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Osservatorio meridionale

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La prostituzione delle donne immigrate nelle dinamiche socio-economiche del meridione

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Stazionano in luoghi situati in prossimità di fabbriche o lungo cantieri aperti,
quasi a ricordare il rapporto che intercorre tra sesso e produzione.
A. Pascale, La città distratta

1. Introduzione

Qualcuno ha definito la prostituzione come “il mestiere più antico del mondo” inaugurando un luogo comune di enorme successo, che tuttavia rappresenta una piccola parte di verità e molte errate congetture nella comprensione del fenomeno, specialmente delle sue configurazioni attuali. L’impiego pressoché esclusivo di straniere nel mercato del sesso, affermatosi in seguito alla vertiginosa crescita dei flussi migratori dai paesi del terzo mondo dopo i primi anni ottanta, rende inefficace l’applicazione di un modello della continuità, fondato sulla comparazione della prostituzione di ieri e di oggi: le donne che affollano le litoranee o le periferie cittadine sono completamente estranee al tessuto sociale locale, bisognose di relazioni e strutture d’appoggio dietro le quali si nasconde il lucroso sfruttamento praticato da piccole e grandi organizzazioni criminali, pertanto si riduce drasticamente la loro possibilità di gestione del mercimonio del corpo. In definitiva, le donne non sono destinatarie di una quota significativa dei benefici della transazione economica che regola la vendita e l’acquisto del sesso. Se ne deduce che, nelle sue forme attuali, la prostituzione non ha più le connotazioni di un “mestiere”, ovvero di un’attività volta a produrre reddito per chi direttamente la esercita. Bisogna intendersi: la prostituzione produce quotidianamente un enorme volume di denaro [1] contante e facilmente trasformabile, che tuttavia viene quasi totalmente requisito dall’organizzazione criminale oppure, con meccanismi più sottili ma non meno perversi, convertito dalle ragazze nell’acquisto obbligato di “servizi” o nell’estinzione di debiti fittizi ugualmente generati dalle dinamiche di sfruttamento. Quali siano i procedimenti destinati al recupero del denaro lo si vedrà più oltre. Ciò che interessa segnalare, in prima istanza, è una caratteristica della prostituzione di donne immigrate che funga anche da clausola metodologica nell’analisi del fenomeno: le pratiche attuali della prostituzione che si osservano nel Meridione come in altre aree della sponda settentrionale del Mediterraneo non sono riconducibili alle tradizionali logiche del lavoro, sia pure illegale, poiché non producono ricchezza per chi la pratica. Alla sopraffazione sociale implicita nell’acquisto di prestazioni sessuali si aggiungono dunque forme estreme di sfruttamento economico, spesso identificabili con la schiavitù, che rendono la situazione delle ragazze straniere deputate nel nostro territorio alla vendita del corpo radicalmente diversa da quella della “meretrice”, così come ci è stata consegnata dall’immaginario letterario e cinematografico o dal senso comune.

2. Progetto migratorio e prostituzione: i termini di una relazione

Alle radici di questa differenza sta la condizione di migranti, che caratterizza oggi la quasi totalità delle donne prostituite in strada in molte aree dell’Europa mediterranea. Le cifre non consentono di pensare ad una concentrazione momentanea o comunque circostanziale, ma indicano piuttosto un’avvenuta mutazione nelle regole del mercato del sesso a pagamento, che prevede una rigida divisione di aree e funzioni in cui le donne extracomunitarie occupano il posto più esposto e meno remunerativo [2].

Già alcuni anni fa l’associazione PARSEC, aggiornando su mandato del Ministero per le Pari Opportunità i dati di una ricerca svolta con l’Università di Firenze, stimava la presenza in Italia di un numero di straniere prostituite compreso tra le 14.000 e le 19.300 unità, con una concentrazione maggiore nei grossi agglomerati urbani come Milano (2.500) e Roma (3.500) e alcune anomalie significative quali l’elevata cifra di vittime della tratta (tra 1.000 e 1.500) che esercitano il meretricio nelle zone rurali e costiere della Campania [3]. Le poche analisi attendibili sulla situazione attuale mostrano una crescita esponenziale delle presenze, segno di un’indiscussa affermazione dell’offerta di prostituzione straniera sul mercato italiano del sesso a pagamento. È difficile stabilire con esattezza la quota percentuale delle prostitute straniere sul numero totale delle donne impiegate nel commercio del sesso - la fonte appena citata parla di un’incidenza del 50% circa - ma si tratta di un dato poco significativo, poiché la specializzazione dell’offerta, con la separazione di compiti, luoghi e condizioni della prostituzione tra italiane e straniere, rende più efficace parlare di due pratiche diverse piuttosto che di aspetti complementari della medesima attività. Delle due, l’esercizio della prostituzione da parte di extracomunitarie, svolgendosi prevalentemente in strada, è di gran lunga più visibile, esposto e, di conseguenza, destinato a generare tensioni sociali e a subire il carico delle periodiche repressioni.

