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Tendenze della competizione globale

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Domenico Moro
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Il conflitto globale: competizione USA-UE

Domenico Moro

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Le ragioni dell’invasione dell’Iraq da parte degli Usa non sembrano essere ancora molto chiare se persino nell’editoriale di Limes, una delle più autorevoli riviste italiane di geopolitica, si giudica come poco plausibile che i vertici americani abbiano scatenato la guerra per il petrolio dell’Iraq. Limes sostiene, inoltre, che, per trovare una via d’uscita alla situazione irachena, bisognerebbe semplicemente sgombrare dalle menti degli arabi il sospetto che l’interesse occidentale in Mesopotamia sia il petrolio. Il governo provvisorio dovrebbe, quindi, presentare un piano alle Nazioni Unite per garantire la destinazione dei proventi del petrolio al popolo iracheno, limitando, nello stesso tempo, le truppe Usa al controllo delle frontiere del paese [1].

Ciò è semplicemente impossibile, non solo perché sarebbe in contraddizione con le ragioni profonde dell’intervento Usa, ma soprattutto perché il controllo dell’Iraq è vitale per il mantenimento della posizione dominante americana nel sistema delle relazioni internazionali e per la loro stessa sopravvivenza come potenza mondiale.

Messe da parte le fantomatiche armi di distruzioni di massa, mai esistite, e la malvagità del dittatore Saddam, già foraggiato dagli Usa quando faceva loro comodo, rimangono da indagare le vere cause, essenzialmente economiche, della guerra.

 

1. Il ruolo dell’Iraq nel mercato petrolifero internazionale e nel confronto tra aree valutarie

Cominciamo dalla questione del petrolio. Il potenziale petrolifero dell’Iraq non ha nulla a che vedere con i 3 milioni scarsi di barili al giorno del vecchio programma oil for food, organizzato nel periodo dell’embargo successivo alla Prima Guerra del Golfo. Le riserve accertate del paese, 112 miliardi di barili, lo collocano al secondo posto mondiale dopo l’Arabia Saudita. A queste vanno, però, aggiunte quelle probabili, pari a 220 miliardi e quelle stimate dall’Energy Information Agency del Dipartimento Americano dell’Energia che fanno salire il totale a 400 miliardi di barili [2]. Se confrontiamo le riserve irachene con quelle mondiali stimate a 1000 miliardi di barili ci rendiamo conto del peso e dell’importanza potenziali dell’Iraq nel mercato mondiale del petrolio. Il petrolio iracheno è, inoltre, in grado di incidere profondamente sul prezzo mondiale del greggio, in quanto è il più economico da estrarre, con un costo d’estrazione di 1 dollaro a barile contro i 2,5 dell’Arabia Saudita, i 6-8 dollari di Messico e Russia e i 10 degli Usa. Il greggio dell’Iraq è poi di qualità premium ed è collocato vicino a vie di transito ottimali per raggiungere tutti i mercati di sbocco. I pozzi iracheni sono, infine, molto produttivi, permettendo in media l’estrazione di 13700 barili al giorno contro i 10200 dell’Arabia Saudita e i 17 degli Usa. Tutto ciò vuol dire che chi domina l’Iraq, controllando anche il suo petrolio, domina il mercato mondiale di questa fondamentale materia prima.

Lo sfruttamento di questa enorme ricchezza era stato promesso da Saddam, ancora durante la fase dell’oil for food, ad altre potenze che non erano gli Usa ed il Regno Unito, pure egemoni sull’area e sulle sue ricchezze energetiche sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale. In vista della fine delle sanzioni, il governo iracheno stipulò contratti con la russa Lukoil, per lo sfruttamento di pozzi con riserve per 15 miliardi di barili accertati, con i francesi della Total Fina Elf per 20 miliardi, e con l’Eni per 3 miliardi. Alla fine delle sanzioni gli anglo-americani avrebbero così rischiato di rimanere fuori dallo sfruttamento delle importanti risorse petrolifere a favore dei loro più agguerriti concorrenti, che, in aggiunta, potevano vantare ancora consistenti crediti da esigere nei confronti del governo iracheno.

