Le classi nel mondo moderno
Alessandro Mazzone
Rappresentazione e concetto (prima parte)
|
Stampa |
Chi edificò Tebe dalle sette porte?
Nei libri stanno nomi di re.
Furono i re a trascinare i blocchi di pietra?
E Babilonia, distrutta più volte,
Chi la rifabbricò, altrettante volte?
Dove abitavano i costruttori in Lima splendente d’oro?
E la sera, in cui fu terminata la muraglia cinese, dove andarono
I muratori? La grande Roma
È piena di archi di trionfo. Chi li eresse? Su chi
Trionfavano i Cesari? E Bisanzio tanto celebrata
Aveva soltanto palazzi per i suoi abitatori? Perfino nella leggendaria Atlantide
Nella notte in cui il mare la inghiottì, urlavano ancora
Annegando, per chiamare i loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare vinse i Galli.
Non aveva con se almeno un cuoco?
Filippo di Spagna pianse, sentendo che la sua flotta
Era andata a picco. Non pianse pure qualcun altro?
La guerra dei Sette Anni fu vinta da Federico secondo. Chi
Vinse, oltre a lui?
A ogni pagina, una vittoria.
Chi preparò il banchetto?
Ogni dieci anni, un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Tante notizie.
Altrettante domande.
Bertolt BRECHT: Domande di un operaio che legge.
1. In un certo senso la nozione delle classi, in
cui le società umane si dividono, è antichissima. Nella legislazione e nella
poesia mesopotamica, essa è documentata almeno dal 2° millennio a.c.. Nei
bassorilievi e nei papiri dell’antico Egitto, inservienti e schiave sono
raffigurati come assai più piccoli dei potenti cui stanno a fianco. Gli schiavi
compaiono come normale elemento della vita associata nella Bibbia, in Omero, in
Esiodo. Per non parlare della Grecia classica e di Roma antica [1].
In tutti questi testi e documenti storici, come in quelli del
Medioevo e poi dei secoli più vicini a noi, è presente e onnipervasiva la gerarchia
sociale, il rapporto di comando e di servizio, il carattere strumentale
dei ceti inferiori, l’ossequio tributato a potenti e padroni, l’ “ordine”
sociale che in tutto questo si manifesta e vige, la sporadica rivolta e
la sua repressione [2]. Chi volesse espungere la
presenza dell’”alto” e “basso”, del “padrone” e del “servo”
nella storia, poesia, arte dei millenni che conosciamo (perché appunto
tramandarono di sé memoria storica, documentale, non soltanto archeologica)
dovrebbe cancellare tutti i documenti di 5 o 6 millenni, o mutilarli fino a
renderli incomprensibili.
Vi è stato un certo idealismo ingenuo delle scuole, di cui i
più anziani di noi si ricordano (ma forse ce n’è ancora..): quello per cui
la storia dello spirito umano, o della civiltà, o della cultura,
si riassumeva tutta nelle creazioni dell’arte, poesia, letteratura, filosofia,
scoperte scientifiche, mentre scompariva nello sfondo la vita della stragrande
maggioranza, di coloro che procuravano col lavoro la riproduzione del corpo
sociale e quindi anche della cultura, arte ecc., e di chi poteva dedicarsi a
queste. Ora, questo idealismo ingenuo è diventato impossibile dopo l’Illuminismo
e l’Anti-illuminismo.
L’Illuminismo aveva fatto vedere, già nel ‘700 [3], che la società civile -
il mondo del lavoro e della produzione, dell’affinamento e moltiplicazione dei
bisogni, dello sviluppo della sensibilità (“estetica”), delle abilità,
dell’intelligenza, dell’incivilimento [4]- è l’oggetto
effettivo della conoscenza storica, della indagine sociale, della critica, e poi
della pratica ragionevole per migliorare la vita collettiva [5].
Quanto allo Anti-illuminsimo, che oggi appare dominante, esso
ha in Friedrich Nietzsche il suo maggiore e più esplicito e lucido profeta (ma
un Anti-illuminismo è cominciato prima di lui, come romanticismo
controrivoluzionario all’epoca della Rivoluzione Francese). Nietzsche, però,
ha messo in chiaro per chi sa e vuol capire che l’idea di eguaglianza in
qualunque forma (filosofica, religiosa o socialista che sia), e dunque la
diffusione della riflessione, la cultura razionale di massa, sono,
per chi domina, follia: non solo la cultura - pensiero, arte,
nobile raffinatezza in ogni senso - è elitaria, ma deve volere esserlo e volere
fondarsi sulla soggezione e l’ignoranza delle masse. “Chi vuole cultura,
deve volere schiavi”. E s’intende da sé che democrazia in ogni
senso, partecipazione, autogoverno, discussione razionale dei problemi comuni,
è altrettanto follia: tutto questo infatti presuppone, non solo e non
tanto una cosiddetta “naturale” eguaglianza degli individui umani, ma lo
sviluppo delle potenzialità effettive di ciascuno e di tutti, nella e
attraverso la vita associata [6]. Idea esplicita nel Manifesto comunista del 1848,
idea esecrabile per la borghesia divenuta classe dominante nell’’800, idea
assurda e opposta all’ ordine “naturale” e senza tempo delle cose -
secondo questa filosofia, che tantissimi oggi ripetono e balbettano senza
conoscerla [7], e credendo magari di
essere così “veri” innovatori (“postmoderni”, ecc. [8]).
