assoluta non solo politica ma anche economica. In
termini finanziari possedevano 22 miliardi di dollari in oro su un totale
mondiale di 33, in termini industriali producevano oltre il 50% del prodotto
mondiale e commercialmente detenevano circa il 50% delle esportazioni mondiali.
Da diversi decenni a questa parte, all’incirca intorno alla metà degli anni
’70, la capacità d’accumulazione della frazione statunitense del capitale
internazionale ha cominciato a dare segni di una difficoltà strutturale e
soprattutto a perdere colpi nei confronti delle altre economie avanzate, in
primo luogo quelle del Giappone e dell’Europa Occidentale. L’egemonia
economica statunitense si è di fatto dissolta, sostituita da una fase di sempre
più grave decadenza.
La crisi internazionale di sovrapproduzione assoluta di
capitale, ormai in fase conclamata dopo qualche decennio di incubazione, si è
presentata in forme più virulente negli Usa, tanto che il 25% del potenziale
degli impianti industriali è rimasto inutilizzato. Gli Usa hanno accusato in
modo particolarmente forte la recessione, malgrado abbiano provato a scaricarla
su altri paesi, soprattutto su quelli dell’Estremo Oriente e dell’America
Latina, utilizzando la loro forza finanziaria basata principalmente sul ruolo
internazionale del dollaro. La stessa espansione della New Economy e di Internet,
su cui si puntava per la ripresa del ciclo d’accumulazione, si è risolta in
una bolla speculativa, rivelando come gli Usa avessero tentato inutilmente, con
la finanziarizzazione, di trovare soluzione ai problemi della produzione reale.
Nel tentativo di sostenere la crescita economica, in effetti
drogata, lo Stato ha ridotto la tassazione per i ricchi e sovvenzionato le
imprese col risultato di aumentare a dismisura il debito pubblico, arrivato alla
enorme cifra di 520 miliardi di dollari, pari al 5% del Pil (2003). Le spese
della Guerra Preventiva, di cui stanno beneficiando le solite grandi imprese,
specialmente belliche e petrolifere, aggraveranno la situazione del debito
pubblico. La Banca Centrale USA, inoltre, sta tenendo basso il costo del denaro
da anni nel tentativo di sostenere l’economia attraverso i consumi privati,
col risultato di favorire, oltre a quello dello Stato, anche l’indebitamento
delle famiglie e delle imprese, e di determinare la formazione di bolle
speculative di borsa. Nello stesso tempo le basi strutturali del mercato interno
sono erose dal trasferimento di ricchezza dai salari ai profitti in direzione
degli investimenti speculativi.
La difficoltà dell’economia americana è inoltre aggravata
dall’aggiungersi al debito dello Stato anche di quello del commercio estero,
il più alto del mondo in termini assoluti, che presenta un passivo di 40
miliardi al mese, raggiungendo i 6,3 trilioni di dollari, pari a circa il 30%
del reddito annuo statunitense. Se un altro paese avesse un debito della stessa
entità sarebbe immediatamente posto sotto controllo dal Fondo Monetario
Internazionale, cosa impossibile al riguardo degli Usa, che, fra l’altro, nel
FMI sono l’unica nazione con potere di veto.
Come si può vedere dalla tabella n.1, il passivo della
bilancia commerciale statunitense è andato ampliandosi costantemente nel corso
degli ultimi venti anni.
Inoltre, se osserviamo la tabella n. 2, ci accorgiamo che i
principali creditori commerciali non sono i paesi produttori di materie prime,
ma i paesi industrializzati o in via di sviluppo, comunque paesi manifatturieri.
Ciò dimostra una sempre più limitata capacità competitiva
dell’economia Usa e un suo sempre minore peso sul mercato mondiale, a fronte
di un rafforzamento delle altre principali aree capitalistiche, in primo luogo
quella rappresentata dalla UE, con particolare attenzione all’asse
franco-tedesco, che ne è il nucleo di guida, e quella che ruota attorno al
Giappone.
