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Teoria e storia del movimento operaio

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Alessandro Mazzone
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Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

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Alessandro Mazzone

 

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Le classi nel mondo moderno. La complessità del conflitto (Seconda parte)

Alessandro Mazzone

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È insomma, solo a questa “altezza” della costruzione concettuale che abbiamo, ossia “vediamo” nel loro concetto, le classi come classi; o in altre parole, abbiamo uno strumento concettuale per cominciare a vedere il movimento di classe del corpo sociale complessivo. (Certo, ancora con molte clausole di astrazione, che in parte possono essere sciolte nello sviluppo concettuale ulteriore, in parte invece rimandano all’indagine storico-sociale, e dunque ai dati empirici, che si tratterà di raccogliere, sistematizzare, confrontare con ipotesi ad hoc.) Ed è chiaro, poi, che per intanto si tratta solo delle due classi-base della produzione capitalistica; solo di esse si è parlato fin qui, e solo di esse abbiamo costruito il concetto.

Le classi come classi sono, d’altra parte, qualcosa senza di cui il MPC non è nemmeno pensabile. Perché esso esista, ci devono essere detentori di MP e venditori di forza-lavoro. Ma con questa semplicissima riflessione può forse venir meglio in luce anche il motivo per cui era necessario fare il percorso concettuale (non “della rappresentazione” appunto, ma del puro concetto, e che può esser faticoso per chi non ne ha l’abitudine).

In primo luogo. Il concetto di classe l’abbiamo costruito qui, sulle orme della teoria di Marx, senza aver affatto bisogno di specificare, in nessun momento, che cosa venisse prodotto - se grano, macchine, programmi per computer o cure mediche [in una clinica privata, s’intende]. Basta che si tratti di prodotti-merci, e di merci vendibili, e l’accumulazione ha luogo, ossia “si fa da capitale, plusvalore, e da plusvalore di nuovo capitale” - [cfr. 1,23, inizio]. Non c’è dubbio che le forme, le modalità dell’accumulazione variino nel tempo: e certo esse sono mutate profondamente negli ultimi 30 anni, e continuano a mutare. Di fronte a questo fenomeno, però, restiamo intellettualmente disarmati, se ci teniamo alla rappresentazione, o all’immediato percepire - “ecco, questi sono operai”, “ecco, questi sono capitalisti”. Sulla base del banale sociologismo della classificazione per professioni, tipi di attività, reddito, è stato anche troppo facile far passare parole d’ordine come “fine della centralità della classe operaia”, o addirittura “fine del lavoro” ecc.: gli ingenui vedevano diminuire di numero gli operai di fabbrica, e solo per questo cadevano nella trappola. In una parola: il concetto adeguato di “classe” dipende da quello di Modo di produzione (capitalistico).

2. Ma il processo complessivo non si riduce alla forma di moto pura. Esso è la storia della “produzione capitalistica” e il suo sviluppo effettivo. La forma di moto contiene una dinamica che si può ben chiamare storica: è la dinamica immanente del MPC, attraverso ormai quasi un mezzo millennio, e che definisce un’epoca nella storia del lavoro umano, fino alla antropizzazione del pianeta, delle sue risorse, delle sue forme di vita molteplici, tramite il lavoro umano; e fino alla messa in pericolo, anche, della sua stessa sopravvivenza.

E tuttavia, questo non basta ancora per il nostro concetto di “classi”. Tanto meno può bastare, in quanto è nel processo complessivo che le classi effettivamente operano. E allora? Bisogna fermarsi e dire: la teoria arriva fin qui, vedano gli storici il processo complessivo?

No. Possiamo domandarci, per cominciare, perché il processo complessivo non si riduce e non può ridursi alla pura forma di movimento, pur con tutta la sua formidabile dinamicità interna, le sue leggi di tendenza, la sua contraddizione fondamentale [1] e via dicendo. Non è poco davvero, e già questo “modello”, questa forma-di-movimento della produzione e riproduzione di uomini entro un rapporto di produzione determinato ha offerto e seguita ad offrire (per chi non preferisca altre impostazioni teoriche - non diciamo altre mode) - una bella panoplia di strumenti per indagare la realtà.

Ma vediamo. La forma di moto non esaurisce il processo, in primo luogo perché la produzione capitalistica non nasce nel vuoto, ma implica una doppia sussunzione.