Ma se il petrolio è fondamentale per il funzionamento delle moderne economie avanzate e per i lauti profitti che consente alle multinazionali del settore, la sua importanza va oltre, investendo il funzionamento del sistema finanziario mondiale e soprattutto i rapporti di forza e gli equilibri tra le grandi potenze. Infatti, Saddam non si limitò a stipulare dei contratti con i concorrenti delle multinazionali petrolifere Usa ma, un anno prima dello scoppio della guerra, fece una scelta che gli sarebbe risultata fatale, tramutando il fondo dell’oil for food da dollari in euro, subito seguito dall’Iran che passò all’euro con parte delle sue riserve valutarie [3]. Se l’Iraq avesse mantenuto l’euro, una volta che le sanzioni fossero terminate, anche gli altri paesi dell’Opec avrebbero potuto seguirne l’esempio e, senza meno, lo avrebbero fatto anche la Russia, già commercialmente molto legata all’Europa, ed il Venezuela di Chavez, molto critico verso l’egemonia Usa in America Latina. Del resto, la maggioranza degli scambi commerciali (il 60%) dei principali paesi medio-orientali produttori di greggio avvengono già con l’area dell’euro.

Nel caso in cui il passaggio delle transazioni petrolifere all’euro si fosse realizzato, data la centralità sul mercato globale degli scambi di questa materia prima, ne sarebbe conseguita la fine del dollaro come moneta di riserva e soprattutto di transazione commerciale internazionale. Ciò è esattamente quanto gli Usa non si possono permettere, nel modo più assoluto.

Per capirne il perché dobbiamo andare a vedere quale è la situazione economica degli Usa e confrontarla con quella del loro nuovo sfidante globale, la potenza emergente dell’UE.

2. La decadenza economica USA ed il ruolo di moneta mondiale del dollaro

Al termine della Seconda Guerra Mondiale gli Usa detenevano una egemonia praticamente assoluta non solo politica ma anche economica. In termini finanziari possedevano 22 miliardi di dollari in oro su un totale mondiale di 33, in termini industriali producevano oltre il 50% del prodotto mondiale e commercialmente detenevano circa il 50% delle esportazioni mondiali. Da diversi decenni a questa parte, all’incirca intorno alla metà degli anni ’70, la capacità d’accumulazione della frazione statunitense del capitale internazionale ha cominciato a dare segni di una difficoltà strutturale e soprattutto a perdere colpi nei confronti delle altre economie avanzate, in primo luogo quelle del Giappone e dell’Europa Occidentale. L’egemonia economica statunitense si è di fatto dissolta, sostituita da una fase di sempre più grave decadenza.

La crisi internazionale di sovrapproduzione assoluta di capitale, ormai in fase conclamata dopo qualche decennio di incubazione, si è presentata in forme più virulente negli Usa, tanto che il 25% del potenziale degli impianti industriali è rimasto inutilizzato. Gli Usa hanno accusato in modo particolarmente forte la recessione, malgrado abbiano provato a scaricarla su altri paesi, soprattutto su quelli dell’Estremo Oriente e dell’America Latina, utilizzando la loro forza finanziaria basata principalmente sul ruolo internazionale del dollaro. La stessa espansione della New Economy e di Internet, su cui si puntava per la ripresa del ciclo d’accumulazione, si è risolta in una bolla speculativa, rivelando come gli Usa avessero tentato inutilmente, con la finanziarizzazione, di trovare soluzione ai problemi della produzione reale.

Nel tentativo di sostenere la crescita economica, in effetti drogata, lo Stato ha ridotto la tassazione per i ricchi e sovvenzionato le imprese col risultato di aumentare a dismisura il debito pubblico, arrivato alla enorme cifra di 520 miliardi di dollari, pari al 5% del Pil (2003). Le spese della Guerra Preventiva, di cui stanno beneficiando le solite grandi imprese, specialmente belliche e petrolifere, aggraveranno la situazione del debito pubblico. La Banca Centrale USA, inoltre, sta tenendo basso il costo del denaro da anni nel tentativo di sostenere l’economia attraverso i consumi privati, col risultato di favorire, oltre a quello dello Stato, anche l’indebitamento delle famiglie e delle imprese, e di determinare la formazione di bolle speculative di borsa. Nello stesso tempo le basi strutturali del mercato interno sono erose dal trasferimento di ricchezza dai salari ai profitti in direzione degli investimenti speculativi.

