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Il reddito di cittadinanza regionale. Luci e ombre

Francesco Maranta

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Il provvedimento del reddito di cittadinanza in Campania ha concluso il suo iter legislativo con l’approvazione in aula del regolamento di esecuzione della legge regionale. Come principali promotori di questo provvedimento, avremmo motivi e ragioni per un facile entusiasmo e per compiacerci di un risultato sin qui inatteso. Il nostro intervento invece sarà lucidamente critico. Nei lunghi mesi che sono trascorsi, quasi due anni, la questione del reddito di cittadinanza ha aperto una grande discussione, in luoghi e in ambienti che erano ben lontani dalle nostre argomentazioni. Eppure è divenuta una questione centrale. Non sono mancate lacerazioni tra quanti desideravano un provvedimento efficace e innovativo e quelli che desideravano l’approvazione di un provvedimento qualunque fosse, purché portasse gloria e lustro. Non a caso i manifesti istituzionali che ne vantavano l’approvazione sono stati irresponsabilmente affissi molto prima che la legge fosse realmente applicata, così come questa legge che nessuno voleva ha, dopo la sua approvazione, trovato immediatamente molti padri. A noi non interessano le attribuzioni di paternità (chi può vantare di avere il copyright sul reddito di cittadinanza?), ma interessa invece sapere che si è inserito un nuovo tassello in un percorso comune di lotte. Per quanti sacrifici, quante lacerazioni abbiamo attraversato, non abbiamo mai perso la convinzione che questa era una battaglia che valeva la pena fosse combattuta fino in fondo.

Non credo ci sia bisogno, per chi ha dimestichezza con l’argomento, di definire il reddito di cittadinanza. Come ho già avuto modo di dire l’assegnazione di un reddito di cittadinanza non è una forma di assistenza che vuole porre gli individui nella dipendenza di uno Stato (o Regione) caritatevole. Non deve dispensare dal lavoro ma rendere effettivo il diritto al lavoro. Deve essere inseparabile dallo sviluppo delle capacità individuali, dall’accesso alle forme di conoscenza, di trasmissione dei saperi. È una misura di sostegno in un paese, è bene ricordarlo, che, a differenza degli altri paesi europei, non prevede forme di sostegno continuate per le persone espulse o mai entrate nel processo produttivo. Ogni persona deve avere diritto a cercare il lavoro che più lo soddisfa, a trovare forme di sostegno che, nei periodi in cui il mercato li ha messi da parte, consentano un’attesa costruttiva e non angustiante.

È con questa idea che è cominciato un tavolo di confronto con le altre forze di maggioranza, perché, è bene ricordarlo, il reddito non rientrava nel patto elettorale di inizio legislatura. Quando, in una delle ultime finanziarie regionali, la Regione ha deliberato la cessione di alcuni beni immobili non funzionali all’attività pubblica (un albergo, una pompa di benzina, etc.) abbiamo, insieme agli altri compagni del mio gruppo, cominciato una battaglia perché quei fondi straordinari fossero per metà destinati a politiche di sviluppo e per l’altra metà fossero vincolati a finanziare una misura come il reddito di cittadinanza. Inizialmente c’era molto scetticismo su una proposta che poteva apparire strumentale, ma le nostre intenzioni così come le nostre argomentazioni erano più che mai valide e la “questione reddito di cittadinanza” è stata iscritta all’ordine del giorno dell’agenda politica regionale. Come si potrà immaginare non sono mancate opposizioni e perplessità nello schieramento di centro sinistra, ma alla fine il primo risultato, quello di vincolare l’uso dei fondi, era stato ottenuto. Adesso avremmo potuto lavorare alla stesura del provvedimento sapendo di disporre delle risorse necessarie e di non rischiare di approvare una legge puramente formale. In corso d’opera, in un processo lungo due anni, quando si è capito che i tempi di cessione e di realizzo sarebbero stati troppo lunghi, si è ottenuto che quelle risorse fossero recuperate dai fondi ordinari.

