Le classi nel mondo moderno. La complessità del conflitto (Seconda parte)
Alessandro Mazzone
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Supponiamo per prima cosa di avere: da una parte il lavoro
vivo, valore d’uso della forza lavoro, acquistata come ogni altra
merce (e, per clausola di astrazione, al suo valore pieno, che varia
naturalmente secondo le condizioni storico-sociali della sua riproduzione,
compreso dunque il costo della sua formazione e il mantenimento della prole,
senza di che il lavoro vivo cesserebbe presto di esistere). Dall’altra parte,
i mezzi di produzione, separati dal lavoratore, che perciò non ha altro
da alienare che la sua forza lavoro. Questa separazione - risultato, nel mondo
moderno, di un lungo e doloroso processo di espropriazione dei produttori
diretti, contadini e artigiani - è il primo elemento concettuale che
permette di costruire la nozione di “classi” [1]. Infatti, abbiamo con
ciò dall’altra parte i detentori dei mezzi di produzione [di qui innanzi:
MP]: i quali dunque disporranno di un potere di comando sulla
forza-lavoro [di qui innanzi: fl], poiché essa potrà operare, essere
effettivamente lavoro vivo, soltanto se e in quanto essi la vogliano
utilizzare.
Ma possiamo noi, con questo solo elemento, dire: ecco le “classi”,
da una parte i lavoratori, dall’altra i detentori dei MP? No. La clausola di
astrazione, introdotta da Marx in 1,5,2, importa per ora soltanto la
continuità nel tempo del RP attraverso le diverse condizioni date, e solo dal
lato dei lavoratori. Essa vuol dire che essi potranno sussistere, formarsi e
riprodursi - ecco tutto. Ma ancora non sappiamo né come il RP funzioni, né
come esso si produca [2], né come il suo contenuto si modifichi nello
sviluppo del processo di produzione - che peraltro, come sappiamo, è in
definitiva processo di produzione e riproduzione di uomini, mediante il lavoro
nella natura. Abbiamo dunque finora soltanto, per così dire, una linea
divisoria ideale, che separa due spazi. E dai due lati di questa ideale linea
divisoria non abbiamo ancora (come molti, invece, hanno creduto) “capitale”
e “lavoro” nel loro divenire, modificarsi, svilupparsi secondo leggi
interne, ma soltanto il dato ogni volta immediatamente presente, e che non
possiamo ricondurre al processo complessivo in cui le classi effettivamente si
formano e operano. Non lo possiamo, perché non abbiamo gli elementi per
collegare il “dato” al “processo”. Non abbiamo, in altre parole, una
forma di movimento.
La forma di movimento è quella del capitale stesso. Esso non
è soltanto rapporto di capitale tra capitalisti e salariati, ma processo
del capitale.
Innanzitutto: in questo processo sono MP tanto gli oggetti e
mezzi di lavoro in genere (non solo attrezzi e macchine, ma edifici, mezzi di
trasporto e comunicazione, terreni coltivabili, mari in cui pescare, ecc., la
Terra in generale come locus standi e ambito del lavoro umano - cfr.
1,5,1) [3] - quanto
anche i lavoratori stessi, che dobbiamo supporre disponibili ai capitalisti,
acquisibili mediante denaro (salario). La forza-lavoro è acquisibile sul
mercato. Quanta e quale ne occorra dipenderà in ogni istante dai MP, che hanno
forma di capitale, e dal grado di produttività del lavoro, ossia di massa di MP
che una certa quantità di lavoro può mettere in moto, e venirne dunque
assorbita in un tempo dato. In questo senso, Marx scrive che, supposta
produzione tutta capitalistica, il moto del capitale è la variabile
indipendente, mentre la riproduzione della forza-lavoro, cioè dei
lavoratori stessi, è la variabile dipendente.
Non corriamo a dire: “si vede: disoccupazione, lavoro a
tempo...”. Dobbiamo andare più a fondo, costruire un modello di movimento e
“vedere” concettualmente come la cosa avvenga. Possiamo però cominciare con
qualcosa che è intuitivo, per noi che viviamo nel mondo capitalistico.
Ogni capitale deve percorrere un ciclo (1,21, inizio). Esso
deve presentarsi dapprima sul mercato delle merci, come denaro (“capitale-denaro”)
sborsato o impegnato che si scambia contro MP e f-l; poi uscire dalla sfera
della circolazione e passare in produzione, dove i MP acquistati assorbono una
massa proporzionale di lavoro vivo (e qui è “capitale produttivo”); poi
tornare nella circolazione e realizzare il prodotto-merce (“capitale-merce”),
il quale conterrà un incremento di valore realizzabile anch’esso in denaro.
