Il movimento dei lavoratori e la nozione storica di “egemonia”

Alessandro Mazzone

Fuoriuscita dal capitalismo e configurazione del soggetto di classe

I. La nozione di “egemonia” entra nella discussione del Movimento operaio all’inizio del secolo XX. Essa è legata strettamente alla trasformazione imperialistica della borghesia, al fatto dell’imperialismo moderno e al problema che esso poneva alla classe operaia, ai partiti socialisti, ai sindacati, ma anche a tutti i democratici, sia nelle metropoli imperiali che nei territori e Paesi dipendenti. Questo problema si può riassumere in breve. Nella fase imperialistica le borghesie “centrali”, metropolitane, tendono a diventare oligarchie che detengono il potere economico, finanziario, politico-militare sul “loro” popolo e su quelli dipendenti. Non ci si può aspettare che esse portino avanti (se non costrette) trasformazioni democratiche, che oltretutto andrebbero a vantaggio della classe operaia organizzata. Le borghesie “periferiche” sono in genere troppo deboli per perseguire quelle trasformazioni, per attuare la “rivoluzione democratico-borghese” nei loro Paesi. Così, l’epoca delle rivoluzioni democratico-borghesi appare conclusa. Ma l’avanzamento democratico, multiforme e vario che possa essere nel globo che l’imperialismo sta unificando, è ben altro che formula politico-istituzionale! Senza la “democratizzazione delle masse” (A. Labriola, 1895), senza le “condizioni fondamentali di civiltà” (Lenin, 1921 e fino alla fine) non si può pensare a una prospettiva socialista, o anche a un’alternativa all’oppressione e alla guerra che si sta preparando. Alla base del problema della strategia, su cui si scontrano e si dividono i socialisti europei all’inizio del secolo XX (“programma massimo” o “programma minimo”, rivoluzionari e riformisti, ecc.), si manifesta una questione più profonda, di orientamento nel mondo di oppressione, militarismo, guerre che lo sviluppo imperialistico del capitale ha creato.

È un problema di continuità obiettiva delle trasformazioni democratiche. Non si tratta solo dei “diritti”, ma soprattutto della capacità di esercitarli, di farne vita effettiva di grandi masse, dalla libertà di movimento ai diritti politici, dall’istruzione alla previdenza sociale, alla sicurezza di vita per tutti i lavoratori. Solo con l’esercizio, la pratica quotidiana e diffusa dei diritti in tutte le sfere di vita, e con l’acquisto della cultura e della scienza e tecnica moderne, le plebi incolte e superstiziose possono emanciparsi. Il 1914 mostra, anche e proprio nella “civilissima” Europa: chi non è emancipato (e cosciente e organizzato abbastanza) diventa carne da cannone, massacrerà i suoi fratelli di classe, e sarà massacrato.

Ma la questione è più generale e più profonda ancora. Lo sviluppo complessivo della società pone le basi materiali della alta produttività del lavoro (“fordismo”), dell’integrazione della scienza nelle forze produttive, della cultura non più riservata a pochi. Nello stesso tempo, si realizza quel “mercato mondiale”, forma capitalistica dell’unificazione del genere umano immanente, secondo Marx, alla dinamica interna del Modo di produzione capitalistico. Ma si realizza nella figura della spartizione del globo in sfere d’influenza rivali, e di dominio violento e spietato sui popoli “arretrati”, con forme varie di lavoro coatto, peonato, e massacri sistematici, fino al genocidio (il Congo paga la “civiltà” portata dall’Europa con la scomparsa di circa 3/4 dei suoi abitanti).

Ma chi potrà portare le conquiste della produzione di ricchezza, della scienza, della cultura, alla loro destinazione divenuta materialmente possibile, quella di essere fondamenti e strumenti dello sviluppo democratico nel suo senso vero e pieno di sviluppo di capacità, di potenzialità umane, per le masse lavoratrici, e in prospettiva, per tutti? Chi, quale classe? Non certo più la borghesia, imperialista e oligarchica, o debole e dipendente. Non la maggioranza contadina della popolazione, nelle “periferie”, ma anche in alcuni Stati del “centro”, come la Russia e l’Italia, dispersa nelle campagne e per lo più analfabeta, immobile nella ripetizione di modi di vita secolari, o destinata presto o tardi all’espulsione dalla terra con lo sviluppo dell’agricoltura capitalistica. Per la classe operaia, invece, la continuità dello sviluppo democratico è non solo difesa, sindacale e anche politica, delle sue condizioni di lavoro e di vita nelle varie fasi dello sviluppo capitalistico (prima, durante e dopo il “fordismo”, NB!) - ma anche tendenza alla realizzazione in lei stessa delle conquiste produttive, culturali, scientifiche, in una parola, dell’elemento positivo della civiltà moderna. La continuità dello sviluppo democratico non è qualcosa di formale, non è solo questione politica, non si riduce alle forme istituzionali, anche se le comprende. Essa è sviluppo di civiltà, e della sola forma di civiltà che il capitalismo, diventato sistema imperialistico, ha insieme reso possibile storicamente, e ora blocca. L’unità storica di democrazia e socialismo è - all’inizio del ’900 - percepita da filosofi e sociologi conservatori (da Pareto a Gentile, in Italia). Nietzsche aveva esteso la “rivolta delle masse”, destinate per natura a esser schiave, fino comprendervi il Cristianesimo. Fioriscono teorie dell’irrazionalismo e della violenza, il “progresso” diventa oggetto di dileggio. Ma è al livello sostanziale che la violenza e la negazione della democrazia, anche in Europa, vengono attuate su scala inaudita, con la guerra del 1914-18.

Si dimentica troppo spesso che in questo modo, all’inizio del secolo XX, erano poste del condizioni del dramma, che continua ancora ai giorni nostri con la minaccia all’ecosistema, lo sterminio per fame e malattia in un mondo di risorse abbondanti, la guerra come soluzione ricorrente, la segmentazione della classe operaia, crescente di numero ma disorganizzata, la trasformazione autoritaria delle forme politico-istituzionali, ecc. ecc. - Recuperare la continuità dello sviluppo democratico, ricostituire un soggetto che se ne faccia portatore, e che può solo essere un soggetto di classe - in queste formule non si riassume forse il nostro problema, all’inizio del secolo XXI? Ebbene, esso, considerato nel senso più ampio, è un problema di egemonia, come si vedrà.

