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Teoria e storia del movimento operaio

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Alessandro Mazzone
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Professore di Filosofia della Storia, Università di Siena

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Il movimento dei lavoratori e la nozione storica di “egemonia”

Alessandro Mazzone

Fuoriuscita dal capitalismo e configurazione del soggetto di classe

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In secondo luogo, il rimando all’esperienza. C’è stata una lotta egemoniale, non per l’instaurazione dell’egemonia borghese, ma per il suo superamento, nel passato recente, in vari Paesi, e anche in Italia? Certo che c’è stata, e si chiamava comunemente (fino agli anni ’70 circa) lotta per l’egemonia della classe operaia, nel secondo blocco storico italiano recente, quello uscito dalla lotta antifascista,dal “Secondo Risorgimento”, e dal compromesso di classe (solo e vero compromesso “storico”) iscritto nella Costituzione della nostra Repubblica (Art. 1: “Repubblica democratica fondata sul lavoro”).

L’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale era un’epitome del mondo di allora (come la Russia, mutatis mutandis, lo era stata all’inizio del ’900). Era innanzitutto un Paese industriale, con un capitalismo avanzato, ma con una semicolonia interna, il Mezzogiorno. Era poi un Paese in cui la borghesia aveva abbandonato la sua funzione nazionale, perseguendo un progetto di imperialismo subalterno (lo “imperialismo straccione” dell’inizio del secolo, fino al c.d. “intervento” del 1915, e all’insensata “guerra parallela” del 1940). Un Paese a sovranità limitata dal 1938, e la cui sovranità era stata restaurata, in parte, grazie all’azione della classe operaia nella Resistenza. Un Paese la cui borghesia cercò e trovò, dopo il ’45, una nicchia nel nuovo mercato mondiale configurato dalla prevalenza industriale e monetaria statunitense, basandosi prevalentemente sui bassi salari, piuttosto che sulla ricerca e l’innovazione, salvo quella importata. E dove però la borghesia, con il forte sviluppo industriale degli anni ’50 e ’60, e pur continuando l’emigrazione di massa, seppe dare una grande risposta di classe alla sfida della “unità degli operai dei contadini”, del Nord e del Sud, svuotando le campagne e introducendo, entro certi limiti, un regime di alti consumi e di protezione sociale. Quando questo regime fu di nuovo sfidato, alla fine degli anni ’60, da lotte che si proponevano l’instaurazione di diritti sociali per la sanità, l’alloggio, i trasporti, la previdenza, l’istruzione pubblica e generale fino alle scuole superiori, insomma per una sicurezza di vita di ogni lavoratore nella “Repubblica fondata sul lavoro”, e dunque per l’apertura di prospettive di sviluppo umano quanto meno per chi volesse e sapesse perseguirle [1] - quando, dico, queste rivendicazioni furono poste e sembrarono per qualche tempo attuabili, vi fu chi parlò di “introduzione di elementi di socialismo” nella vita della nostra Repubblica, pur Paese capitalista (e imperialista-subalterno). Sbagliava?

Qui si tratta solo, per noi, di sviluppare la nozione di egemonia e di lotta egemoniale [2]. La lotta politica può modificare comportamenti collettivi, e ottenere cambiamenti nell’ordinamento, nelle istituzioni pubbliche. Sancire dei diritti sociali non significa ancora realizzarli nella vita di tutti e di ciascuno (come sappiamo anche troppo bene): occorre per questo una grande forza politica, organizzativa, morale, capace di indurre un cambiamento molecolare nella vita pubblica, una volontà di servizio pubblico negli addetti, in alto e in basso, e uno spirito pubblico democratico nell’ educazione, nella formazione specifica, nella stampa, nei c.d. media, ecc. Supponiamo, per ipotesi, che anche a questo si potesse giungere, nella fase di avanzamento democratico che sembrava aprirsi verso il 1970 [3]. Questa ipotesi non si scontra senz’altro con i limiti che, continuando il Modo di produzione capitalistico, sono posti in generale alla realizzazione di diritti sociali. La borghesia ha potuto essere indotta a questa sorta di compromessi storici, per es. in alcuni Paesi europei, nella fase c.d. “fordista”, e della presenza di un sistema concorrente, il “campo socialista” (che si presentava come uno dei “tre reparti” del movimento democratico mondiale, gli altri due essendo la classe operaia dei Paesi industrializzati, e il movimento di liberazione dei Paesi “periferici”). Ma certamente la instaurazione piena dei diritti sociali, che appunto non sono, per la forma della loro realizzazione, assimilabili ai “diritti civili” e “politici” delle rivoluzioni democratico-borghesi classiche, non poteva non urtarsi, da un lato con le esigenze del capitale in genere, dall’altro con tutte le forme giuridiche, amministrative, di vita associata, che l’egemonia borghese aveva instaurato, in modi diversi, nei singoli blocchi storici, cioè nelle nazioni e Stati borghesi moderne.