La difficoltà dell’economia americana è inoltre aggravata dall’aggiungersi al debito dello Stato anche di quello del commercio estero, il più alto del mondo in termini assoluti, che presenta un passivo di 40 miliardi al mese, raggiungendo i 6,3 trilioni di dollari, pari a circa il 30% del reddito annuo statunitense. Se un altro paese avesse un debito della stessa entità sarebbe immediatamente posto sotto controllo dal Fondo Monetario Internazionale, cosa impossibile al riguardo degli Usa, che, fra l’altro, nel FMI sono l’unica nazione con potere di veto.

Come si può vedere dalla tabella n.1, il passivo della bilancia commerciale statunitense è andato ampliandosi costantemente nel corso degli ultimi venti anni.

Inoltre, se osserviamo la tabella n. 2, ci accorgiamo che i principali creditori commerciali non sono i paesi produttori di materie prime, ma i paesi industrializzati o in via di sviluppo, comunque paesi manifatturieri.

Ciò dimostra una sempre più limitata capacità competitiva dell’economia Usa e un suo sempre minore peso sul mercato mondiale, a fronte di un rafforzamento delle altre principali aree capitalistiche, in primo luogo quella rappresentata dalla UE, con particolare attenzione all’asse franco-tedesco, che ne è il nucleo di guida, e quella che ruota attorno al Giappone.

Come possiamo vedere nella tabella n. 3, la quota americana del commercio mondiale di manufatti ora rappresenta col suo 10,82% (2002) poco più di un quarto della quota UE (38,18%), che gli si profila davanti come un gigante commerciale, mentre il Giappone, pur indebolito da una lunga crisi e bloccato nella sua capacità di esportazione dal protezionismo USA, rappresenta col suo 6,5% i due terzi dell’export americano. Ad ogni modo, anche nel commercio internazionale dei servizi la UE sovrasta con la sua quota (44%) quella degli Usa (18%) [i].

Negli ultimi anni, mentre gli USA hanno visto la loro quota calare costantemente, l’area UE ha aumentato la sua fetta di mercato mondiale. La sola somma del valore delle esportazioni della coppia franco-tedesca supera quello delle esportazioni degli USA, e la Germania in particolare ha fatto registrare negli ultimi tre anni sensibili incrementi della sua quota di mercato.

A questa forte presenza europea sul mercato mondiale fa riscontro un notevole attivo della bilancia commerciale UE (produzione industriale), pari ad oltre 103mila milioni di dollari (tab. 4).

A tale attivo contribuisce in misura rilevante la Germania, che ha fatto registrare un andamento della bilancia commerciale in crescita, all’opposto di quello USA, mentre la Francia riesce a mantenersi in pareggio (tab. 5).

Pure importante rimane l’attivo della bilancia commerciale del Giappone, che mantiene forte la sua capacità di esportazione (tab. 6).

Ma l’indicatore che forse denota più nettamente la perdita di competitività da parte degli USA è l’andamento degli investimenti di capitale destinati all’estero (Ide). Questi, infatti, rappresentano la capacità di penetrare nei mercati dove le condizioni d’investimento siano migliori, sia per il più alto saggio di profitto, dovuto a costi di produzione inferiori, sia per la possibilità di occupare mercati vantaggiosi e ricchi mediante l’acquisizione di società e brand locali.

Nella tabella n. 7 vediamo come i flussi degli investimenti esteri in uscita dagli USA siano stati superiori a quelli provenienti dalla UE ancora fino agli anni ’70, per poi essere raggiunti a partire dagli anni ‘80 e venire superati di parecchie volte negli ultimi anni.

Il peso effettivo degli investimenti all’estero è misurato dagli stock in uscita, cioè dall’ammontare complessivo delle proprietà e degli investimenti di capitale che le imprese di un certo paese detengono all’estero. Nella tabella numero 8 vediamo come negli ultimi venti anni la UE abbia raggiunto e poi superato gli USA fino a rappresentare nel 2002 con i suoi Ide tre volte il valore di quelli americani. È da notare che Francia, Germania e Italia, prese insieme, hanno quasi raggiunto da sole la quota complessiva degli stock di provenienza USA.