All’inizio del ’900, la nozione di egemonia è legata alla presa di coscienza della trasformazione monopolistica del capitale, allora soprattutto nella forma di “cartelli” e trusts nell’industria di base. Questa nuova fase della produzione capitalistica portava con sé la prevalenza dell’esportazione di capitali in Paesi “nuovi” sulla esportazione di merci tipica della face precedente (l’Inghilterra “fabbrica del mondo”, nella prima metà dell’800), e la trasformazione dei grandi Stati-nazione in centri di dominio diretto e indiretto su tutto il resto del globo. In pochi decenni, l’Africa viene spartita in colonie inglesi, francesi, poi anche tedesche e belghe (il Congo), l’Asia sudorientale tra Francia, Gran Bretagna e Olanda (che “modernizza” il vecchio impero commerciale in Indonesia); si prepara lo smembramento e spartizione della Cina, gigantesco bacino di mano d’opera a buon mercato; la Russia zarista conquista l’Asia centrale, e si scontra (1905) con il nascente imperialismo nipponico. Meno visibile sulle carte geografiche, ma determinante, è il passaggio dal capitalismo di concorrenza ai grandi trusts industriali e bancari negli USA, che fu più rapido che in qualunque altra parte del mondo. Poco più di vent’anni dopo la guerra di secessione americana, e quando il sistema delle piantagioni coltivate da schiavi durava ancora in Brasile e a Cuba, l’America latina, tradizionale sfera d’influenza commerciale britannica, vide arrivare in forze il nuovo dominatore yankee, che mette le mani direttamente su Cuba, Portorico e le Filippine (guerra del 1898 contro la Spagna).

Tutto questo implicava anche una nuova figura dei rapporti di produzione capitalistici. Il rapporto di produzione fondamentale, quello dello sfruttamento del lavoro salariato, naturalmente rimaneva. Ma, in primo luogo, il tasso del profitto veniva sempre più a integrare i profitti abbondanti tratti dall’investimento estero, dal saccheggio delle colonie, dalle rendite finanziarie di prestiti privati e pubblici a Stati meno “moderni” (la Russia, p. es.). In secondo luogo, non era più necessario sfruttare all’osso (cioè mediante superlavoro, lavoro minorile senza limiti, e fino alla riduzione pericolosa dell’aspettativa di vita della massa della popolazione operaia, scesa al di sotto dei 30 anni in Inghilterra verso il 1820) la popolazione lavoratrice metropolitana, o almeno la sua parte più qualificata e “preziosa” per il funzionamento del sistema. In terzo luogo, si veniva costituendo (già allora) un gerarchia di Stati entro il sistema mondiale imperialistico. Si facevano via via più stretti i legami tra le metropoli e le “periferie” o “semiperiferie”, che allora erano colonie vere e proprie oppure territori a statualità indipendente (America latina, soprattutto), ma dipendenti economicamente dal capitale finanziario dominante l’intero sviluppo a partire dai centri imperiali.

Il problema dello sviluppo economico in genere, ma anche dello sviluppo politico, civile, e generalmente umano per l’immensa maggioranza della popolazione del globo, si poneva ormai nell’ambito complessivo del dominio universale dell’oligarchia capitalistico-finanziaria, attraversata dalle rivalità interimperialistiche, ma anche dal conflitto tra il dominio stesso e lo sviluppo della riproduzione sociale in forme moderne, capitalistiche, che veniva esportata, col capitale, nei Paesi dipendenti. Era il “risveglio” - attraverso la tragedia dello sfruttamento, dello sradicamento, dell’oppressione - della stragrande maggioranza dell’umanità, dall’India alla Cina al Messico all’Egitto ecc. - trascinata violentemente nel mondo moderno, costretta ad uscire dalle forme statiche di riproduzione sociale complessiva caratteristiche dei Modi di produzione precapitalistici.

Perché questo “risveglio” arrivasse a prender la forma di lotte anticoloniali vittoriose, sarebbe occorso ancora un cinquantennio di resistenza, rivolte, repressioni sanguinose e spesso ignorate, in tre continenti. La crisi del dominio imperialistico durante prima guerra mondiale, con la rivoluzione russa, la fondazione dell’Unione Sovietica, l’Internazionale comunista, poi l’indebolimento degli imperi europei nella seconda guerra mondiale, la sconfitta del nazifascismo - furono gli antecedenti dell’indipendenza politica, conquistata o concessa nelle ex-colonie, e di un loro sviluppo economico e civile - possibile, certo non garantito o senza intoppi. [1]

Ma già nel 1921, con il proclama di Baku e la parola d’ordine dell’unità dei proletari di tutti i Paesi e dei popoli oppressi, la concezione strategica generale - e nuova - era quella dell’ egemonia di classe, su scala mondiale e Paese per Paese, nel quadro della teoria leniniana dell’imperialismo.

Una volta avvenuta la spartizione delle risorse, dei mercati, dei popoli del globo in sfere d’influenza del capitale finanziario e delle sue metropoli imperiali, e realizzata quindi una rete di dipendenze dirette e indirette delle borghesie locali dal mercato mondiale così configurato, non era più pensabile che le borghesie dei Paesi colonizzati, assoggettati o “periferici” potessero percorrere la via “classica” (olandese, inglese, francese) delle rivoluzioni borghesi: prima, instaurazione di rapporti di produzione capitalistici distruggendo quelli precedenti, e realizzando l’egemonia borghese nelle strutture economiche, giuridiche, scientifiche della società civile, poi, conquista del potere politico e costruzione di Stati moderni. Le borghesie “periferiche” erano in genere deboli o subalterne [2] economicamente, povere di tradizioni democratiche, povere anche di quadri intellettuali, professionali, scientifici. Culturalmente, scientificamente, e per la tecnica, non potevano che guardare al “centro”, alle metropoli imperiali.