Primo. Si ricorderà (v. parte prima), che nel MPC vengono sussunte e modificate le funzioni del valore (come forma di movimento, rapporto tra producenti e denaro nelle sue varie funzioni-base, fino al denaro mondiale) (1,3,4). Le funzioni-base del denaro sono anteriori alla produzione capitalistica, e in questo senso “la circolazione delle merci è il punto di partenza del capitale” (1,4,inizio). Ma questa circolazione si può sviluppare pienamente solo quando la forza-lavoro è merce. Da una parte, è vero, non posso avere capitale e produzione capitalistica senza universalità potenziale del legame sociale tra producenti autonomi, e questa universalità potenziale è il denaro - che si trova di fronte l’universo delle merci, è la loro unità-in-movimento. Ma d’altra parte, ciò si realizza e generalizza solo purché tra le merci ci sia la forza-lavoro umana.

Secondo, però. “Produzione capitalistica” vuol dire di per sé, e proprio grazie alla straordinaria forza del MPC, all’ incremento immanente e indefinito della produttività del lavoro sociale che esso comporta, non solo sgretolamento di figure del produrre precedenti (piccola proprietà contadina, artigianato), o distruzione di modi di produzione storici (feudali, p. es.), bensì anche inglobamento di queste figure del produrre e Modi di produzione interi, entro il processo complessivo, capitalistico per il suo moto e carattere fondamentale. Esempio del secondo caso fu la produzione schiavistica nelle colonie (fino alla Guerra civile americana ed oltre). Quanto alla distruzione della piccola proprietà contadina, essa è stata, in Europa occidentale, cioè nella culla del capitalismo, insieme condizione e conseguenza dello sviluppo del capitale (Marx studia ed espone questi processi essenzialmente per la fase pre-imperialistica.)

S’intende da sé che le diverse pre-condizioni storiche in cui il MPC viene a instaurarsi importano diverse modalità di distruzione, o integrazione subalterna, delle precedenti forme di produzione. Così, per esempio, sussistono fino ad oggi, anche in Italia, “nicchie” di piccola produzione semi-indipendente; o anche si rinnovano, ma appunto in quelle “nicchie” che il processo complessivo crea (subfornitori ecc.), e che non potrebbero esistere senza il movimento “avanzato” del MPC.

In genere: le nuove figure del processo aprono sempre nuove possibilità di integrazione in lui di quello che è “altro” (precedente nel tempo o anche “esterno” nello spazio), sia esso pre-capitalistico, sia meno avanzato capitalisticamente, e perciò in qualche forma subordinabile (vedi i vari “Mezzogiorni”, cui pare aggiungersi, oggi, una parte dei Paesi recentemente entrati nell’UE).

Nella fase imperialistica questo rapporto, che resta retto fondamentalmente dalla concentrazione e centralizzazione del capitale, è alla base dei massicci fenomeni di sfruttamento coloniale, di rapina delle risorse “naturali” e “umane” nelle periferie imperiali, poi della c.d. integrazione-espropriazione di interi sub-sistemi (ne è buon esempio, pare, l’Argentina contemporanea).

D’altra parte. Il processo complessivo, man mano che avanza secondo la dinamica intrinseca del Modo di produzione, unifica - non già nel senso banale di una estensione uniforme di condizioni simili, ma al contrario, nel senso che il processo è lui stesso l’unità effettuale di tutte le determinazioni, tanto di quelle che produce e riproduce il MPC “puro”, che di quelle pregresse e sussunte in lui. “Unificare”, perciò, non vuol qui dire uniformare, ma anzi acuire le disuguaglianze, anche perpetuare i rapporti di sfruttamento arcaici subordinandoli al moto complessivo del capitale, tramite i mercati (delle merci, della forza lavoro, del credito ecc.  [2]) - e tutto ciò, nella misura in cui è funzionale a quella specifica fase dell’unificazione capitalistica-imperialistica. Si può quindi dire: il “concreto” è, in ogni istante, la configurazione in cui tutti i rapporti si muovono (a cominciare appunto da quello fondamentale, il rapporto capitale/lavoro vivo). Motore essenziale resta la dinamica peculiare del Modo di produzione capitalistico.

(Queste riflessioni teoriche sul concetto di MPC, e sul concetto di classe che da lui deriva, possono dare lo spunto a una breve considerazione sulla condizione presente della classe operaia - segmentata e divisa come non lo era stata per generazioni. Che la riorganizzazione del Movimento operaio internazionale debba avvenire su nuove basi, e a partire da condizioni date in regioni, Paesi, comparti diversi, è cosa che si può dare per scontata. Si tratta solo di vedere in genere come il “lato soggettivo” possa innestarsi sulle condizioni via via date, e prese come “lato oggettivo”? Non pare. Le condizioni sociopolitiche della coscienza di classe, e perciò dell’azione collettiva, sono sempre “originali”, ogni volta peculiari. Anche la possibilità di costituire un grande movimento unitario (la FSM nel 1945!) fu, obiettivamente, una “possibilità reale” (il che significa, letteralmente, “nelle cose”): cioè, una di quelle possibilità che si aprono e chiudono nel processo complessivo, del quale le parti in gioco furono esse stesse attrici e momenti.