Come possiamo vedere nella tabella n. 3, la quota americana
del commercio mondiale di manufatti ora rappresenta col suo 10,82% (2002) poco
più di un quarto della quota UE (38,18%), che gli si profila davanti come un
gigante commerciale, mentre il Giappone, pur indebolito da una lunga crisi e
bloccato nella sua capacità di esportazione dal protezionismo USA, rappresenta
col suo 6,5% i due terzi dell’export americano. Ad ogni modo, anche nel
commercio internazionale dei servizi la UE sovrasta con la sua quota (44%)
quella degli Usa (18%) [i].
Negli ultimi anni, mentre gli USA hanno visto la loro quota
calare costantemente, l’area UE ha aumentato la sua fetta di mercato mondiale.
La sola somma del valore delle esportazioni della coppia franco-tedesca supera
quello delle esportazioni degli USA, e la Germania in particolare ha fatto
registrare negli ultimi tre anni sensibili incrementi della sua quota di
mercato.
A questa forte presenza europea sul mercato mondiale fa
riscontro un notevole attivo della bilancia commerciale UE (produzione
industriale), pari ad oltre 103mila milioni di dollari (tab. 4).
A tale attivo contribuisce in misura rilevante la Germania,
che ha fatto registrare un andamento della bilancia commerciale in crescita, all’opposto
di quello USA, mentre la Francia riesce a mantenersi in pareggio (tab. 5).
Pure importante rimane l’attivo della bilancia commerciale
del Giappone, che mantiene forte la sua capacità di esportazione (tab. 6).
Ma l’indicatore che forse denota più nettamente la perdita
di competitività da parte degli USA è l’andamento degli investimenti di
capitale destinati all’estero (Ide). Questi, infatti, rappresentano la
capacità di penetrare nei mercati dove le condizioni d’investimento siano
migliori, sia per il più alto saggio di profitto, dovuto a costi di produzione
inferiori, sia per la possibilità di occupare mercati vantaggiosi e ricchi
mediante l’acquisizione di società e brand locali.
Nella tabella n. 7 vediamo come i flussi degli investimenti
esteri in uscita dagli USA siano stati superiori a quelli provenienti dalla UE
ancora fino agli anni ’70, per poi essere raggiunti a partire dagli anni ‘80
e venire superati di parecchie volte negli ultimi anni.
Il peso effettivo degli investimenti all’estero è misurato
dagli stock in uscita, cioè dall’ammontare complessivo delle proprietà e
degli investimenti di capitale che le imprese di un certo paese detengono all’estero.
Nella tabella numero 8 vediamo come negli ultimi venti anni la UE abbia
raggiunto e poi superato gli USA fino a rappresentare nel 2002 con i suoi Ide
tre volte il valore di quelli americani. È da notare che Francia, Germania e
Italia, prese insieme, hanno quasi raggiunto da sole la quota complessiva degli
stock di provenienza USA.
La capacità di investimento all’estero e di esportazione
dei capitali denota soprattutto una capacità espansionistica, fondamentale nel
contesto monopolistico all’interno del quale le principali aree e potenze
capitalistiche mondiali si muovono e competono tra loro. Per questa ragione la
tendenza dominante, nei paesi più avanzati, vede un maggiore incremento dell’esportazione
di capitali su quella di merci. Per questo è importante valutare il peso degli
Ide (stock in uscita) sull’insieme dell’economia di origine. Mentre negli
ultimi tre anni (2000-2002) gli Ide hanno pesato tra il 13 ed il 14% sul Pil
americano, nella UE, presa nel suo complesso, hanno oscillato tra il 38 ed il
41%, con la Germania tra i 26 ed il 30% e la Francia, una delle nazioni europee
con maggiore vocazione all’internazionalizzazione dei capitali, tra il 34 ed
il 46%.