Tra le ragioni del successo della manodopera straniera nel mercato del sesso va segnalato, in primo luogo, il costo esiguo delle prestazioni, la facilità di reperimento delle donne - collocate, peraltro, secondo precise strategie di organizzazione del territorio - e, non ultimo, il gusto della scoperta e della trasgressione intrinseco nella ricerca di sesso a pagamento e soddisfatto dall’aspetto esotico delle ragazze [4]. Più complesse e variegate le cause che determinano una così elevata disponibilità di manodopera straniera da impiegare nella prostituzione. Secondo Massimo Di Bello, la vertiginosa crescita delle extracomunitarie sulle strade si registra principalmente nel triennio 1989-1992 in relazione a due fattori di diversa natura: la destabilizzazione del sistema politico dell’est europeo, con la caduta del muro di Berlino e l’inizio del conflitto in Yugoslavia che aprono le cateratte dei flussi migratori verso occidente, e la coscienza diffusa della trasmissione dell’Aids attraverso rapporti eterosessuali non protetti, che favorisce il ritiro delle italiane dall’attività della prostituzione e apre illimitate possibilità di lavoro alle nuove schiave del sesso [5].

Precedentemente la prostituzione di donne straniere - segnatamente sudamericane provenienti da Brasile, Colombia, Perù, Santo Domingo
 era soprattutto l’esito ultimo di progetti migratori individuali disperati o comunque destinati al fallimento. È solo a partire dai primi anni novanta, dunque, che si sviluppano flussi eterodiretti, organizzati e continui di donne provenienti dai paesi dell’est e dell’Africa sub-sahariana, destinati a confluire nel grande mercato del sesso dell’Europa occidentale: bisogna assumere questo spartiacque storico - come suggerisce Chris de Stoop - per parlare di tratta di donne, uomini e minori a scopi di sfruttamento sessuale [6].

Un così ampio insieme di persone, singolarmente omogeneo per genere, condizione sociale e attività, risulta tuttavia profondamente articolato al suo interno. Significative, in primo luogo, sono le differenze che caratterizzano le motivazioni del progetto migratorio e il rapporto di quest’ultimo con il comune esito finale. Secondo un approfondito dossier elaborato dalla Cooperativa Sociale Dedalus, sulla base di tali criteri si possono individuare tre principali categorie di donne nel vasto scenario della prostituzione migrante:

• Un primo gruppo include le vittime della tratta vera e propria, ovvero le donne coattivamente e violentemente costrette alla prostituzione a seguito di un itinerario cominciato in patria con il raggiro o il rapimento;

• Una seconda componente, quantitativamente poco rilevante, è costituita da donne che si prostituivano già nel proprio paese o comunque gravitavano in circuiti collaterali all’esercizio effettivo del meretricio. Il loro progetto migratorio è fondato, ad un tempo, sulla continuità e il cambiamento, poiché sperano di migliorare la propria condizione svolgendo la stessa attività in un contesto più favorevole;

• Il terzo insieme raggruppa le donne che individuano, sin dalla partenza o poco dopo il loro arrivo, nella prostituzione l’unica alternativa alla povertà o comunque allo svantaggio economico. Si tratta di una categoria che pone interrogativi di portata capitale, poiché scaturisce da una forma di coercizione spesso più efficace e penetrante della violenza fisica e di gran lunga più diffusa: quella esercitata dalla divaricazione della forbice delle disuguaglianze e dall’imposizione dei modelli occidentali di benessere [7].