Cogliere la possibilità reale la dove è, farla camminare con le gambe e le teste di molti uomini - questo e non altro è - oggi come allora! - il “fattore soggettivo”. Si tratta dunque di un compito sempre aperto, in tempi di vacche grasse e in tempi di vacche magre. E perciò, se la storia del movimento dei lavoratori insegna e rafforza, la nostalgia è soltanto dannosa - come lo sono, d’altronde, anche le illusioni sui fuochi di paglia.

3. In tutto l’edificio teorico di Capitale I Marx presuppone, come si è ricordato, che la forza-lavoro sia pagata al suo valore pieno, che comprende la formazione e del lavoratore e la riproduzione della sua schiatta, nelle condizioni storico-sociali di un certo tempo e Paese. Quando questo presupposto è lasciato cadere, p. es. per esaminare la lotta per la “giornata lavorativa” (Capitale I, 8), ne è fatta menzione esplicita [3].

Precisando che il concetto di “lavoratore produttivo” muta una volta che ho il processo della produzione capitalistica “ vera e propria”, cioè l’incremento del plusvalore e l’accumulazione del capitale grazie all’incremento sistematico e infinito della produttività del lavoro associato (e alla concorrenza dei molti capitali, che questo incremento, via stimolo del superprofitto, rende operante, anche se è per ora un mero presupposto). Marx osserva che “lavoratore produttivo” è ormai tutto il “lavoratore combinato” che opera nell’impresa capitalistica, dal dirigente operativo al tecnico al manovale; ma, aggiunge, il concetto di “lavoratore produttivo” dall’altro lato si restringe. Adesso è “lavoratore produttivo” solo colui che produce valore e plusvalore per il capitale, ed essere “lavoratore produttivo” non è una fortuna, perciò, ma “una disgrazia” [1,14, inizio]. Questo secondo aspetto riguarda la classe come tale. In quanto membro della classe lavoratrice nel MPC, entro il moto del capitale, tu individuo, con queste tue capacità, abilità ecc., puoi essere “lavoratore produttivo”: ma lo sarai, solo se e in quanto il capitale, per sue esigenze di valorizzazione, ti metta in opera, o invece ti respinga.

Tenendo conto di questo, seguiamo il solito criterio del cominciare con clausole di astrazione, per arrivare poi a concretizzazioni successive. Posso ipotizzare che tutta la produzione sia capitalistica: e ho che tutta la classe lavoratrice vive, essenzialmente, di quel che può acquistare col salario. (Ancora una volta: non rileva qui la forma del salario, se a tempo o a cottimo ecc., se dichiarato o camuffato o “nero” e via dicendo. Anzi non rileva neppure, per ora, il carattere di parvenza del salario stesso.) Ma - come si è detto - non è esatto dire che la classe lavoratrice “vive di salario”. Non si mangia, veste, abita, studia “il salario”! Dunque la riproduzione della vita dei lavoratori avviene in un ciclo che non è quello della produzione in senso stretto. Possiamo chiamarlo ciclo vitale (cfr. 1, 21). Ma quale ne è l’estensione?

Conserviamo la clausola d’astrazione “tutta la produzione è capitalistica”. In tal caso, tutte le attività vitali entro la classe lavoratrice - fisiologiche, procreative, educative, sanitarie, ricreative, sportive - saranno bensì esterne alla produzione in senso stretto, ma il loro ciclo, sia nell’individuo che nel corso delle generazioni, si rapporterà alla produzione e dunque al moto del capitale che la domina, in quanto quelle attività nel loro insieme tenderanno in ultima analisi a produrre lavoratori concreti - ossia, caso per caso, proprio quel lavoratore lì, con quelle capacità abilità ecc. Il quale poi, individualmente, avrà la “sfortuna” di essere “lavoratore produttivo”, di poter mettere in opera le sue capacità abilità ecc., solo se e in quanto servano alla valorizzazione di un qualsiasi capitale in presenza (“del capitale” in genere, come si dice) [4].

Ma ci saranno altre specie di attività “esterne” alla produzione vera e propria.

Primo. Attività non-cicliche, non riconducibili alla riproduzione dei lavoratori e della loro progenie. Dunque attività di singoli, o di gruppi, in un processo per sua natura infinito: la ricerca scientifica ne è l’esempio più proprio. (Marx parla qui di “lavoro universale”, diverso dal lavoro collettivo e combinato, perché come questo è cooperazione, ma cooperazione attraverso il tempo, anche con ricercatori e scienziati del passato, sulle basi del cui lavoro si continua.)Qui il rapporto col capitale è diverso, ed esibisce uno dei lati progressivi del MPC: questo Modo di produzione presenta continuamente problemi solubili solo grazie alle scienze della natura (meccanica, fisica, chimica, poi elettricità, elettronica, informatica...): ma grazie all’impulso alla valorizzazione mediante incremento della produttività del lavoro, ogni singolo capitale tenderà a incorporare risultati scientifici nel suo processo produttivo, e con queste innovazioni “vincere” sul mercato
 finché gli altri non si allineano, almeno. Poi il gioco ricomincia [5].