È così arrivata, dopo un primo confronto, una bozza di proposta di legge elaborata dall’Assessorato alle politiche sociali, presieduto da Adriana Buffardi. E qui vorrei fare due piccoli incisi. Il primo è che il testo su cui si è aperta la discussione non era stato preparato da noi, per quanto molte volte la stampa ce ne attribuisse la paternità. Molte cose di quel testo non corrispondevano alle nostre intenzioni e per modificarle, come dirò a breve, abbiamo intrapreso una lunga battaglia. Il secondo, conseguente del primo, è che purtroppo, a causa del grande squilibrio di risorse e competenze che c’è tra giunta e consiglio non abbiamo potuto presentare un testo direttamente in aula, ma, per evitare possibili errori, abbiamo dovuto far sì che la proposta fosse elaborata dai tecnici della giunta. Si badi, non che non disponessimo di nostre intelligenze, ma la struttura amministrativa e la conoscenza in dettaglio delle singole voci di bilancio e di spesa è sempre più patrimonio esclusivo dei tecnici, dell’apparato burocratico amministrativo, in grado, se vuole, di affossare ogni volontà politica. Uno squilibrio quello dei poteri tra consiglio e giunta che si va sempre più accentuando, anche con le ultime proposte di riforma dello statuto regionale, che vorrebbero un’assemblea semplice ratificatrice delle scelte del presidente e della sua giunta.

La proposta di legge presentata dalla giunta e arrivata in consiglio ci ha da subito lasciati perplessi. Il nostro primo obiettivo era quello di stabilire un principio, cioè un diritto di ogni individuo ad un reddito dignitoso. La legge invece aveva come punto centrale esclusivamente la famiglia, tanto che a fare richiesta, secondo la bozza, avrebbe dovuto essere il “capofamiglia”.

Avevamo poi espressamente chiesto che beneficiari del provvedimento fossero anche gli immigrati regolarmente residenti, mentre il testo non contemplava questa ipotesi. Mi sembra che la questione da noi posta, e poi positivamente risolta, di considerare i migranti possibili beneficiari, apra la via al concetto di cittadinanza di residenza, cioè del fatto che una persona disponga di un patrimonio di diritti nel luogo dove vive e non in base alla propria nazionalità. Un fatto molto importante, sul piano politico come su quello giuridico, perché inserisce i migranti come soggetti titolari di un pieno diritto di appartenenza alla nostra comunità.

Inoltre l’ipotesi iniziale prevedeva un’erogazione monetaria di 300 euro e non prevedeva interventi extra-monetari, come gli abbonamenti per i trasporti, l’accesso ai beni e alle manifestazioni culturali, il sostegno alle spese per i fitti.

Ci sembrava un quadro d’insieme che svilisse i nostri propositi iniziali. Eravamo e siamo ben consapevoli dei limiti di un provvedimento a carattere regionale, ma guai se il reddito avesse assunto la forma di una caritatevole elemosina.

È cominciato quindi il lungo braccio di ferro sulla legge da approvare, fatto di emendamenti e di discussioni infuriate in aula. In questa prima fase inizialmente è mancato un forte apporto dei movimenti, inizialmente poco fiduciosi che una battaglia del genere potesse portare a qualche risultato. Quando però è stato chiaro che quello di cui si discuteva era un problema reale il loro contributo e il loro apporto è stato preziosissimo.

Abbiamo ottenuto che il testo contenesse un esplicito riferimento ai migranti, che la somma fosse portata a 350 euro mensili, che fossero potenziati gli interventi non monetari. Il percorso non è stato lineare, è durato diversi mesi tra crisi di maggioranza e paralisi istituzionali. La discussione in aula è stata spesso interrotta, frammentata, con una maggioranza spesso incerta e un’opposizione abilmente demagogica. Nel frattempo l’attenzione mediatica e popolare sul provvedimento è cresciuta, complice anche una scarsa conoscenza dei meccanismi istituzionali, e in molti hanno cominciato a cavalcare la tigre. Primi tra tutti i movimenti legati alla destra napoletana, che, sviando l’attenzione dal governo nazionale che aveva sospeso il reddito minimo di inserimento, hanno cominciato a giocare al rilancio e a incalzare strumentalmente l’amministrazione regionale. Di tutt’altro tipo invece la pressione di movimenti di precari, immigrati, studenti, disoccupati, storicamente legati alla sinistra, che non hanno mai smesso un ruolo positivamente critico e politicamente attivo.

La questione più dirimente si è aperta sul problema del reddito come diritto familiare o individuale. Su questo punto non abbiamo mai avuto dubbi, perché la titolarità di un diritto appartiene all’individuo e non alla famiglia. È come se una persona si presentasse in farmacia e si vedesse negare un farmaco perché già un altro membro della famiglia ne ha preso uno. Allo stesso modo ci siamo anche resi contro che se c’erano delle precise resistenze culturali, c’era d’altro canto la necessità di non esaurire le risorse nell’ambito di pochi nuclei familiari. La mediazione, perché di questo si è trattato, è stata di stabilire un tetto di 350 euro per famiglia, ma all’interno di questa disponibilità ogni membro può far richiesta dell’erogazione monetaria. Non ci sono limiti di sorta per gli interventi di tipo extra-monetario, sui quali mi sembra giusto spendere qualche parola.