(La “formula generale del capitale” è perciò D-M-D’ - denaro,
merce, denaro incrementato - cfr. 1,4,2). Senza l’incremento del D, il ciclo
non avrebbe senso, il capitale non esisterebbe. Ogni capitale deve ciclare, e
cicla costantemente, nelle tre forme (2, 1). Un capitale che non cicli è
inconcepibile. Compiendo costantemente questo ciclo, il capitale si
valorizza: il valore dei MP viene trasferito nei prodotti-merci pro-tanto [4], e ad essi
si aggiunge un neovalore - poiché si aggiunge il nuovo lavoro vivo
compiuto per trasformare MP (impianti, macchinari, materie prime ecc.) nel nuovo
prodotto-merce. È ovvio che il neovalore dovrà essere superiore al valore
pieno della f-l impiegata, altrimenti tutta l’operazione tornerebbe a
riprodurre il valore-capitale iniziale puro e semplice [5]:
esso si divide perciò in valore ricostituito e plusvalore, cui
corrispondono “lavoro necessario” e “pluslavoro”; e la parte del
capitale-denaro erogata per l’acquisto di forza-lavoro è detta capitale
variabile, perché è lasola che, nel processo, e perché il processo
abbia senso e continui, si deve e può incrementare.
Ricordato questo, poniamo ora per ipotesi che tutta la
produzione sia capitalistica. (Questa ipotesi si fa per studiare il fenomeno
nella sua forma pura, e infatti quel che vale per ogni capitale deve
valere per tutti. [6]) Ora possiamo chiedere: quale è il processo del
capitale?
Nessuna società può sussistere senza riprodursi:
cioè, la produzione deve essere considerata nella sua continuità, come riproduzione.
Nella nostra ipotesi, che tutta la produzione sia in forma capitalistica,
avremo per ogni ciclo (p. es., un anno), un fondo di produzione: esso
sarà costituito da quella massa di MP che, in determinate condizioni tecniche,
organizzative e di produttività che il lavoro abbia acquisito, una determinata
massa di f-l può mettere in moto, e venirne assorbita. Il fondo di
produzione è una massa di cose: viene prodotto costantemente, e ha forma
di capitale (capitale-merci da realizzare, p. es. macchine; oppure
capitale-denaro da re-investire [7];
oppure, direttamente capitale produttivo esistente). E, inoltre, ci sarà anche
un fondo di lavoro, ossia quella massa di beni destinati a tener in vita,
ecc., ossia a riprodurre i lavoratori che devono sempre di nuovo erogare
lavoro vivo. Questi beni, nella nostra ipotesi, avranno anch’essi forma di
merci, anzi di capitale-merce dei capitalisti che tali cose producono; e saranno
acquistati con denaro, ovviamente (massa dei salari). Ma è la massa di
forza-lavoro, cioè la quantità di tempo di lavoro (e/o intensità
traducibile in tempo, come sempre) quella massa che di volta in volta viene
richiesta dal capitale nella sua riproduzione: - ossia, di volta in volta, si
richiederà una massa di forza-lavoro adeguata e corrispondente ai MP da
utilizzare per continuare il ciclo di valorizzazione del capitale. “La
forza-lavoro è la forma... nella quale il capitale variabile esiste nel
processo di produzione” (1,22,2).
Il fondo di lavoro, così, è cosa ben diversa dalla
grandezza statistica detta “massa salariale”, sulla quale influiscono
condizioni storiche, usanze di consumo e, soprattutto, rapporti di forza tra le
classi. Invece, il fondo di lavoro, misurato com’è dal moto del
capitale nella sua incessante valorizzazione, e necessario di volta in volta
alla riproduzione costante del capitale sociale (ossia di tutti i capitali, p.
es. di un Paese), dipende essenzialmente dal rapporto tra i MP in forma di
capitali esistenti in istante dato, e la quantità di lavoro vivo necessaria per
metterli in moto. (La qualità del lavoro vivo richiesto è determinata dallo
sviluppo tecnico e dall’organizzazione del lavoro, che variano costantemente.