La capacità di investimento all’estero e di esportazione dei capitali denota soprattutto una capacità espansionistica, fondamentale nel contesto monopolistico all’interno del quale le principali aree e potenze capitalistiche mondiali si muovono e competono tra loro. Per questa ragione la tendenza dominante, nei paesi più avanzati, vede un maggiore incremento dell’esportazione di capitali su quella di merci. Per questo è importante valutare il peso degli Ide (stock in uscita) sull’insieme dell’economia di origine. Mentre negli ultimi tre anni (2000-2002) gli Ide hanno pesato tra il 13 ed il 14% sul Pil americano, nella UE, presa nel suo complesso, hanno oscillato tra il 38 ed il 41%, con la Germania tra i 26 ed il 30% e la Francia, una delle nazioni europee con maggiore vocazione all’internazionalizzazione dei capitali, tra il 34 ed il 46%.

La debolezza produttiva dell’economia USA, consistente in una più limitata capacità di accumulazione di capitale, è anche dimostrata dall’eccessiva capitalizzazione di borsa delle sue multinazionali, specialmente se raffrontata con quella di Germania, Francia e Giappone. Nella classifica del 2003 delle prime 1000 multinazionali mondiali, mentre i gruppi composti dalle aziende francesi, tedesche e giapponesi presentano un valore totale delle vendite superiore a quello del loro valore azionario, le aziende USA, pari a quasi il 50% del totale, evidenziano una capitalizzazione di borsa che ammonta a quasi il doppio del valore delle vendite fatturate [4]. Infatti, i capitali, quando faticano a realizzare il profitto atteso nella produzione diretta, tendono a spostarsi verso la speculazione finanziaria.

Da quanto abbiamo visto gli Stati Uniti sono inequivocabilmente in una fase di decadenza economica, che dura ormai da alcuni decenni, e che si sta aggravando negli ultimi anni. Se riescono a reggerla è solamente perché possono disporre della moneta di transazione internazionale, il dollaro. Infatti, dal momento che le transazioni internazionali sono effettuate nella loro valuta, gli USA possono permettersi di importare semplicemente stampando dollari e senza dover accumulare riserve valutarie per effettuare gli acquisti, esportando un corrispondente valore in prodotti. Inoltre, gli USA possono finanziare il debito dello Stato attraverso l’emissione di buoni del tesoro, attraendo finanziamenti dalle altre economie. In questo modo, i due terzi del debito statale USA nel 2003 sono stati pagati dalle economie asiatiche dei paesi di Nuova Industrializzazione, acquistando titoli di stato in dollari allo scopo di dare stabilità ed impulso alle loro economie. Si vede, quindi, che gli USA sono tutt’altro che la pretesa locomotiva dell’economia mondiale e che quello che cedono importando se lo riprendono abbondantemente per altra via. Gli Usa, di fatto, sono la principale nazione parassita dell’economia mondiale, sulla quale gravano con i loro enormi debiti gemelli. In aggiunta, attraverso il ruolo internazionale del dollaro, gli Usa non solo sostengono la loro economia ma controllano e limitano a loro favore lo sviluppo di quelle degli altri paesi. Esattamente come accadde durante la crisi dei paesi dell’Estremo Oriente, messi in difficoltà dal ritiro dei capitali esteri e dall’azione di liberalizzazione propugnata dal Fondo Monetario Internazionale, su suggerimento del Dipartimento del Tesoro USA [5], e, più recentemente, in Argentina, dove l’adozione del cambio fisso col dollaro ha condotto al collasso di quella economia. Grazie al possesso di quello che è il denaro mondiale gli americani hanno potuto dominare sul piano economico, anche a fronte di aree capitalistiche più dinamiche.

Tutto questo è stato messo in pericolo dall’avvento dell’euro, che si profila come la prima e vera minaccia al ruolo del dollaro [6]. Infatti, per la UE la creazione dell’euro non attiene alla sola difesa congiunturale dell’economia europea, ma riguarda la scommessa di una moneta internazionale che possa rimpiazzare il dollaro nel suo ruolo di moneta mondiale. La forza dell’euro, come abbiamo visto, sta nel fatto di rappresentare un’area economica e finanziaria equivalente ed anche superiore, per molti aspetti, a quella USA.