In terzo luogo, abbiamo attività di formazione umana in genere. Queste sono sempre creazione e continuazione, attivazione di istituzioni [6] - familiari, sociali, culturali, politiche - le quali tutte importano o presuppongono una schematizzazione giuridica, o scritta o di costume. Queste istituzioni - vere forme di movimento della vita umana, preesistenti ad ogni singolo individuo, ma attuate e modificate sempre e solo da individui - hanno un rapporto vario, e variato nel tempo col moto del capitale. Quando il rapporto economico, come nel caso del contratto e specificamente del contratto di lavoro (scritto, esplicito, o non), è il contenuto del rapporto giuridico, si tratta però, dal lato della forma, di un rapporto tra individui x e y, cioè di indeterminati molti che possono fare da x, e altri indeterminati molti che possono fare da y. In altre parole, l’ istituto giuridico - qui, del contratto - è la forma di organizzazione di questa sostituzione indefinita di argomenti della relazione entro due ambiti di “soggetti”, definiti proprio dalla relazione tra loro.

Ma in generale, gli individui nascono, entrano nella vita e nella società, in un universo di istituzioni già esistenti, giuridicamente sancite o no, e solo operando nelle forme di questo universo possono crescere, vivere, ed eventualmente modificare il costume, la mentalità, gli istituti giuridici, i rapporti di forza politico-sociali. Tutte le volte che la forma di movimento “MPC” come tale non determina di per sé l’andamento del processo, diventa necessario tener conto di questi rapporti di forza. Caso tipico è quello della giornata lavorativa, che - dato il RP fondamentale - ha un limite minimo: ossia quella durata (o intensità, convertibile in durata maggiore) del tempo di lavoro, che sarebbe sufficiente solo a riprodurre il valore della forza-lavoro. In tal caso-limite, infatti, la forma di moto di base, la “formula generale del capitale”, D-M-D’, non si attuerebbe, il capitale non si valorizzerebbe affatto, e cesserebbe di essere capitale. Invece, la giornata lavorativa - nella produzione capitalistica - non ha un limite massimo (salvo le teoriche 24 ore di una giornata esclusivamente occupata dal lavoro). Lo spazio tra il limite minimo (nell’opera di Marx fatto uguale di solito, convenzionalmente, al 50% della giornata di lavoro fino allora prevalente, cioè 6 ore lavorative), e le 12, 14, 18 ore di lavoro giornaliero, è variabile secondo le condizioni di partenza, e poi, man mano che il MPC si instaura, secondo i rapporti di forza tra le classi. Il divieto di organizzazione dei lavoratori, che aveva origine nella legislazione espropriatrice dei secoli XV e XVI, viene revocato finalmente nel 1828, cioè dopo che quattro-cinque generazioni di operai erano state letteralmente “consumate” nella rivoluzione industriale (l’aspettativa di vita media dei membri della classe operaia nei distretti industriali inglesi era intorno ai 20 anni).


[1] V, parte prima, in “Proteo” 2/04, a p. 108.

[2] Oggi anche tramite istituzioni, come il FMI, la Banca mondiale, la OMC.

[3] Cfr. Parte prima, n. 21.

[4] Eh sì, la “cultura d’impresa”, l’apprendere non scienze e umanità, per carità, ma “competenze” per il mercato del lavoro. No, questo non c’è in Marx. Ma il lettore di oggi ne avrà sentito parlare a sazietà. Vuol dire: adeguare alle immediate esigenze del capitale, come esse si presentano al momento, gli uomini nella loro stessa formazione come uomini, e senza tener conto della loro vita futura - che sarà pur sempre, in media, un buon mezzo secolo, o più, dopo aver “incocciato” una provvisoria nicchia nel necessariamente e rapidamente mutevole “mercato del lavoro”.

[5] Non teniamo conto, qui, ovviamente, né della moderna concorrenza oligopolistica, né dei vincoli di monopolio alla ricerca, né del rapporto tra ricerca fondamentale e ricerca applicata, R&D.

[6] Per farsene un’idea, si pensi alla lingua che parliamo. (Anche il linguaggio è una istituzione). La lingua italiana, colla sua fonetica, grammatica, lessico ecc., preesiste a me che la parlo. Ma senza affatto parlanti (e scriventi) la lingua non sarebbe.