Pur mantenendo il quadro generale, sarebbe più corretto a questo punto parlare di prostituzioni invece che di prostituzione. Nelle differenze tra aspirazioni, progetti, appartenenze che caratterizzano queste donne si rintracciano d’altronde le variegate dinamiche della mirabolante impresa della vendita del sesso, che produce ricavi altissimi, veicola denaro pulito e facilmente riconvertibile in altre attività illecite sfruttando una manodopera in costante aumento dai costi minimi.

 

3. La “specializzazione” etnica

L’appartenenza etnica e il luogo di provenienza delle donne sono fattori fondamentali nella determinazione delle strategie di sfruttamento e nella segmentazione dell’offerta di sesso a pagamento. Senza considerare il dato sociologico e persino antropologico sfuggono del tutto i versatili e flessibili meccanismi messi in atto dal padronato criminale per realizzare il controllo sulla catena della tratta: l’attuazione efficace e senza sbavature di un qualsiasi tipo di sfruttamento richiede, infatti, una conoscenza profonda del retroterra sociale, economico e culturale del soggetto sfruttato.

Per i clienti, dall’altro lato, l’appartenenza etnica della prostituta acquista senso solamente sul piano estetico e può evidentemente aumentare il valore della merce: le implicazioni profonde della provenienza della ragazza sono deliberatamente tenute fuori dalla relazione (anzi, il rapporto mercenario è possibile solo a patto di tener fuori tali aspetti), poiché ne incrinerebbero pericolosamente le condizioni [8]. Trova qui concreta applicazione una delle più sottili violenze perpetrate ai danni dell’immigrata, in realtà condizione necessaria dello sfruttamento come di qualsiasi atto volto alla diminuzione della persona: la negazione dell’individualità, della storia personale e l’appiattimento del soggetto sulla propria condizione attuale o la presunta categoria d’appartenenza. La ricaduta di ciò negli atteggiamenti linguistici e mentali degli “ospitanti” è descritta da una giovane ungherese: “Tu non hai nemmeno un nome, quando si parla di te si dice ‘la filippina’, ‘la peruviana’, ‘il mio cingalese’ oppure ‘la ragazza’, ‘la donna’” [9].

L’invisibilità delle reali dimensioni della differenza agli occhi della clientela, sommata all’astuta utilizzazione di tali particolarità da parte delle organizzazioni criminali, determina l’esistenza di diversi tipi di prostituzione, che può essere indicata come il risultato dell’ottimizzazione della catena dello sfruttamento. Nel meridione d’Italia, di cui in particolare ci occupiamo, si distinguono quattro modelli principali di prostituzione migrante costituiti sulla base della provenienza etnica e geografica delle vittime, relativi alle aree del Maghreb, dei paesi dell’ex blocco sovietico, dell’Albania e della Nigeria.

La prostituzione maghrebina registra la presenza più antica sul territorio: principalmente concentrata nei grossi centri urbani - soprattutto quelli che hanno un’antica tradizione di contatti con il nord-Africa, come Napoli - viene praticata da donne di 30-60 anni la cui permanenza in Italia risale ad un periodo compreso tra i 5 e i 18 anni or sono. La maggior parte di loro gode di un permesso di soggiorno e ha una famiglia che può contare soltanto sui proventi del meretricio; quest’ultimo si svolge in orari prevalentemente diurni (dalle 10.30 alle 13.30 e dalle 16.00 alle 20.00): l’adescamento del cliente avviene in strada ma il rapporto si consuma quasi sempre nell’appartamento preso in affitto dalla donna o in un camera d’albergo, con il tacito accordo del proprietario. Si noti che le prostitute maghrebine di norma sono completamente autonome e svolgono l’attività senza alcun vincolo con protettori o altre figure.

A ben vedere le donne nordafricane costituiscono l’unica fetta della prostituzione migrante che presenta un’organizzazione del lavoro simile a quella del meretricio esercitato prima della legge Merlin o, in generale, a quella di una qualsiasi attività terziaria: tempi ordinari, spazi deputati, regime di indipendenza e collaborazione con altri fornitori di servizi, come l’albergatore o il padrone di casa.