All’inizio del XX secolo, la più numerosa di queste borghesie “non classiche”era quella russa.

In Russia, il capitalismo si sviluppava rapidamente, anche se forse l’80% della popolazione era ancora rurale. Ma nello stesso tempo, la finanze e la grande industria russa (isola non grande, ma moderna, nel mare contadino e artigiano) dipendevano da capitali stranieri (anche il bilancio dello Stato russo era legato ai prestiti di banche britanniche e francesi). La Russia degli zar era a sua volta un immenso impero, con più di 100 nazionalità non-russe dominate; ed era una autocrazia, senza diritti politici, né diritti civili, di fatto, per la stragrande maggioranza della popolazione. Da mezzo secolo, la grande letteratura russa era - con poche eccezioni - patriottica, cioè mirante a far riflettere i suoi lettori russi su se stessi e la loro condizione, e ad aprire così le vie per una trasformazione, che doveva essere emancipazione, e implicava l’abbattimento dell’ultimo e più dispotico ancien régime.

Ma con la rivoluzione del 1905, e dopo di essa, la borghesia russa aveva mostrato la sua incapacità di trasformazione rivoluzionaria. Il decrepito e barbarico regime autocratico restava - e i capitalisti russi se ne accomodavano tanto più facilmente, in quanto gli anni seguenti furono di espansione economica, e di repressione poliziesca del movimento operaio.

Da questo nodo di sviluppi contraddittori, in un Paese che era per metà “imperiale” e per metà “periferia”, epitome per un verso dell’unificazione capitalistica del genere umano come sviluppo ineguale, e unico per altro verso perché unico era l’insieme di contrasti, di grandezza e miseria, di umanità e di barbarie, di arcaismi di massa e di consapevolezza di minoranze illuminate che gli eran propri, nasce la problematica dell’egemonia negli scritti di Lenin dal Che fare? (1902), in poi.

Dapprima, riguardo alla Russia stessa. Solo il proletariato avrebbe potuto prender la testa della lotta per l’emancipazione - cioè per la democrazia, il suffragio universale, i diritti civili e politici, l’istruzione obbligatoria universale e gratuita, la trasformazione della cultura di massa in forme razionali e moderne, abbattendo le superstizioni diffuse, l’oscurantismo, l’inerzia. Ossia: solo il proletariato, non più la borghesia, può prendere la testa della rivoluzione democratico-borghese.

Questa è l’origine della teoria dell’egemonia. Essa si sviluppa poi in Russia (la NEP), ma soprattutto nella teoria e nella pratica della III Internazionale. In condizioni diversissime, dalla Cina al Messico al Brasile [3], ma poi anche in Europa con i fronti antifascisti (dal 1935), si pone il problema politico delle alleanze. Ma queste alleanze hanno portata strategica, non tattica soltanto, e sono alleanze di classe, con quelle frazioni della borghesia o della massa contadina che sono disponibili alla difesa antifascista, alle conquiste democratiche, allo sviluppo nazionale autonomo, e quindi, prima o poi, apertamente antiimperialista. Dopo lo scioglimento della III Internazionale (1943), e la vittoria sul fascismo, l’alleanza strategica con le “borghesie nazionali” diventa questione centrale del movimento di liberazione delle colonie ed ex-colonie, dall’Indonesia all’Iran, all’Egitto “nasseriano”, più tardi ancora all’Etiopia. - Qui non possiamo discutere i limiti (e gli errori) di queste politiche [4]. La concezione, e anche la percezione della realtà, dello sviluppo economico, civile, umano, che era a lor fondamento, rimase, almeno fin verso il 1970, quella della strategia di classe, della promozione dello sviluppo civilizzatorio che il capitalismo porta con sé, ma, dovunque possibile, con la classe operaia alla sua testa, e quindi come instaurazione, a lungo termine, di un confronto di egemonia con l’imperialismo.-----

Noi sappiamo che l’imperialismo ha contrattacato e vinto in gran parte. Nelle metropoli (riduzione delle garanzie sociali, smantellamento del c.d. “Stato del benessere”, svuotamento delle istituzioni politiche democratiche, mutamento della funzione dello Stato [5]) e nelle periferie assoggettate o ricolonizzate in forme nuove. Vuol dire questo che si è perduta una battaglia nella lotta egemoniale per lo sviluppo democratico complessivo, (per la democrazia-che-sbocca-nel-socialismo, in termini un po’ obsoleti)? O che si è entrati in una fase storica completamente, qualitativamente nuova? E come lavorare per la ricostituzione di un soggetto democratico, progressivo, o forse rivoluzionario, nel tempo nostro?

Queste, come tutti sappiamo, sono questioni pratiche, brucianti, presenti. Formularle in modo adeguato, però, significa né più né meno che orientarsi nel mondo di oggi. Si sosterrà qui che si tratta di questioni di egemonia, e di lotta tra egemonie, cominciata con la fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, e che dura tuttora, anche se, ovviamente, in condizioni mutate. Cominciamo col ricapitolare la nozione teorica di “egemonia” (riprendendo il filo dal massimo teorico dell’egemonia come rapporto di classe, Antonio Gramsci).

II. La nozione di “egemonia” riguarda il processo della vita sociale in tutti i suoi aspetti, cioè tutta la riproduzione sociale complessiva. La produzione e riproduzione degli uomini associati è bensì determinata dal rapporto di produzione fondamentale (nel Modo di produzione capitalistico, quello di sfruttamento, cioè del rapporto Capitale/Lavoro), ma è attuata attraverso tutte le attività vitali degli uomini associati - attività lavorative non solo, ma anche di educazione, insegnamento e apprendimento, di cura del corpo e della mente (igiene, sanità, sport, riposo), di produzione culturale, scientifica, artistica ecc. (E, naturalmente, la attività biotica, compresa la riproduzione sessuata, che è sempre storicamente determinata.)