Ma la fine dell’idealismo ingenuo non riguarda
soltanto i libri di scuola! Essa, al contrario, è l’indice di un fondamentale
fatto sociale, e perciò di cultura. Eccolo. Non è più possibile
governare contando sull’acquiescenza di masse analfabete, più o meno
superstiziose, ma soprattutto abituate da secoli a un “ordine” che si
riproduce di generazione in generazione, e che appare perciò immutabile.
Perciò il consenso, o almeno l’assenso dei governati, deve essere
conquistato o prodotto sempre di nuovo, attivamente, e può essere perduto. - Questo
fatto, questo grande cambiamento rispetto a un passato millenario, ha una
duplice radice - obiettiva e soggettiva.
La radice obiettiva è nello sviluppo secolare della
produzione capitalistica, che ha rotto gradualmente, ma per sempre, la
circolarità sempre uguale delle opere e dei giorni (dei contadini, artigiani
tradizionali.) - “La borghesia è una classe altamente rivoluzionaria.
[Essa...] non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di
produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei
rapporti sociali...Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’incessante
scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni
contraddistinguono l’epoca borghese fra tutte le altre...” [9]. Perciò l’età capitalistico-borghese, l’
età nostra, è quella in cui in linea di principio, “gli uomini
sono... costretti a considerare con gli occhi liberi da ogni illusione
[religiosa, mistico-sacrale, politica, o altra] la loro posizione nella vita, i
loro rapporti reciproci...” [10].
La radice soggettiva è nella tradizione di due secoli di
lotte democratiche, rivoluzionarie, poi socialiste. Nell’eredità della
Rivoluzione francese e della Rivoluzione russa, di tutta la storia del Movimento
operaio, anzi in generale, di tutta la storia della democrazia nei nostri Paesi.
Questo è l’elemento che l’avversario di classe mira consapevolmente e
sistematicamente a obliterare, a distruggere. E questo è l’obiettivo cui mira
la manipolazione di massa, che va molto al di là della “propaganda”televisiva
o altra, e attacca ormai la percezione di sé, lo sviluppo delle facoltà, della
sensibilità, emotività, intelletto dei manipolati [11].
L’avversario opera a ragione con queste armi e su questo
terreno. Esso sa che, nonostante le vittorie ottenute contro i lavoratori negli
ultimi decenni, nonostante la fine del protosocialismo in Europa orientale, le
povere parole d’ordine lanciate dai suoi cantori, “ufficiali” o no, (“nuovo
ordine mondiale”, “fine della storia” ecc.) poco valgono a mascherare i
giganteschi contrasti e problemi del capitalismo globalizzato, dell’ imperialismo
moderno [12].
Esso conosce e comprende praticamente la necessità di ridurre le popolazioni
del c.d. “primo mondo” a esseri non-pensanti, e così a non-cittadini, per
poterle dominare, come quelle dello ex-”terzo mondo” e dei Paesi già
socialisti. Da parte nostra, bisogna riconoscere che è ancora soltanto agli
inizi la comprensione di questa strategia non più solo oscurantista e
anticulturale, ma di vera e propria paralisi e atrofia di capacità umane
primarie. Molto resta da fare. Ma conta tener fermo, qui, che continuano ad
operare, nel tardo capitalismo, le due radici dell’impossibilità di governare
come nel “buon tempo antico”. La produzione capitalistica continua più che
mai a rivoluzionare sé stessa e tutti i rapporti sociali. L’esperienza di due
secoli di lotte continua a vivere, benché obnubilata, e dà frutto quotidiano
nella intelligenza, ancorché mutilata e parziale, dei nuovi fenomeni, delle
nuove esperienze di chi lavora.