“L’industria moderna non considera e non tratta mai come definitiva
la forma di un processo di produzione” - 1,13,9. Corsivo mio)
Ad ogni ciclo D-M-D’ il capitale si accumula: tutto o
parte del plusvalore viene incorporato nel capitale. Questo fenomeno è la base
della concentrazione del capitale. Ossia, una massa sempre crescente di
MP avrà la forma di capitale “Dal capitale si fa plusvalore, e dal
plusvalore, capitale” (1,23, inizio). Se tutte le condizioni restassero
uguali, l’incremento del capitale significherebbe incremento del numero
dei lavoratori da utilizzare, “aumento del proletariato” (1,23,1). Ma - e
anche questo è intuitivo per noi che viviamo nel c.d. capitalismo avanzato - le
condizioni non restano uguali, e precisamente a cominciare dal rapporto tra
la massa dei MP e la massa di f-l richiesta. Nel “modo di produzione
capitalistico vero e proprio” vige per ciascun capitale la tendenza a ridurre
relativamente la massa della forza-lavoro (misurata sempre in tempo e/o
intensità riducibile a tempo) in rapporto ai MP messi in moto, cioè a ridurre
relativamente il capitale variabile in rapporto al capitale costante.
Dunque si avrà contemporaneamente, se teniamo ora conto,
primo, della effettiva diversità di durata del ciclo capitale-denaro / capitale
produttivo / capitale-merce (e realizzo della merce in denaro) tra diversi rami
della produzione, in regioni diverse ecc., e secondo, del diverso ritmo di
innovazione nelle diverse branche e anche in imprese di una stessa branca, una attrazione
di lavoratori disponibili sul mercato (“offerta di lavoro” nel linguaggio
ufficiale), e una repulsione di lavoratori dal processo produttivo. In
tempi di crisi, la repulsione prevarrà sempre (1,23,2, cfr. 3, 13 e 15). Essa
prevarrà nelle branche di attività in cui il profitto realizzabile diminuisce
relativamente ad altre, e che i capitali tenderanno ad abbandonare (cfr. 3,9);
in quelle che diventano obsolete, come anche in quelle che oggi sono dette “mature”,
cioè dove l’innovazione tende essenzialmente a perfezionare la manifattura
del prodotto (“innovazione di processo”), senza incremento, ma anzi con
decremento di f-l impiegata per unità di prodotto.
La centralizzazione del capitale “non è limitata, a
differenza dalla concentrazione, dall’aumento assoluto della ricchezza
sociale” (cioè, sempre nell’ipotesi di produzione totalmente capitalistica,
dalla massa di prodotti d’ogni genere che hanno forma di capitale, e si
accumulano via via nei capitali individuali) (1,23,2). (Terzo punto almeno in
parte intuitivo oggi - le “acquisizioni” “fusioni”, inghiottimenti di
capitali piccoli per opera dei grandi sono perfino nella stampa quotidiana). Ma
essa “completa l’opera dell’accumulazione” (ivi) - cioè contribuisce
alla repulsione di lavoratori dal processo.
Su queste basi, Marx distingue tre tipi di “sovrappopolazione”
lavoratrice, sempre di nuovo, e in misura variabile, prodotta dal moto stesso
del capitale. La sovrappopolazione fluttuante (lavoratori
alternativamente “attratti” e “respinti”); quella stagnante (oggi
diremmo: disoccupazione di lungo periodo); e latente, ossia quella massa
di popolazione salariata potenziale (p. es., femminile, rurale) che l’avanzare
stesso della produzione capitalistica mette in condizioni tali, da poter passare
al lavoro salariato quando lo sviluppo lo richieda (1,23,4). Le illustrazioni
che Marx offre (per es., in 1,23,5) sono naturalmente datate. Ma va ricordato
che, se siamo ancor sempre al livello di astrazione del “processo di
produzione del capitale”, si tratta però di leggi di movimento studiate e
svolte “nella forma pura”, proprie dell’accumulazione capitalistica come
tale. Perciò sarebbe assurdo volerle trasferire meccanicamente ai fenomeni
senza gli “anelli intermedi” dell’analisi.
La “attrazione” di nuovi lavoratori nel processo del
capitale (c.d. “offerta di lavoro”, che dovrebbe dirsi piuttosto “domanda”
di reale lavoro, lavoro vivo, che il capitale fa), tende a diminuire relativamente
nel tempo, in rapporto alla massa crescente di capitali operanti (cioè
comprensivi sia di capitale costante che di variabile). Le due tendenze
immanenti a ogni capitale - aumentare il capitale operante, costante +
variabile, e diminuire il rapporto del variabile sul costante - operano poi nell’intreccio
dei molti capitali, nella creazione di capitali nuovi in branche innovative,
ecc. (cfr. 1,23,2).