In una società di classe, questo complesso di attività può tendere a riprodurre, e dunque a perpetuare, il rapporto fondamentale di classe
 nel mondo moderno, capitalistico, il rapporto Capitale/Lavoro - oppure, al contrario, a metterlo in crisi, a superarlo, quando la Riproduzione sociale complessiva e il suo fondamento, la riproduzione materiale del corpo sociale mediante il lavoro, entra in conflitto con il rapporto di produzione fondamentale, e quindi con la configurazione di classe della società in questione.

Ma va tenuto presente che si tratta di processi storici: in altre parole, che stiamo parlando di forme di vita e di autoattuazione, o si può dire, di manifestazioni “umane”, complessivamente considerate, e via via divenute possibili. Operai, capitalisti, ma anche ingegneri e Istituti politecnici per produrli, scienziati specialisti, tecnici specializzati e Istituti tecnici o apprendistato per produrli, medicina sperimentale, ecc. ecc. non sono pensabili al di fuori o “prima” della produzione capitalistica. E così non lo sarebbe la scuola di base obbligatoria e universale, che diventa indispensabile quando la popolazione lavoratrice deve almeno saper leggere, scrivere e far di conto. Neppure avrebbe senso immaginare una società feudale, o schiavistica, con diritti civili (libertà di movimento, di contratto, di compravendita) per tutti, o addirittura diritti politici, “volontà popolare”, suffragio universale e via dicendo. Tutto questo divenne pensabile, e poi possibile, in società plasmate dal Modo di produzione capitalistico e dal suo sviluppo - nel mondo moderno, appunto.

In secondo luogo, va tenuto presente che egemonia è un processo, anzi una figura determinata del processo sociale complessivo: non uno stato immobile, e neppure un equilibrio stabile. Perciò essa importa sempre una tensione, una tendenza, e un contrasto. Il contrasto può essere con resistenze alla penetrazione del rapporto di produzione dominante, e quindi dei modi di vita che esso viene plasmando - come nel caso delle masse contadine nell’Europa dell’800 e di parte del ’900, che non si oppongono attivamente al capitalismo, ma tendono a conservare forme economiche, e forme di lavoro e di vita, ai margini del mercato [6]. Oppure può trattarsi di contrasto attivo, di lotta tra classi dominanti, o di lotta per affermare la loro egemonia su quelle subalterne. O, ancora, di lotta “dal basso”, che ha la prospettiva di nuovi rapporti di produzione e riproduzione complessiva, e quindi di una nuova egemonia. Una egemonia (anche plurisecolare, come quella della borghesia inglese o francese) non è mai immobile.

Fatte queste osservazioni, possiamo fissare preliminarmente una nozione astratta di “egemonia”. Egemonia è un rapporto di classe. In quanto in tutti i rapporti sociali (ossia nella produzione e riproduzione di concreti esseri umani, dunque anche nelle istituzioni in cui questi operano ed esistono) prevale l’instaurazione, il perfezionamento, la riproduzione, la perpetuazione del rapporto di classe fondamentale (Capitale/Lavoro nel nostro caso), la classe egemone vede attuate e conservate le condizioni della sua esistenza come classe, del suo sviluppo, e, se vi è rapporto di sfruttamento, dello sfruttamento del lavoro delle classi subalterne. Nel quadro di questo sviluppo, si attuano, conservano e modificano anche le condizioni dell’esercizio del potere politico, culturale, ideale della classe egemone, esercitato in tutto il corpo sociale.

Questa nozione di “egemonia” è astratta, come si è detto (e data qui preliminarmente, appunto per fissare le idee da sviluppare di seguito, e i termini indispensabili [7]). Lo è, perché necessariamente tralascia i processi storici concreti, in cui una egemonia di classe si realizza, in rapporto e scontro con altre classi, e ogni volta in contesti economici, politici, culturali, istituzionali ben determinati (p. es., nella Rivoluzione francese, nel Risorgimento italiano; nello sviluppo prima commerciale, poi industriale, poi imperiale dell’Inghilterra tra ’600 e primo ’900; ecc.). In quanto nozione del rapporto e processo di classi, “egemonia” è prima di tutto una nozione storica, non immediatamente politica.

Da questo discendono alcune conseguenze.

1. “Egemonia” non si riduce a “potere”, anche se implica potere, anzi molte forme di potere: quello che si esercita come costrizione, con la violenza pubblica [8], quello che è “costrizione silenziosa” (economica); quello che è influenzare, sì, ma nel senso più lato e inevitabile (poiché ogni educazione, ogni creazione e offerta di orizzonti di esperienza e di pensiero, influenza gli allevati, educati, promossi, aiutati, nel bene e nel male); e che è diverso dal potere che opera come propaganda, e oggi, manipolazione e anticultura sistematica; ecc.

Ora: arrivare a detenere il potere (politico, di Stato) è un risultato di lotte (di classe, cioè egemoniali); detenerlo ed esercitarlo, è normalmente una parte dell’attuazione o dell’esercizio dell’egemonia.

Tuttavia: non si dirà che una classe è “egemone” perché “ha il potere”! [9] Questa espressione è priva di senso. Prima di tutto, il potere, politico o di Stato p. es., non è esercitato da una classe, ma attraverso istituzioni, gestite da individui in carne ed ossa. Questi operano, coscientemente o no, per conto, e talvolta anche in nome, di una classe. La classe come tale non è affatto una somma di individui, ma una totalità di rapporti, un “insieme di rapporti sociali” [10].

Tra questi rapporti ve ne è uno fondamentale, il rapporto di produzione. Si sa bene che, nel mondo moderno, questo è il rapporto di Capitale/Lavoro. Ma molte discussioni astruse sarebbero evitate, e si avrebbero più chiare le idee, ricordando che quel rapporto è fondamentale semplicemente perché esso concerne il fondamento - la produzione di “beni” (in forma di merci cariche di plusvalore, e in cui il capitale si realizza, certo): e che senza questi “beni” non ci sarebbe società né vita di uomini.  [11] Ricordato questo, allora,

2. la corretta comprensione di “egemonia” permette di evitare l’ economicismo.