La debolezza produttiva dell’economia USA, consistente in
una più limitata capacità di accumulazione di capitale, è anche dimostrata
dall’eccessiva capitalizzazione di borsa delle sue multinazionali,
specialmente se raffrontata con quella di Germania, Francia e Giappone. Nella
classifica del 2003 delle prime 1000 multinazionali mondiali, mentre i gruppi
composti dalle aziende francesi, tedesche e giapponesi presentano un valore
totale delle vendite superiore a quello del loro valore azionario, le aziende
USA, pari a quasi il 50% del totale, evidenziano una capitalizzazione di borsa
che ammonta a quasi il doppio del valore delle vendite fatturate [4]. Infatti, i capitali, quando faticano a realizzare il profitto
atteso nella produzione diretta, tendono a spostarsi verso la speculazione
finanziaria.
Da quanto abbiamo visto gli Stati Uniti sono
inequivocabilmente in una fase di decadenza economica, che dura ormai da alcuni
decenni, e che si sta aggravando negli ultimi anni. Se riescono a reggerla è
solamente perché possono disporre della moneta di transazione internazionale,
il dollaro. Infatti, dal momento che le transazioni internazionali sono
effettuate nella loro valuta, gli USA possono permettersi di importare
semplicemente stampando dollari e senza dover accumulare riserve valutarie per
effettuare gli acquisti, esportando un corrispondente valore in prodotti.
Inoltre, gli USA possono finanziare il debito dello Stato attraverso l’emissione
di buoni del tesoro, attraendo finanziamenti dalle altre economie. In questo
modo, i due terzi del debito statale USA nel 2003 sono stati pagati dalle
economie asiatiche dei paesi di Nuova Industrializzazione, acquistando titoli di
stato in dollari allo scopo di dare stabilità ed impulso alle loro economie. Si
vede, quindi, che gli USA sono tutt’altro che la pretesa locomotiva dell’economia
mondiale e che quello che cedono importando se lo riprendono abbondantemente per
altra via. Gli Usa, di fatto, sono la principale nazione parassita dell’economia
mondiale, sulla quale gravano con i loro enormi debiti gemelli. In
aggiunta, attraverso il ruolo internazionale del dollaro, gli Usa non solo
sostengono la loro economia ma controllano e limitano a loro favore lo sviluppo
di quelle degli altri paesi. Esattamente come accadde durante la crisi dei paesi
dell’Estremo Oriente, messi in difficoltà dal ritiro dei capitali esteri e
dall’azione di liberalizzazione propugnata dal Fondo Monetario Internazionale,
su suggerimento del Dipartimento del Tesoro USA [5], e, più
recentemente, in Argentina, dove l’adozione del cambio fisso col dollaro ha
condotto al collasso di quella economia. Grazie al possesso di quello che è il denaro
mondiale gli americani hanno potuto dominare sul piano economico, anche a
fronte di aree capitalistiche più dinamiche.
Tutto questo è stato messo in pericolo dall’avvento dell’euro,
che si profila come la prima e vera minaccia al ruolo del dollaro [6].
Infatti, per la UE la creazione dell’euro non attiene alla sola difesa
congiunturale dell’economia europea, ma riguarda la scommessa di una moneta
internazionale che possa rimpiazzare il dollaro nel suo ruolo di moneta
mondiale. La forza dell’euro, come abbiamo visto, sta nel fatto di
rappresentare un’area economica e finanziaria equivalente ed anche superiore,
per molti aspetti, a quella USA.
3. La competizione tra Usa ed UE e la tendenza alla guerra
L’euro è quindi una spada puntata alla gola degli USA. È
per questa ragione che, quando si è prospettato il pericolo di perdere il
controllo del mercato petrolifero e quindi la possibilità di imporre la valuta
di transazione internazionale, con il possibile verificarsi di un effetto a
catena che portasse intere aree economiche sotto l’orbita dell’euro, gli USA
hanno messo sul tavolo del grande gioco mondiale la leva competitiva
sulla quale per il momento non temono confronti, quella militare [7]. Non bastando più le guerre commerciali, ingaggiate con la
UE sui trattati WTO (agricoltura, siderurgia, proprietà intellettuale, ecc.),
gli Usa sono passati alla guerra aperta. Si tratta di una guerra indiretta,
che cioè, sebbene combattuta direttamente dalle Forze Armate Americane,
colpisce l’obiettivo reale, la UE e specificatamente l’asse franco-tedesco,
solo in modo indiretto, mediante l’occupazione dell’Iraq. Le caratteristiche
di questa guerra sono diverse da quelle precedenti, orientate esclusivamente a
tenere a bada le velleità di autonomia dei paesi dipendenti, dal momento che l’obiettivo
strategico da colpire è ora l’ambizione della UE di modificare, sul piano
delle relazioni inter-imperialistiche, i propri rapporti di forza con gli USA.