 

3. La competizione tra Usa ed UE e la tendenza alla guerra

L’euro è quindi una spada puntata alla gola degli USA. È per questa ragione che, quando si è prospettato il pericolo di perdere il controllo del mercato petrolifero e quindi la possibilità di imporre la valuta di transazione internazionale, con il possibile verificarsi di un effetto a catena che portasse intere aree economiche sotto l’orbita dell’euro, gli USA hanno messo sul tavolo del grande gioco mondiale la leva competitiva sulla quale per il momento non temono confronti, quella militare [7]. Non bastando più le guerre commerciali, ingaggiate con la UE sui trattati WTO (agricoltura, siderurgia, proprietà intellettuale, ecc.), gli Usa sono passati alla guerra aperta. Si tratta di una guerra indiretta, che cioè, sebbene combattuta direttamente dalle Forze Armate Americane, colpisce l’obiettivo reale, la UE e specificatamente l’asse franco-tedesco, solo in modo indiretto, mediante l’occupazione dell’Iraq. Le caratteristiche di questa guerra sono diverse da quelle precedenti, orientate esclusivamente a tenere a bada le velleità di autonomia dei paesi dipendenti, dal momento che l’obiettivo strategico da colpire è ora l’ambizione della UE di modificare, sul piano delle relazioni inter-imperialistiche, i propri rapporti di forza con gli USA.

Secondariamente gli Usa hanno anche l’obiettivo di controllare, attraverso il dominio dei pozzi petroliferi del Medio Oriente e dell’Asia Centrale, le economie cinese e giapponese, che da quelle riserve dipendono e dipenderanno sempre più nel futuro. Anche la Russia, potenziale alleato strategico della UE e sua riserva energetica, è un altro obiettivo della Guerra Permanente, specialmente in riferimento al diretto controllo americano esercitato sugli stati ex sovietici dell’Asia Centrale.

Già Lenin rilevava nel 1916 come l’imperialismo determinasse l’acuirsi della lotta tra potenze per la spartizione delle risorse e delle materie prime. Sottolineava, inoltre, che la conquista di un’area geografica era legata anche alle risorse potenziali e non ancora scoperte, nonché alla precisa volontà di sottrarle al controllo delle potenze concorrenti, citando, guarda caso, proprio l’esempio della conquista dell’Iraq da parte dell’imperialismo britannico durante la Prima Guerra Mondiale [8]. Tutto questo trova conferma nella realtà attuale, però con una novità importante. Oggi lo scontro non avviene più soltanto tra potenze imperialiste, ma tra aree valutarie. È la dimostrazione ulteriore del predominio del capitale finanziario e del monopolio come caratteristica principale dell’economia moderna. Infatti, la struttura economica e di classe dominante, che si fonda sulla diminuzione dei salari e sull’aumento dei profitti, comporta una tendenza a cercare investimento e profitto all’esterno, con una logica espansionista che conduce alla competizione tra potenze. Questa è accentuata dall’effetto combinato di due fattori. Da una parte, si situa il ripresentarsi della crisi di sovrapproduzione di capitale con il restringimento dei consumi della classe lavoratrice. Dall’altra parte, abbiamo lo sviluppo ineguale delle varie aree centrali e dominanti che implica la decadenza di quelle già egemoni e la conseguente rimessa in discussione dei rapporti di forza precedentemente stabiliti.

Chi controlla l’Iraq controlla il petrolio mondiale e, controllando il mercato mondiale di questa fondamentale materia prima, può favorire od impedire l’affermazione di una nuova valuta internazionale. È per questa ragione strategica che gli USA non possono ritirarsi dall’Iraq, a meno che il loro controllo sul petrolio e soprattutto sull’area che va dal Golfo Persico all’Afghanistan non gli sia garantito. Ma, per il momento e credo per molto tempo ancora, nessuno, a parte le forze armate USA, potrà farlo. I 97 decreti che Bremer, l’ex proconsole americano in Iraq, ha emanato prima di ritornare in patria, mirano a garantire il permanere del controllo americano sull’Iraq, con una minima parvenza di governo locale e ben oltre il cosiddetto periodo di transizione alla democrazia. Comunque, il controllo sul petrolio iracheno è assicurato dalla risoluzione Onu numero 1483 che istituisce il Fondo per lo Sviluppo, in cui confluiscono tutte le rendite petrolifere dell’Iraq e che è controllato dagli Usa, attraverso Fmi e Banca Mondiale.