Tutta l’annosa discussione sulla misura o il modo in cui la base” determina la “sovrastruttura” è viziata fin dall’inizio da un fraintendimento della teoria marxiana. Se dico che “base” è “forze produttive + rapporti di produzione” - e infatti le forze produttive, “umane” e “naturali”, ma mediate dal lavoro umano, non esisterebbero al di fuori dei rapporti di produzione entro cui operano e si trasformano - ho già detto che il rapporto di produzione fondamentale può venire sorretto, garantito, bloccato, modificato da quelle “altre” attività umane, in cui si realizza la Riproduzione sociale complessiva, e che costituirebbero la “sovrastruttura”. La quale non può prodursi né esistere e operare se non c’è... quel fondamento, che se proprio vi piace, potete anche chiamare “base”, purché la metafora edilizia (o geologica) non vi induca a immaginare che la “base” e la “sovrastruttura”, nei suoi vari “strati” o “piani”, sian cose ferme, ognuna per sé, o agenti separatamente l’una sull’altra, a “strati”. Questo è proprio impossibile. [12]

3. Si dice spesso che un partito, o talvolta un gruppo, o anche un’ideologia o un modo di vita, è “egemone” in una condizione o in una determinata società [13]: si vuol dire che quel partito, o gruppo, o modo di pensare ecc., è prevalente, ed esercita un potere, o anche una funzione di guida, su altri gruppi, partiti, modi di vita ecc. - È compresa in questo l’idea di un contrasto, di una competizione, e del prevalere di una parte su altre. Fin qui, bene - ma soltanto fin qui. La nozione di modo di produzione, e quindi quella di classi e di egemonia di classe, è logicamente a monte dei processi politici, culturali ecc., che si instaurano nelle società di classe e attuano (o mettono in forse) l’egemonia. Questa si realizza storicamente, configurando in un processo lungo, per lo più secolare, tutta la vita associata, e dunque creando un tipo di società. [14] - In quanto rapporto e processo di classe, la nozione di egemonia è assai più vasta della sfera politica, culturale ecc.. Essa riguarda il complesso delle attività attraverso cui gli uomini di una determinata società producono e riproducono la loro vita nell’ambiente non-umano, ovvero “natura”, e quindi fondamentalmente, ma non esclusivamente, mediante il lavoro produttivo in senso stretto. Con tutte queste attività gli uomini associati producono e riproducono, in definitiva, sé stessi. Perciò “egemonia” è categoria storica. Essa riguarda la Riproduzione sociale complessiva, e in essa si esercita. Si attua dunque in una Formazione economico-sociale (nella terminologia che risale a Marx), o in un segmento di essa - come le singole nazioni o Stati sono oggi, nel mondo capitalistico, segmenti, diversamente sviluppati e interconnessi, dell’unica Formazione economico-sociale borghese, capitalistica.

4. Ma l’egemonia di una classe sfruttatrice non significa oppressione della maggioranza sfruttata? Questo è un punto da trattare con attenzione. Si sa che il sentimento dell’oppressione subita, se resta solo sentimento, dà luogo a impulsi di ribellione e tendenze anarcoidi [15]. Ma di fatto, l’oppressione è percepita; e, quel che più conta, esiste realmente. E allora?-----

Il sentimento dell’oppressione non si risolve nello “invidioso confronto” con i più fortunati (J.M. Keynes), non è “risentimento” per la propria sorte (M. Scheler), non si spiega col fatto che, a differenza di quanto avveniva nella società tradizionale, preborghese, la massa della popolazione è in grado di confrontare continuamente la propria condizione con altre (B. Russell). Queste teorizzazioni appartengono al sociologismo povero, che parte da astratti “individui” come dati, e poi li riferisce gli uni agli altri - quasi che gli “individui” fossero pensabili prima e al di fuori del processo sociale di cui sono, essi sì, i luoghi dell’azione. Il “confronto”, caso mai, è tra le possibilità umane che, in una data fase dello sviluppo storico, sono obiettivamente aperte e pensabili, e solo perciò diventano anche più o meno confusamente, immaginabili.16 Queste possibilità umane esistono obiettivamente. Il problema non è se esse siano attuabili “per tutti” (“tutti ingegneri”, “tutti medici”, ma anche “tutti operai” è evidentemente fuori questione.) Ciò che ad esse è comune obiettivamente è la realizzabilità materiale: p. es., oggi, sarebbe possibile (in un Paese avanzato) ridurre drasticamente la giornata lavorativa, garantire alloggio, istruzione, assistenza sanitaria. (Ci si torna più avanti.) La realizzabilità materiale (le “risorse”, non solo economiche ma anche di capacità, abilità soggettive) non è ancora, beninteso, realizzabilità sociale, o politica - ma quella è condizione di questa, è ciò che la rende possibile. Questo possibile obiettivamente inerente a un dato grado di sviluppo umano, cioè sociale, è quello che G. Lukàcs chiama “genericità” o “adeguatezza allo sviluppo del genere umano”  [16]: adeguatezza che può realizzarsi, una volta raggiunta, con la produttività del lavoro, la realizzabilità materiale, ma solo attraverso tutta la vita sociale, dunque attraverso le lotte sociali, politiche, culturali, che - in una società di classe - sono, nel loro complesso, come unità in movimento, lotte egemoniali per la l’affermazione di quei rapporti di produzione e di riproduzione sociale complessiva (di produzione e riproduzione di uomini) che siano adeguati e conformi alla riproduzione e al potere della classe che si pone come egemone, o che lo è già diventata.

Non si tratta dunque di negare o svalutare il sentimento dell’oppressione, ma sì di intendere ciò che esso è. Come sentimento, esso è nell’animo dei singoli; e non è ancora chiaro pensiero, né azione razionale. Confusamente, c’è in lui la percezione del non attuarsi, in sé o in chi è prossimo, di quello che “sarebbe umanamente possibile, se... le cose stessero altrimenti, se... l’oppressione cessasse, se...”. Finché resta chiuso nel sentire, questo “se” può arrivare al triste “dovrebbe essere” della coscienza morale, che si sa nel giusto (“dovrebbe essere così, ma non è”) e contemporaneamente nell’impotenza (“non è, anche se dovrebbe essere”) [17]. Ma non esce dal “qui ed ora”, non diventa processo, pensiero-azione. Il pensiero razionale e l’agire che è a lui adeguato, ed è suo, sono sempre collettivi; diventano esperienza della contraddizione obiettiva, del lavoro e della lotta per superare quel “sarebbe giusto, ma...” in cui la coscienza astratta si blocca. Il pensiero, a differenza del mero sentire, non può restar chiuso nell’animo mio, o uscirne come semplice grido e impulso di rivolta. Esso esce fuori nel mondo degli uomini, è comunicazione e linguaggio per definizione, si misura con gli altri (“discussione”), e con le cose: è ragione che conosce e modifica il mondo. È, in generale, la forma in cui si muove il mondo degli uomini, e perciò è obiettivo, e storico [18].