Questa è la questione di egemonia - cioè dei rapporti di forza tra le classi, che naturalmente si pongono e modificano non solo nei singoli Paesi, ma ormai in tutta la Formazione economico-sociale, di cui i singoli Paesi, nella fase imperialistica, sono segmenti. L’ipotesi fatta qui sopra avrebbe implicato una lotta egemoniale, condotta dal movimento di classe e democratico del periodo in questione, e capace di far valere diritti sociali, che - se realizzati fino in fondo, a cominciare dal diritto al lavoro - vanno al di là dell’orizzonte borghese.

Ma resta vero che oggi, in un Paese avanzato, si potrebbe ridurre drasticamente la giornata lavorativa, garantire reddito di lavoro per tutti, istruzione previdenza sanità alloggio per tutti, ecc.? In astratto, certo, resta vero. Però: la realizzabilità materiale, appunto, non è ancora realizzabilità concreta (ne è la condizione di possibilità, come abbiamo visto.)

E tuttavia, la realizzabilità materiale dei diritti sociali non è scomparsa.. È vero: trent’anni dopo, in presenza delle rovine di quei diritti sociali, e della nuova tappa dell’imperialismo [4], si tratta innanzitutto di vedere come la borghesia, essa stessa mutata, non più espansiva ma oligarchica, modifica il suo blocco storico di classi subalterne, e di popoli subalterni nella “periferia” ricapitalistizzata e ricolonizzata. E, senza dubbio, si tratta di ricominciare dopo una grande sconfitta. Ma chiunque affermi seriamente che l’orizzonte, non importa quanto lontano, è quello di una fuoruscita dal Modo di produzione capitalistico, pone una questione di lotta egemoniale, e ha obbligo di pensare conseguentemente, e indicare, come ritiene possa configurarsi un soggetto di classe di questa lotta.

Non importa qui se tale soggetto sia pensato come tutto da ricostruirsi in un lavoro e una lotta assai lunga, ecc. - La questione è un’altra: chi afferma (come Hardt e Negri, ma non solo) che la transizione non avrà più un soggetto di classe, afferma con ciò stesso di pensare a una transizione (rivoluzionaria??) diversa nel genere, imparagonabile a tutte le transizioni e trasformazioni sociali del mondo moderno, borghesi o socialiste che fossero. Anche questo è lecito, beninteso. Ma ha alcune conseguenze. Non si tratta solo dei mezzi politici (non violenza, Gandhismo, movimentismo ecc.). Si tratta di fondare e argomentare razionalmente un progetto storico senza precedenti storici, e senza riscontri nella costituzione di classe che è pur quella del presente. Se se ne è capaci, lo si faccia. Ma qui non valgono le frasi (“situazione inedita”, “postmodernità” “fine della storia”, “fine del lavoro” e via vaticinando [5]).


[1] C’è bisogno di dire che il c.d. “tempo libero” sta alle prospettive di sviluppo umano al massimo come condizione necessaria, non sufficiente, poiché può essere riempito di qualunque cosa, essendo appunto “libero” in quanto vuoto, semplice “tempo di non-lavoro”? Più sostanziale, in quella fase, era la rivendicazione “la Costituzione non solo fuori, ma anche dentro i luoghi di lavoro”.

[2] La opportunità politica delle varie posizioni di allora è, ovviamente, un discorso a parte.

[3] Si avviava invece allora, come oggi sappiamo, la grande controffensiva del capitale su scala mondiale, che tuttora mostra i suoi effetti. La nostra ipotesi è dunque, come si dice, controfattuale.

[4] Cfr. G. GATTEI, Tre maniere dell’imperialismo, nel vol. Il piano inclinato del capitale. Crisi, competizione globale e guerre, a cura di L. VASAPOLLO. Milano, Jaca Book, 2003.

[5] Si può anche affermare che la classe operaia, cioè il capitale, il rapporto di produzione fondamentale, il Modo di produzione capitalistico, non esistono più. Ci si dica allora, ma non a frasi, non a brandelli di mode “filosofiche” e di “analisi” politicistiche, che cosa esiste, e in che mondo viviamo.