Dato il livello di astrazione in cui sono sviluppate queste
leggi di tendenza, è giusto anche chiedere su quale piano se ne possa vedere il
funzionamento. La risposta non pare dubbia. Per quanto riguarda la forma di
movimento e quindi la tendenza globale, di lungo periodo, si dovrà guardare al
piano mondiale, attraverso il corso dei decenni. La tendenza secolare
può essere enunciata così: produrre una massa crescente di ricchezza, di
decrescente valore unitario, con - proporzionalmente alla crescita -
sempre meno lavoratori. Ma quanto più ristretti saranno gli ambiti spaziali e
temporali dell’analisi, tanto più si dovranno introdurre “anelli intermedi”
per tener conto delle circostanze... che modificano l’operazione della legge
generale” (1,23,4).
Bisogna tener conto del fatto che il processo reale,
complessivo, non può esser “dedotto” dalle legalità del Modo di
produzione. Se così fosse, il modello concettuale “MPC” non sarebbe affatto
un modello, ma un “campione” di una serie di identici - il che non si dà in
biologia, e tanto meno in storia umana. Nel processo complessivo compaiono, in
contesti diversi, e si fanno valere, le determinazioni “pure”, le forma di
moto della produzione capitalistica.
Soltanto quando siamo arrivati fin qui abbiamo la forma di
movimento in cui la divisione in classi non semplicemente “c’è”, ma
anzi: si produce e riproduce, e - come vedremo - si sviluppa (al livello
di astrazione, per ora, del semplice “processo di produzione del capitale”).
È importante, sia detto di passaggio, tener presente che questa espressione “processo
di produzione del capitale”, che dà il titolo al Capitale I, al primo
libro dell’opera intera, è un genitivo soggettivo, una specificazione
del soggetto: e il soggetto che si produce, e di cui vediamo, in Capitale
I, come si produce, è il capitale stesso. Entro il processo del
capitale le “classi” producono e riproducono se stesse, e questo loro
riprodursi è parte integrante del moto del capitale, della sua
riproduzione e accumulazione. Non è una semplice opposizione, di qua “il
capitale”, di là “il lavoro”: il primo non può esistere e valorizzarsi
(accumularsi), senza il secondo; ma anche il secondo, il lavoro vivo, non può
esistere ed attuarsi, in questo specifico rapporto di produzione, senza
capitale che lo assorba. È un rapporto doppio, di funzionalità indispensabile
e di conflitto immanente.
Ed è, ancora, un processo, la cui dinamica interna va
verso la trasformazione di tutti i rapporti in rapporti mercantili e
capitalistici, all’estensione di questi rapporti a ogni sfera, regione, ambito
di vita e riproduzione degli uomini; questa stessa dinamica del processo di
capitale va anche all’incremento incondizionato della produttività del lavoro
umano associato - col limite del capitale stesso, però, in quanto la
tendenza obiettiva all’aumento di produttività del lavoro sociale è
subordinata allo “scopo limitato” della valorizzazione del capitale ogni
volta esistente (3,15,2). Ancora: tramite le relazioni di scambio tra capitali
il lavoro umano associato tende ad essere collegato e interrelato
universalmente: e questo darà la base alla mondializzazione, di nuovo
unione e conflitto di integrazione produttiva tra settori e regioni anche
lontanissime nel globo (visibile oggi immediatamente in ogni supermercato) e
segmentazione, innanzitutto del c.d. mercato del lavoro, dove la “libera
circolazione” non esiste certo, e la mobilità è regolata in funzione del
capitale esistente, locale e centralmente o finanziariamente integrato.
[1] Cfr. K. MARX, Critica al
programma di Gotha. Roma, Ed. Riuniti, 1990, p. 8.
[2] La “cosiddetta accumulazione originaria” (1,24) va
intesa come una preparazione delle condizioni dell’automovimento del capitale
e non è un suo momento interno.
[3] I riferimenti al Capitale sono dati da tre cifre arabe, che
indicano rispettivamente il Libro, il capitolo e, quando c’è, il § all’interno
del capitolo. La sigla RP sta sempre per “rapporto(i) di produzione”.
[4] P.
es., se una macchina può lavorare 100.000 pezzi, poniamo di laminati, prima di
essere usurata o superata, 1/100.000 del suo valore viene trasferito ad ogni
pezzo, e deve essere contabilizzato (ammortizzato) in questo modo.
[5] Succede, nella realtà
empirica. Ma allora l’impresa fallisce, o chiude. Noi vogliamo dei capitali
che funzionino nel nostro modello, non dei capitali che escano dalla scena!
[6] Del resto, l’ipotesi è molto meno lontana dalla
realtà oggi, che quando Marx scriveva. Naturalmente, sarebbe vano cercarla
realizzata al 100%.
[7] anche da spendere in consumo improduttivo dei
capitalisti. Si dovrà fare una detrazione. Ma qui possiamo prescinderne.