Tutto questo va bene (dirà forse qualcuno). Ma (ecco l’obiezione)
 questo pensiero razionale, collettivo, obiettivo, storico, hai appena detto che diventa lotta per attuarsi, per costruire un mondo adeguato. E questa lotta, che appunto non ha da essere sogno o mera rivolta - che possibilità ha, in pratica?

5. A questa obiezione, una volta fatta, non si sfugge. E non si può neppure cercar di aggirarla, predisponendo “in teoria” le condizioni di un processo, che appunto è di lotta, e lotta storica, e non uno schema, o un meccanismo ripetitivo. E allora? Allora - c’è l’ esperienza, collettiva anche lei (manco a dirlo), che non permette di predire l’andamento di questa lotta qui, ma ha insegnato e insegna. E qualche conclusione teorica, sì, la permette.

Rivolta, si sa, non è rivoluzione. E non è neppure transizione. “Transizione” a un’ altra formazione sociale vuol dire transizione a un’altra situazione egemonica, all’egemonia di un’altra classe, a rapporti di produzione diversi; e quindi, nel tempo, a modi nuovi di produzione e di vita, per tutti i membri della società. Queste transizioni, nella storia a noi nota, sono avvenute per lo più tramite rivoluzioni e cicli di rivoluzioni, costituendo e ricostituendo nuovi blocchi storici [19], o unità-in-movimento, più o meno stabili, di classi egemoni e classi subalterne. Ma qualunque forma abbiano avuto quelle lotte, esse furono, in quanto capaci di portare alla transizione, lotte egemoniali [20], che portavano a instaurare una nuova egemonia di classe. Oppure non arrivarono a tanto - quando si cercò di rompere l’egemonia della classe dominante, la si costrinse in alcuni casi a un compromesso, la si spinse a modificare il blocco storico con le classi subalterne, (come avvenne nelle fasi di crescita della borghesia prima e poi del movimento operaio): e si trattò allora di conflitto tra un’egemonia sussistente e una potenziale, o soltanto in fieri.

Opera qui un’altra distinzione gramsciana importante, quella tra classe dirigente e classe dominante. Il primo termine vale per una classe capace, nell’attuare le sue istanze, di realizzare anche istanze di altre classi, pur subalterne - così la borghesia nella fase espansiva e rivoluzionaria. Il secondo vale per una classe che è dominante ancora, ma non più espansiva, non più capace di assimilare segmenti di altre classi alleate o subalterne, e che tende a trasformarsi in gruppo privilegiato o in oligarchia [21].

Si è detto che “egemonia” è una categoria storica. Nelle rivoluzioni borghesi classiche (come l’ olandese e l’ inglese nel ’600, la americana e più la francese nel ’700) le rivendicazioni antiassolutistiche e antifeudali della borghesia si presentavano come affermazioni di diritti. Diritti civili, tra cui: libertà di compravendita e di iniziativa per tutti, che implicava distruzione dei vincoli corporativi e proprietà immobiliare piena, cioè fine dei diritti-doveri di signore e servo sulla terra; libertà di movimento delle persone, cioè instaurazione di un diritto inerente a-priori all’individuo, indipendente dalla concessione di privilegi da parte dei detentori di autorità [22], e distruzione dei privilegi stessi; con questo, uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, e distruzione delle giurisdizioni privilegiarie, d’ordine o di ceto. - Diritti politici: libertà di religione, di manifestazione del pensiero, di stampa, di associazione; diritto elettorale, ma non suffragio universale [23].

Facendo trionfare in tutto o in parte queste rivendicazioni, che si presentavano come ideali “umani”, come “diritti dell’uomo”, la borghesia apriva di fatto nuove vie di sviluppo e di autorealizzazione anche ad elementi o frazioni delle classi subalterne [24]. L’accesso alla proprietà borghese, cioè all’artigianato, alla piccola industria, al commercio, collegati all’urbanizzazione, è stato per generazioni uno stimolo potente di integrazione di frazioni consistenti di popolazione, e ciò in senso obiettivo, cioè economico, e anche soggettivo. L’espansione economica complessiva, portato della produzione capitalistica, permetteva ed esigeva nuove imprese, nel commercio, nei trasporti, meno spesso nell’industria vera e propria: se era ridicolo predicare agli operai “Diventate capitalisti!” (ma lo si predicò), non pochi piccoli capitalisti, nell’’800 e ancora in parte nel ’900, ebbero un nonno operaio. (Si parla sempre, qui, dei Paesi borghesi “classici”, diventati poi metropoli imperialiste.) - Ancora: l’istruzione pubblica apriva la via delle professioni a una minoranza di “capaci e meritevoli”, che venivano integrati, talvolta nel corso di due-tre generazioni, nel ceto medio borghese. Ancora, e più in generale: il capitale non crea la scienza, ma la usa, e quindi la esige: la scienza è infinita, crea linguaggi universali, e può (non: deve necessariamente) contribuire a creare forme di linguaggio e coscienza universalmente umane.