L’assurdo della fame, della guerra endemica, delle lotte
etnico-identitarie in un mondo in cui ormai, obiettivamente, ci sono
risorse per tutti gli uomini e c’è posto per tutti, non può essere
mascherato - occorre che non sia percepito (o percepito soltanto come
fatalità, o come incubo). L’irrazionalità crescente dell’ “ordine”
vigente, delle politiche dei suoi padroni e governanti, deve essere celata ad
ogni costo - e si può farlo, solo abolendo nei fatti quel “tribunale della
ragione umana”, cui la borghesia allora progressiva, tre secoli orsono, nella
fase illuministica, aveva proclamato doversi sottoporre ogni tesi, ogni
affermazione, ogni certezza dogmatica, ogni istituzione sociale. Di qui l’importanza
decisiva del “fronte culturale” nelle lotte di oggi. Perché il “tribunale
della ragione” non è più costituito da una minoranza illuminata di uomini
colti (i philosophes, allora), in mezzo a un mare di analfabeti, ma, proprio
grazie allo sviluppo del mondo borghese (e delle lotte operaie in esso)
quel “tribunale” si può ora allargare fino a diventare giudizio,
ragionevolezza, critica di massa. Questo (a mio parere) è l’oggetto della lotta
di classe, oggi, sul terreno culturale - che, come detto, non è
ormai soltanto quello del “sapere” (in ogni specificazione e dimensione),
ma, altresì, quello della sensibilità, della percezione, dello sviluppo - o
dell’avvizzimento - di tutte le facoltà potenzialmente presenti in ogni
bambino, ogni donna, ogni uomo.
2. La rappresentazione millenaria dell’ “alto”
e del “basso”, dei “servitori” e dei “padroni”, diffusa nelle
coscienze, onnipervasiva, presente nel linguaggio, e poi nei documenti e
monumenti giunti fino a noi, è essa stessa oggetto di ricerca storica -
linguistica, appunto, iconografica, di storia delle idee, e di qui di storia
letteraria, filosofica ecc. - È giusto che sia così, perché questa rappresentazione,
anzi le numerose e diverse forme di rappresentazione cosciente, religiosa,
ideologica, artistica ecc., di un fatto fondamentale della vita umana associata
come la divisione in classi, apre la via a intendere e conoscere la costituzione
interna, i modi di vita, e attraverso ciò, il rapporto tra le “idee” degli
uomini e il loro modo di produrre e riprodurre se stessi, nella natura, mediante
il lavoro [13].
Ma due cose sono evidenti.
Primo: per comprendere il tessuto di attività, produzioni,
idee, in cui nacque e si inserisce per noi un’opera passata (p. es.: le
strade romane, o la poesia di Orazio), devo avere un’ipotesi sul rapporto di
produzione fondamentale in cui, nel tempo dato, gli uomini producevano e
riproducevano sé stessi.
Secondo: la rappresentazione (millenaria, diffusa,
multiforme, onnipresente) delle classi è una cosa. Il concetto di
“classe sociale” è un’altra. Che ci siano “sempre stati” (nella storia
documentalmente tràdita) “alto” e “basso”, “signori” e “servi”,
ecc. ecc., non mi dice ancora nulla sulla maniera in cui la cosa
funzionava - nonostante fosse, come s’intuisce, fondamentale. (Anche “intuizione”
non è concetto!)
Così dobbiamo abbandonare il lato per cui le “classi”
sono, e sono state presenti, evidenti, rappresentate, intuite, in forme e modi
diversissimi, nelle lingue, opere, monumenti a noi tramandati dai millenni -e
domandare che cosa intendiamo veramente quando parliamo di “classi” e di “rapporti
di produzione” [14]. Del resto,
il pregiudizio che le classi “si vedano” più o meno immediatamente, è, lui
sì, immediatamente confutato da uno sguardo anche superficiale alla società in
cui viviamo [15]. Al
massimo, “si vede” ancora e sempre l”alto” e il “basso”, il ricco e
il povero, il potente e chi è dominato. Una constatazione vecchia quanto il
mondo, e che non mi fa saper nulla di nuovo. [16]
[1] La schiavitù
era tanto ovvia, che è anzi documento della grandezza filosofica di
Aristotele il fatto che essa diventi per lui problema: egli si chiede se
schiavitù sia “per natura” o “per convenzione”, senza decidere la
questione.
[2] La storia delle rivolte e insurrezioni si estende nei
secoli. Qualche grande episodio è ricordato generalmente: dalla crocifissione
dei combattenti di Spartaco lungo la via Appia nell’ 71 a. C., alle jaqueries
periodiche dei servi della gleba in Francia e Inghilterra fino a tutto il ‘300,
alla Guerra dei Contadini in Germania (1525-6), alla rivolta di Pugaciov in
Russia sotto la zarina Caterina II (1773-4).
[3] P. es.
con la storiografia: G.B. Vico, Montesquieu,Voltaire, Gibbon, Ferguson, Hume
mettono fuori gioco definitivamente, nel ‘700, la “storia” come “storia”
dei re, delle loro battaglie e conquiste, ecc., per una storia delle “nazioni”,
dei loro costumi, istituzioni, modi di vita.