Radicalmente diversa la filiera in cui sono invischiate le ragazze provenienti da diverse aree dell’est europeo e dell’africa sub-sahariana: nel loro caso il commercio del sesso viene esercitato in un regime di sfruttamento parziale o totale. I primi arrivi di ragazze europee provenienti dall’ex blocco comunista si verificano dopo il biennio 1989-90 a causa del varo della legge Martelli (L. 39/90) e del cambiamento del panorama politico internazionale seguito alla disgregazione della cortina di ferro. Più tardivo il flusso delle albanesi, risalente al 1992-93, che determina comunque un mutamento generale nelle dinamiche della prostituzione migrante: il modello di sfruttamento cui sono sottoposte le donne provenienti da quest’area prevede forme di coercizione esplicita, esercitate con la violenza e la sopraffazione fisica sin dall’inizio del percorso verso l’Italia. È noto che l’ingresso di queste donne nel mondo della prostituzione comincia spesso con un sequestro, tanto da spingere i genitori a ritirare “le proprie figlie dalla scuola in Albania per timore che possano essere rapite davanti all’istituto” [10]. Altre volte la sottrazione della libertà alla donna passa attraverso l’instaurazione di un rapporto sentimentale con il futuro sfruttatore, che si propone come fidanzato promettendo un futuro matrimonio in cui la ragazza ripone fatue speranze di un’agiata vita familiare. Non sempre le due modalità sono compiutamente distinguibili: spesso capita, piuttosto, che i comportamenti violenti e coercitivi si associno alle implicazioni affettive e che la figura del “protettore” si identifichi con quella di un familiare o un compagno [11]. Fondare lo sfruttamento sul legame con la figura fisica dello sfruttatore richiede l’esercizio di un controllo costante della donna, utile ad annullarne qualsiasi autonomia: gli operatori sociali hanno osservato, nel comportamento delle albanesi, il rituale della telefonata all’uomo che le controlla prima e dopo ogni rapporto, la presenza dell’auto del “protettore” poco lontano e così via. Ogni aspetto della vita personale delle ragazze è piegato a questo scopo: la maternità, ad esempio, può essere consentita se il fidanzato-sfruttatore percepisce che la presenza di un bambino servirà a legare maggiormente la donna; di contro viene demonizzato qualsiasi gesto affettuoso che la ragazza riceve da un cliente poiché minaccia uno strumento fondamentale del business, ovvero l’esclusività della relazione con lo sfruttatore.

Come si può arguire, l’economia di sfruttamento praticata dai clan albanesi a danno delle proprie connazionali si regge su un’ambiguità insostenibile agli occhi di altre prostitute provenienti da zone diverse [12], eppure efficace perché coglie un tratto caratteristico del tessuto sociale albanese, ovvero la profonda svalutazione delle donne e la deprivazione culturale in cui esse vivono, specie nelle città più periferiche come Fier, Pogradec, Kukes, Tropoj, Durazzo, Korc, Librazhd, Elbasan, Shijak, Kavaj, da cui provengono nei fatti quasi tutte le prostitute albanesi [13].

A riprova del fatto che le differenze etniche e culturali costituiscono altrettanti strumenti per realizzare le più efficaci forme di sfruttamento, c’è il diverso atteggiamento che le stesse bande albanesi - dominanti nel mercato della prostituzione proveniente da est - riservano alle donne di altri paesi dell’ex blocco socialista. In molti casi del genere l’autonomia della donna è superiore e la distribuzione dei proventi effettiva: ucraine, moldave, polacche possono ottenere fino al 50% dei propri guadagni o comunque cifre forfetarie annuali di gran lunga superiori a quelle delle albanesi, che non riescono a inviare più di 5.000 euro alla famiglia. D’altronde la crescita vertiginosa degli ingressi clandestini dai paesi dell’est - soprattutto, secondo dati recenti, dalla Romania [14] - potrebbe mutare rapidamente anche le abitudini socio-economiche che riguardano questa fetta della prostituzione migrante.


[1] Si vedano, al proposito, le interviste a donne prostituite raccolte in un buon numero di ricerche effettuate sul campo da associazioni ed enti che si occupano di immigrazione: una ragazza che lavora in strada - il gradino più basso e meno remunerativo della prostituzione - mette insieme quotidianamente una cifra compresa tra i 150 e i 250 euro. Si provi appena a moltiplicare questa cifra per 4 milioni di donne impiegate annualmente - secondo dati ONU - nella vendita di servizi sessuali, per avere un’idea dei ricavi derivanti da tale business (cfr. Nell’inferno della domiziana, a cura dell’associazione J. E. Masslo, 2002, pp. 13 e 33).