L’azione degli Usa non è però, come abbiamo cercato di evidenziare, inserita in un vuoto di rapporti di forza internazionali. È una risposta alla minaccia strategica rappresentata dall’euro e da quello che gli sta dietro, la formazione di una entità economico-politica che ha i mezzi e soprattutto l’interesse, dato dalla sua struttura economica, basata sui monopoli e sull’egemonia del capitale finanziario, a competere con l’America. L’espansione economica e politica ad Est, con l’inglobamento dei paesi ex sovietici, rappresenta l’allargamento del retroterra commerciale a sostegno della moneta unica europea e un ponte per l’accesso all’Eurasia con le sue enormi risorse, il cui controllo è uno degli obiettivi espansivi del capitale europeo [9]. Insieme alla realizzazione della Costituzione europea tutto ciò costituisce un percorso che tende alla formazione di una base per la negoziazione di nuovi rapporti di forza tra aree centrali del capitale finanziario internazionale a favore della frazione europea.

A quanto è dato di vedere questo movimento sta producendo due conseguenze. Sul piano interno europeo la tendenza, coerentemente con la natura monopolistica della formazione economico-sociale europea, ad incanalare il reddito sociale verso uno sforzo espansivo all’estero, con la conseguenza di ridurre tutti i vari aspetti del salario, diretto, indiretto (welfare), e differito (pensioni). Sul piano esterno, l’affermazione di uno stato di guerra permanente, determinato dall’impossibilità degli Usa di far fronte alla minaccia economica della UE con altri mezzi. Per il momento l’iniziativa degli Usa ha messo in scacco la UE, sebbene la gestione militare dei vari scenari operativi non sia facile per gli Usa. Credo che il futuro sarà legato al risultato delle scelte dell’asse franco-tedesco e della sua capacità di aggregare attorno ad un proprio progetto gli altri paesi europei, modificando ulteriormente i rapporti di forza con gli Usa sul piano non solo economico, ma anche politico e militare. Questo, però implicherà necessariamente un coinvolgimento dei lavoratori nei piani di rafforzamento europeo, con modalità che sono ancora in via di definizione. È in questa fase che bisogna lavorare per impedire ogni subalternità a quello che è chiaramente un progetto imperialista [10]

e collegare la lotta per il salario complessivo con la lotta contro ogni tendenza militare europea e contro la definizione di strutture statuali sovra-nazionali europee orientate alla politica di potenza.


[1] I quaderni speciali di Limes, Iraq istruzioni per l’uso, supplemento al n.2 del 2004.

[2] Benito Li Vigni, Le guerre del petrolio, Editori Riuniti, Roma 2004.

[3] Joaquin Arriola, Luciano Vasapollo, La dolce maschera dell’Europa, Jaca Book, Milano 2004; Gianpaolo Caselli, Quel che resta del dollaro, in Limes n.2 del 2003.

[i] Unctad, Handbook of Statistics On Line, International Trade in Services.

[4] The BusinessWeek Global 1000, in BusinessWeek, July 26-August 2, 2004. Le 423 multinazionali USA, presenti nella classifica di BusinessWeek, denunciano un valore di mercato totale di 10.775.401 dollari a fronte di vendite reali per 5.758.330 dollari, al contrario le 35 imprese tedesche raggiungono un valore di mercato di 719.770 dollari a fronte di un fatturato di 1.156.213 dollari e le 44 francesi una capitalizzazione di 990.048 dollari contro vendite per 1.113.35 dollari.

[5] Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione ed i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2003.

[6] Vladimiro Giacchè, L’Europa che non c’è, in Proteo n.2 Maggio-Agosto 2004.

[7] Vladimiro Giacchè, La debolezza della forza. L’imperialismo americano ed i suoi problemi, in L. Vasapollo (a cura di), Il piano inclinato del capitale, Jaca Book, Milano 2004

[8] 10 Lenin, L’imperialismo, Editori Riuniti, Roma 1974.

[9] M. Casadio, J. Petras, L. Vasapollo, Clash! Scontro tra potenze, Jaca Book, Milano 2003.

[10] 12 Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1965.