Secondariamente gli Usa hanno anche l’obiettivo di
controllare, attraverso il dominio dei pozzi petroliferi del Medio Oriente e
dell’Asia Centrale, le economie cinese e giapponese, che da quelle riserve
dipendono e dipenderanno sempre più nel futuro. Anche la Russia, potenziale
alleato strategico della UE e sua riserva energetica, è un altro obiettivo
della Guerra Permanente, specialmente in riferimento al diretto controllo
americano esercitato sugli stati ex sovietici dell’Asia Centrale.
Già Lenin rilevava nel 1916 come l’imperialismo
determinasse l’acuirsi della lotta tra potenze per la spartizione delle
risorse e delle materie prime. Sottolineava, inoltre, che la conquista di un’area
geografica era legata anche alle risorse potenziali e non ancora scoperte,
nonché alla precisa volontà di sottrarle al controllo delle potenze
concorrenti, citando, guarda caso, proprio l’esempio della conquista dell’Iraq
da parte dell’imperialismo britannico durante la Prima Guerra Mondiale [8]. Tutto questo
trova conferma nella realtà attuale, però con una novità importante. Oggi lo
scontro non avviene più soltanto tra potenze imperialiste, ma tra aree
valutarie. È la dimostrazione ulteriore del predominio del capitale
finanziario e del monopolio come caratteristica principale dell’economia
moderna. Infatti, la struttura economica e di classe dominante, che si fonda
sulla diminuzione dei salari e sull’aumento dei profitti, comporta una
tendenza a cercare investimento e profitto all’esterno, con una logica
espansionista che conduce alla competizione tra potenze. Questa è accentuata
dall’effetto combinato di due fattori. Da una parte, si situa il ripresentarsi
della crisi di sovrapproduzione di capitale con il restringimento dei consumi
della classe lavoratrice. Dall’altra parte, abbiamo lo sviluppo ineguale delle
varie aree centrali e dominanti che implica la decadenza di quelle già egemoni
e la conseguente rimessa in discussione dei rapporti di forza precedentemente
stabiliti.
Chi controlla l’Iraq controlla il petrolio mondiale e,
controllando il mercato mondiale di questa fondamentale materia prima, può
favorire od impedire l’affermazione di una nuova valuta internazionale. È per
questa ragione strategica che gli USA non possono ritirarsi dall’Iraq, a meno
che il loro controllo sul petrolio e soprattutto sull’area che va dal Golfo
Persico all’Afghanistan non gli sia garantito. Ma, per il momento e credo per
molto tempo ancora, nessuno, a parte le forze armate USA, potrà farlo. I 97
decreti che Bremer, l’ex proconsole americano in Iraq, ha emanato prima di
ritornare in patria, mirano a garantire il permanere del controllo americano
sull’Iraq, con una minima parvenza di governo locale e ben oltre il cosiddetto
periodo di transizione alla democrazia. Comunque, il controllo sul petrolio
iracheno è assicurato dalla risoluzione Onu numero 1483 che istituisce il Fondo
per lo Sviluppo, in cui confluiscono tutte le rendite petrolifere dell’Iraq e
che è controllato dagli Usa, attraverso Fmi e Banca Mondiale.