[4] È il termine italiano in cui
tutto questo si riassume, oggetto delle ricerche del maestro di Melchiorre Gioia
e Carlo Cattaneo, a cavallo tra ‘700 e Risorgimento, G.D. Romagnosi
(1751-1835) - un termine che già di per sé contiene la nozione di un processo
e di un avanzamento, e che vale la pena di rimettere in uso!
[5] E (non a caso)
nello stesso periodo nasce la economia politica come scienza della Ricchezza
delle Nazioni, della sua origine (nel lavoro senz’altro - Adamo
Smith, 1776), del suo sviluppo, del suo possibile incremento grazie a una politica
economica saggia e illuminata.
[6] L’uguaglianza, nella Rivoluzione Francese come
nella Costituzione della Repubblica italiana, non è una “verità
immediatamente evidente” (preambolo della Dichiarazione d’
Indipendenza americana, 1776), ma un dover essere: un obiettivo da
realizzare attraverso tutte le istituzioni della vita sociale, ovvero un “compito
della Repubblica”.
[7] Ma che è ripresa con spirito di sistema nel maggior teorico della
neorazzista “identità culturale”, il francese A. de Benoist, a partire dall’opera
Vue de droite, 1977, tradotta in più lingue.
[8] Quel che più
conta non sono, qui, le teorizzazioni di intellettuali che riescono a “sfondare”,
ma la cosa di cui essi si fanno più o meno malinconici cantori: cioè, la
manipolazione di massa, la spoliazione fin della sensibilità più elementare
(acustica, visiva, emotiva), l’invasione e occupazione delle menti e dei cuori
con una diffusa e in-traguardabile, permanente alluvie di “messaggi” sempre
indifferenti, perché sempre di nuovo immediati, e perciò
non-elaborabili, impermeabili allo sforzo di dare un senso alle proprie
esperienze, ai propri rapporti, alla propria vita - questa è la messa in
pratica grandiosa, su scala quasi planetaria, della produzione di dominio
mediante una sorta di assenso muto, inarticolato e inarticolabile, e però di
massa, in quelle parti del mondo capitalisticamente unificato in cui i
lavoratori si sono già una volta organizzati, riconosciuti come classe, e hanno
posta la questione dell’ egemonia - e potrebbero tornare a farlo,
elaborando una strategia adeguata alla figura attuale del potere
imperialista.
[9] K. MARX, F.
ENGELS, Manifesto del partito comunista, Londra 1848.[Cito dalla tr. di
P. Togliatti, Roma 1949, p. 31].
[10] Ibidem.
[11] Come ha mostrato tra
gli altri Th. METSCHER, da ultimo nello studio Società civile e coscienza
postmoderna, in: AA.VV. Gescheiterte Moderne?[Sull’ideologia del
Postmodernismo], Edition Marxistische Blätter, Essen 2002.
[12] Rimando per questo al mio saggio Conoscere l’imperialismo
moderno, e agli altri studi apparsi nel vol. Il piano inclinato del
capitale. JacaBook, Milano, 2003. V. ora anche E. DAL BOSCO, La favola
della globalizzazione, Bollati Boringhieri, Torino 2004; J. ARRIOLA e L.
VASAPOLLO, La dolce maschera dell’Europa, JacaBook, Milano 2004.
[13] Un corpo collettivo umano si riproduce anche bioticamente, s’intende:
riproduzione sessuata. Questa esso ha in comune con buona parte del regno
animale. Gli enti che chiamiamo comunemente “uomini” sono perciò biplanari:
entrano nella vita e nella società, con la sua precedente storia, alla
nascita, e d escono da entrambe solo con la morte. La loro attività sociale
lascia però tracce indelebili - piccole o grandi (non foss’altro per il modo
in cui hanno trasmesso ai figli tipi di attività lavorativa, di linguaggio,
ecc.).
[14] Una volta per tutte. Chiamiamo “Rapporti di produzione”
[RP] i rapporti di e tra uomini in quell’attività peculiare loro (il lavoro),
con cui, producendo oggetti qualisivogliano (“materiali” o no), in
definitiva riproducono la loro vita, e dunque sé stessi.
[15] Che un certo signor B., a tutti noto, sia straricco e assai
potente, si “vede” immediatamente - e non porta da nessuna parte...
[16] Mi sbaglio! Perfino questa
banalità si vorrebbe obliterare “linguisticamente”. Così è denominata “gerarchia
piatta” (un bell’ossimoro) quella vigente in certi oligopoli, dove è norma
darsi tutti del “tu” e chiamarsi col nome di battesimo - e, vigendo per lo
più rapporto di lavoro precario, si è poi messi fuori senza complimenti da un
“gerarca piatto” che decide al riguardo.