[2] Con il loro ingresso, “pare che si sia venuto a determinare parallelamente un processo di involuzione del mercato della prostituzione nei termini di un minor potere contrattuale” (R. Palladino, Un universo ignorato. La domanda di prostituzione, in A. Morniroli (a cura di), Maria, Lola e le altre in strada. Inchieste, analisi, racconti sulla prostituzione in strada, Edizioni Intra Moenia, Napoli 2003, p. 166).

[3] Stima relativa al 1998, che aggiorna la precedente ricerca PARSEC - Università di Firenze, Il traffico delle donne immigrate per sfruttamento sessuale: aspetti e problemi. Ricerca ed analisi della situazione italiana, aprile 1996, studio realizzato per la Conferenza internazionale di Vienna sul tema “La tratta degli esseri umani”, Vienna, 10-11 giugno 1996.

[4] Infinite le considerazioni sull’argomento reperibili nella bibliografia specializzata, che tuttavia non include uno studio sociologico esaustivo sulle abitudini, le proiezioni e i problemi degli acquirenti di sesso. Appare tuttavia chiaro che la ricerca di evasione è una molla fondamentale nelle transazioni economiche a fini sessuali, come dimostra l’aumento vertiginoso dei rapporti consumati con transessuali (PARSEC 1998) e la richiesta elevatissima di rapporti anomali rivolti alle ragazze prostituite in strada (cfr. R. Palladino, op. cit., p. 166).

[5] M. Di Bello, La devianza degli immigrati: il ruolo delle organizzazioni criminali, Dipartimento di Teoria e Storia del Diritto, Università di Firenze, par. 3.8.

[6] Cfr. C. De Stoop, Elles sont si gentilles, Monsieur, La longue vie, Paris 1993.

[7] Cfr. A. Morniroli, op. cit., p. 26.

[8] Quando si deroga a tale regola implicita, il cliente può trasformarsi improvvisamente da fiancheggiatore in oppositore della tratta, proponendo ad esempio la fuga alla ragazza. È un evento dagli effetti pratici e simbolici dirompenti, profondamente temuto dalle organizzazioni criminali che gestiscono il commercio del sesso: ciò spiega il ferreo controllo esercitato anche durante l’attività sulle prostitute albanesi, moldave, ucraine che non sono legate allo sfruttatore dai fortissimi vincoli immateriali usati per trattenere le nigeriane.

[9] C. Morini, La serva serve. Le nuove forzate del lavoro domestico, Derive Approdi, Roma 2001, p. 47.

[10] A. Morniroli, op. cit., p. 57.

[11] Cfr. F. Carchedi - A. Piccolini (a cura di), I colori della notte. Migrazioni, sfruttamento sessuale, esperienze di intervento sociale, Franco Angeli, Milano 2000, pp. 146-148.

[12] “Anche quando il legame assume i toni della relazione sentimentale, [le altre donne dell’est] non manifestano la stessa dipendenza delle albanesi: hanno livelli di accettazione e sopportazione molto più bassi e appena si sentono tradite, o maltrattate, si fanno meno scrupoli a scappare e/o a denunciare i propri sfruttatori [...] Alcune ragazze della Moldavia e dell’Ucraina hanno raccontato di essere rimaste sconvolte di come le donne fossero trattate in Albania, essendo abituate ad una situazione molto diversa nel loro paese (A. Morniroli, op. cit., pp. 66-67).

[13] Cfr. ivi, p. 55.

[14] A proposito dei romeni, la Caritas rileva che “si tratta di una delle nazionalità a più elevato tasso di crescita in Italia negli ultimi anni”, seguita da un altro gruppo proveniente da est, quello dei bulgari. Questa pressione è esercitata prevalentemente da immigrati irregolari - facile preda dei circuiti economici illegali - come dimostrano i 4.109 provvedimenti di riammissione (24,1% dei casi) riguardanti romeni nel 2002 (Presentazione del Dossier statistico immigrazione 2003 della Caritas italiana, http://www.caritasroma.it/primopiano/Dossier2003-scheda.pdf).