L’azione degli Usa non è però, come abbiamo cercato di
evidenziare, inserita in un vuoto di rapporti di forza internazionali. È una
risposta alla minaccia strategica rappresentata dall’euro e da quello che gli
sta dietro, la formazione di una entità economico-politica che ha i mezzi e
soprattutto l’interesse, dato dalla sua struttura economica, basata sui
monopoli e sull’egemonia del capitale finanziario, a competere con l’America.
L’espansione economica e politica ad Est, con l’inglobamento dei paesi ex
sovietici, rappresenta l’allargamento del retroterra commerciale a sostegno
della moneta unica europea e un ponte per l’accesso all’Eurasia con le sue
enormi risorse, il cui controllo è uno degli obiettivi espansivi del capitale
europeo [9]. Insieme alla realizzazione della Costituzione europea
tutto ciò costituisce un percorso che tende alla formazione di una base per la
negoziazione di nuovi rapporti di forza tra aree centrali del capitale
finanziario internazionale a favore della frazione europea.
A quanto è dato di vedere questo movimento sta producendo
due conseguenze. Sul piano interno europeo la tendenza, coerentemente con la
natura monopolistica della formazione economico-sociale europea, ad incanalare
il reddito sociale verso uno sforzo espansivo all’estero, con la conseguenza
di ridurre tutti i vari aspetti del salario, diretto, indiretto (welfare), e
differito (pensioni). Sul piano esterno, l’affermazione di uno stato di guerra
permanente, determinato dall’impossibilità degli Usa di far fronte alla
minaccia economica della UE con altri mezzi. Per il momento l’iniziativa degli
Usa ha messo in scacco la UE, sebbene la gestione militare dei vari scenari
operativi non sia facile per gli Usa. Credo che il futuro sarà legato al
risultato delle scelte dell’asse franco-tedesco e della sua capacità di
aggregare attorno ad un proprio progetto gli altri paesi europei, modificando
ulteriormente i rapporti di forza con gli Usa sul piano non solo economico, ma
anche politico e militare. Questo, però implicherà necessariamente un
coinvolgimento dei lavoratori nei piani di rafforzamento europeo, con modalità
che sono ancora in via di definizione. È in questa fase che bisogna lavorare
per impedire ogni subalternità a quello che è chiaramente un progetto
imperialista [10]
e collegare la lotta per il salario complessivo con la lotta
contro ogni tendenza militare europea e contro la definizione di strutture
statuali sovra-nazionali europee orientate alla politica di potenza.
[1] I quaderni speciali di Limes, Iraq istruzioni per l’uso,
supplemento al n.2 del 2004.
[2] Benito Li Vigni, Le guerre del petrolio, Editori
Riuniti, Roma 2004.
[3] Joaquin Arriola, Luciano Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa,
Jaca Book, Milano 2004; Gianpaolo Caselli, Quel che resta del dollaro, in
Limes n.2 del 2003.
[i] Unctad, Handbook of Statistics On Line, International
Trade in Services.
[4] The
BusinessWeek Global 1000, in BusinessWeek, July 26-August 2, 2004. Le 423
multinazionali USA, presenti nella classifica di BusinessWeek, denunciano un
valore di mercato totale di 10.775.401 dollari a fronte di vendite reali per
5.758.330 dollari, al contrario le 35 imprese tedesche raggiungono un valore di
mercato di 719.770 dollari a fronte di un fatturato di 1.156.213 dollari e le 44
francesi una capitalizzazione di 990.048 dollari contro vendite per 1.113.35
dollari.
[5] Joseph E. Stiglitz, La
globalizzazione ed i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2003.
[6] Vladimiro
Giacchè, L’Europa che non c’è, in Proteo n.2 Maggio-Agosto 2004.
[7] Vladimiro
Giacchè, La debolezza della forza. L’imperialismo americano ed i suoi
problemi, in L. Vasapollo (a cura di), Il piano inclinato del capitale, Jaca
Book, Milano 2004
[8] 10
Lenin, L’imperialismo, Editori Riuniti, Roma 1974.
[9] M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze,
Jaca Book, Milano 2003.
[10] 12 Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa,
in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965.