In breve: la borghesia “classica” era una classe espansiva, capace di integrare in sé elementi di altre classi, e di assimilarli. E fu, nella fase pre-imperialistica, una classe progressiva: nel senso primario e obiettivo, che lo sviluppo indefinito della produzione capitalistica aveva una funzione civilizzatoria [25]: la generalizzazione della produzione di merci rompeva l’idiotismo localistico, metteva gli uomini in contatto con un mondo più vasto, li spingeva a cercare strade sempre nuove -sebbene queste strade, per i più, fossero poi quelle dello sfruttamento spietato, ma nello sviluppo della produttività del lavoro sociale. E nelle vicende politiche, fin verso il 1870: finché le rivendicazioni antifeudali e di libertà abbattevano ostacoli all’espansione capitalistica e all’egemonia borghese in tutte le sfere della società, e non aprivano la porta, nella loro “contaminazione” con esigenze democratiche, p. es. il suffragio universale, l’istruzione generale e gratuita, al proletariato e alle nuove classi subalterne, la borghesia in generale le portò avanti, le sostenne, e spinse il “popolo” a battersi per esse.

6. Ma l’obiezione, giustamente, ritorna. E allora? - si dirà. Tutto questo è acqua passata. Queste lotte egemoniali, i blocchi storici che la borghesia ha costruito e rimodellato quando minacciavano di rompersi, sono storia di ieri. Noi ne veniamo, e perciò è bene studiarle e capirle. Ma ora? Quali prospettive può avere una lottaegemonialechenonmiria instaurare l’egemonia della borghesia (progressiva in altri tempi, ma ora no davvero...), ma rapporti di produzione e di vita che vadano al di là del capitalismo in quanto fondamento dell’ egemonia borghese?

Qui la considerazione teorica, concettuale, può fare ancora una deduzione, e un rimando.

La deduzione è questa: se, e nella misura in cui, le lotte attuali e future prossime riusciranno a essere lotte per l’egemonia, cioè per trasformare la realizzabilità materiale di nuovi rapporti di produzione e di vita (che c’è, sostanzialmente), in prospettiva effettiva dell’attuazione di questi rapporti (e dunque sia nelle cose, nelle istituzioni economiche, civili, politiche, della formazione, che negli uomini, nel loro modo di essere, di pensare sé stessi e gli altri, di agire collettivamente) - allora queste lotte, e tutto quello che le prepara nella conoscenza e nell’organizzazione, non saranno soltanto rivolta, o resistenza nobile ma residuale, e simili, ma avvio alla transizione. Quanto questo avvio sarà lungo, tortuoso, con quali processi rivoluzionari, e altri, la deduzione concettuale non può dire. [26]-----

In secondo luogo, il rimando all’esperienza. C’è stata una lotta egemoniale, non per l’instaurazione dell’egemonia borghese, ma per il suo superamento, nel passato recente, in vari Paesi, e anche in Italia? Certo che c’è stata, e si chiamava comunemente (fino agli anni ’70 circa) lotta per l’egemonia della classe operaia, nel secondo blocco storico italiano recente, quello uscito dalla lotta antifascista,dal “Secondo Risorgimento”, e dal compromesso di classe (solo e vero compromesso “storico”) iscritto nella Costituzione della nostra Repubblica (Art. 1: “Repubblica democratica fondata sul lavoro”).

L’Italia uscita dalla seconda guerra mondiale era un’epitome del mondo di allora (come la Russia, mutatis mutandis, lo era stata all’inizio del ’900). Era innanzitutto un Paese industriale, con un capitalismo avanzato, ma con una semicolonia interna, il Mezzogiorno. Era poi un Paese in cui la borghesia aveva abbandonato la sua funzione nazionale, perseguendo un progetto di imperialismo subalterno (lo “imperialismo straccione” dell’inizio del secolo, fino al c.d. “intervento” del 1915, e all’insensata “guerra parallela” del 1940). Un Paese a sovranità limitata dal 1938, e la cui sovranità era stata restaurata, in parte, grazie all’azione della classe operaia nella Resistenza. Un Paese la cui borghesia cercò e trovò, dopo il ’45, una nicchia nel nuovo mercato mondiale configurato dalla prevalenza industriale e monetaria statunitense, basandosi prevalentemente sui bassi salari, piuttosto che sulla ricerca e l’innovazione, salvo quella importata. E dove però la borghesia, con il forte sviluppo industriale degli anni ’50 e ’60, e pur continuando l’emigrazione di massa, seppe dare una grande risposta di classe alla sfida della “unità degli operai dei contadini”, del Nord e del Sud, svuotando le campagne e introducendo, entro certi limiti, un regime di alti consumi e di protezione sociale. Quando questo regime fu di nuovo sfidato, alla fine degli anni ’60, da lotte che si proponevano l’instaurazione di diritti sociali per la sanità, l’alloggio, i trasporti, la previdenza, l’istruzione pubblica e generale fino alle scuole superiori, insomma per una sicurezza di vita di ogni lavoratore nella “Repubblica fondata sul lavoro”, e dunque per l’apertura di prospettive di sviluppo umano quanto meno per chi volesse e sapesse perseguirle [27] - quando, dico, queste rivendicazioni furono poste e sembrarono per qualche tempo attuabili, vi fu chi parlò di “introduzione di elementi di socialismo” nella vita della nostra Repubblica, pur Paese capitalista (e imperialista-subalterno). Sbagliava?

Qui si tratta solo, per noi, di sviluppare la nozione di egemonia e di lotta egemoniale [28]. La lotta politica può modificare comportamenti collettivi, e ottenere cambiamenti nell’ordinamento, nelle istituzioni pubbliche. Sancire dei diritti sociali non significa ancora realizzarli nella vita di tutti e di ciascuno (come sappiamo anche troppo bene): occorre per questo una grande forza politica, organizzativa, morale, capace di indurre un cambiamento molecolare nella vita pubblica, una volontà di servizio pubblico negli addetti, in alto e in basso, e uno spirito pubblico democratico nell’ educazione, nella formazione specifica, nella stampa, nei c.d. media, ecc. Supponiamo, per ipotesi, che anche a questo si potesse giungere, nella fase di avanzamento democratico che sembrava aprirsi verso il 1970 [29]. Questa ipotesi non si scontra senz’altro con i limiti che, continuando il Modo di produzione capitalistico, sono posti in generale alla realizzazione di diritti sociali. La borghesia ha potuto essere indotta a questa sorta di compromessi storici, per es. in alcuni Paesi europei, nella fase c.d. “fordista”, e della presenza di un sistema concorrente, il “campo socialista” (che si presentava come uno dei “tre reparti” del movimento democratico mondiale, gli altri due essendo la classe operaia dei Paesi industrializzati, e il movimento di liberazione dei Paesi “periferici”). Ma certamente la instaurazione piena dei diritti sociali, che appunto non sono, per la forma della loro realizzazione, assimilabili ai “diritti civili” e “politici” delle rivoluzioni democratico-borghesi classiche, non poteva non urtarsi, da un lato con le esigenze del capitale in genere, dall’altro con tutte le forme giuridiche, amministrative, di vita associata, che l’egemonia borghese aveva instaurato, in modi diversi, nei singoli blocchi storici, cioè nelle nazioni e Stati borghesi moderne.