Abbiamo immaginato che il reddito di cittadinanza dovesse consentire ad ogni individuo la partecipazione alla vita sociale, civile e politica. Gli interventi di tipo non monetario previsti dalla legge vanno in questo senso: contributi al fitto, abbonamenti per i trasporti, facilitazioni per l’accesso alle manifestazioni culturali, gratuità dei libri di testo scolastici, sono elementi importanti e fondamentali di questo provvedimento sui quali spesso poco si è soffermata l’opinione pubblica, più attenta al quantum monetario. Noi crediamo che le due cose siano strettamente legate, e che evitare che il reddito sia una misura di mera assistenza dipenda anche dal funzionamento di questo tipo di misure.

Quando questo faticoso lavoro sembrava giunto a termine, affiancato dal continuo confronto con intellettuali, movimenti, rappresentanze sindacali, pronti ormai ad approvare la legge in aula, siamo avvertiti, praticamente dalla stampa, che i fondi stanziati per il reddito sono stati destinati a sanare i debiti con i farmacisti, che hanno aperto una aspra vertenza con la regione per il pagamento in ritardo dei loro crediti. Una scelta incauta che ha rischiato di vanificare il lavoro svolto e che ci metteva di fronte al problema di trovarci ad approvare una legge priva di copertura finanziaria.

Nulla infatti sarebbe stato più rischioso di approvare una legge di carta, di soli intenti su di una materia così delicata sulla quale avevamo investito tanto e per la quale si era determinata una forte aspettativa popolare. Molti si sarebbero accontentati anche solo di una legge formale, pur di poter vantare un risultato. Noi abbiamo preferito la strada che rispettasse l’impegno e la volontà di tanti compagni e che non vanificasse gli sforzi sin qui fatti. Abbiamo chiaramente fatto intendere che non avremmo votato il provvedimento se prima non fossero state recuperate le risorse per la sua copertura. Solo così è stato possibile recuperare la credibilità della legge che andavamo ad approvare. La votazione non è stata un’operazione semplice e tra la discussione generale e quella sull’articolato abbiamo speso diverse sedute del consiglio regionale.

A maggio, finalmente, l’iter si è concluso con l’approvazione del regolamento di esecuzione. Considerati i tempi del consiglio regionale, siamo stati quasi veloci. Anche su questo comunque abbiamo molto lavorato in fase di emendamenti per rendere effettivo il sistema dei controlli e assicurare che la sperimentazione fosse assicurata ai beneficiari per i tre anni previsti dalla legge.

Infatti il sistema prevede che il reddito sia erogato dai comuni, che siano i comuni a raccogliere le domande, spetta poi ai comuni capofila elaborare le graduatorie degli aventi diritto.

Avremmo preferito un sistema che accentrasse poteri di controllo, di verifica e di elaborazione delle graduatorie alla regione, per evitare il rischio di improprie differenziazioni di trattamento a livello provinciale e quello di un’eccessiva discrezionalità da parte delle amministrazioni comunali. Un rischio concreto, considerata la fragilità del sistema amministrativo locale e l’enorme mole di domande che verosimilmente saranno presentate.

Ora, questa nostra breve ricostruzione non vuole avere valore storico. Ricostruire le tappe e le fasi del provvedimento ci serve solo per guardare al futuro e per fare delle considerazioni di carattere più generale. La legge sul reddito di cittadinanza regionale è stato un provvedimento complesso. Una complessità che senza l’aiuto di tante intelligenze, del generoso lavoro dei compagni dei movimenti che per mesi hanno letteralmente presidiato le sedute del consiglio regionale, non avremmo nemmeno osato affrontare. Rischioso, come sempre quando si sceglie di sperimentare qualcosa di nuovo, che solo qualche anno fa sarebbe stato impossibile anche solo immaginare.

Oggi noi abbiamo la consapevolezza che la legge approvata non sia la migliore delle leggi possibili e che sarebbe molto pericoloso se servisse a nascondere o a mascherare scelte di tutt’altro spessore effettuate dal centro sinistra. Riteniamo anche che bisogna vigilare sulla sua applicazione, per evitare che si trasformi in un sistema clientelare, che si intrecci con la pura logica dell’assistenzialismo caritatevole. Pensiamo invece che questa norma debba servire come punto di partenza per una nuova battaglia sul tema dei diritti, che, in piccolo, si sia aperta una nuova strada per mettere al centro del dibattito istituzionale, regionale e nazionale, una questione nostra, non legata ad interessi privati e a potenti corporazioni, ma che nasce dalla sofferenza, la riflessione e l’impegno di tanti uomini e donne di sinistra.