Questa è la questione di egemonia - cioè dei rapporti di forza tra le classi, che naturalmente si pongono e modificano non solo nei singoli Paesi, ma ormai in tutta la Formazione economico-sociale, di cui i singoli Paesi, nella fase imperialistica, sono segmenti. L’ipotesi fatta qui sopra avrebbe implicato una lotta egemoniale, condotta dal movimento di classe e democratico del periodo in questione, e capace di far valere diritti sociali, che - se realizzati fino in fondo, a cominciare dal diritto al lavoro - vanno al di là dell’orizzonte borghese.

Ma resta vero che oggi, in un Paese avanzato, si potrebbe ridurre drasticamente la giornata lavorativa, garantire reddito di lavoro per tutti, istruzione previdenza sanità alloggio per tutti, ecc.? In astratto, certo, resta vero. Però: la realizzabilità materiale, appunto, non è ancora realizzabilità concreta (ne è la condizione di possibilità, come abbiamo visto.)

E tuttavia, la realizzabilità materiale dei diritti sociali non è scomparsa.. È vero: trent’anni dopo, in presenza delle rovine di quei diritti sociali, e della nuova tappa dell’imperialismo [30], si tratta innanzitutto di vedere come la borghesia, essa stessa mutata, non più espansiva ma oligarchica, modifica il suo blocco storico di classi subalterne, e di popoli subalterni nella “periferia” ricapitalistizzata e ricolonizzata. E, senza dubbio, si tratta di ricominciare dopo una grande sconfitta. Ma chiunque affermi seriamente che l’orizzonte, non importa quanto lontano, è quello di una fuoruscita dal Modo di produzione capitalistico, pone una questione di lotta egemoniale, e ha obbligo di pensare conseguentemente, e indicare, come ritiene possa configurarsi un soggetto di classe di questa lotta.

Non importa qui se tale soggetto sia pensato come tutto da ricostruirsi in un lavoro e una lotta assai lunga, ecc. - La questione è un’altra: chi afferma (come Hardt e Negri, ma non solo) che la transizione non avrà più un soggetto di classe, afferma con ciò stesso di pensare a una transizione (rivoluzionaria??) diversa nel genere, imparagonabile a tutte le transizioni e trasformazioni sociali del mondo moderno, borghesi o socialiste che fossero. Anche questo è lecito, beninteso. Ma ha alcune conseguenze. Non si tratta solo dei mezzi politici (non violenza, Gandhismo, movimentismo ecc.). Si tratta di fondare e argomentare razionalmente un progetto storico senza precedenti storici, e senza riscontri nella costituzione di classe che è pur quella del presente. Se se ne è capaci, lo si faccia. Ma qui non valgono le frasi (“situazione inedita”, “postmodernità” “fine della storia”, “fine del lavoro” e via vaticinando [31]).


[1] 1947 indipendenza dell’India; 1949 proclamazione della Repubblica Popolare Cinese; indipendenza dell’Indonesia, ma controffensiva coloniale britannica in Malacca, francese in Indocina. Primo Stato indipendente africano è il Ghana nel 1957, quasi tutti gli altri - salvo le colonie portoghesi - nel ’60; vittoria nella guerra di liberazione algerina: 1962.

[2] Non tutte erano borghesie compradoras, semplici appendici locali dei capitali d’oltremare: ma nessuna poteva aspirare alla piena sovranità economica del “suo” Paese. Del resto, val la pena di ricordare che già nell’’800, e in Europa, le rivoluzioni delle “nazioni ritardate” (Italia, Germania) erano state in parte preparate da una “rivoluzione passiva” (regime napoleonico, Prussia), e si conclusero con un “compromesso storico” con le vecchie classi dominanti.

[3] V. in “Proteo” 2-3/2003, p. 93 ss., il saggio di BRASILIA CARLOS FERREIRA, Le traiettorie del sindacalismo brasiliano.

[4] Una politica viene decisa, e la decisione avviene mediando le forze in gioco. Perciò può cambiar di segno e di natura secondo le forze, palesi e non, che la determinano. Così andrà ripresa la discussione sugli “aiuti” dei Paesi del blocco socialista alle rivoluzioni del “3° Mondo”, che furono anche di sostegno militare, e fino all’intervento sovietico in Afganistan nel 1979. Si trattava ancora di alleanza di classe?

[5] V. M. CASADIO, J. PETRAS, L. VASAPOLLO, Clash! Scontro tra potenze, Milano, Jaca Book 2004, in particolare la Parte I, Centralità dello Stato imperiale nella competizione globale.

[6] E quindi ai margini della cultura delle città. Si tratta talora di processi plurisecolari. “Cittadinesco” significa civile, raffinato, non rozzo nell’italiano del ’300; ruvidi nei modi e nel parlare, plebei sono gli uomini e le donne della campagna - per es. nel Decamerone. Ce ne sono ancora tracce, dopo più di sei secoli...

[7] Scrivo sforzandomi di citare il meno possibile. Alcuni richiami di luoghi “classici” di Marx, Lenin, Gramsci sono accennati tra parentesi, altri si intendono, altri sono soltanto impliciti. Chi scrive dichiara qui di sapere bene, arrivato a 70 anni, di avere certamente dei “padri” - i filosofi, con cui ha scelto di percorrere il cammino della vita, e poi i maestri, i compagni con cui ha vissuto e vive, e ha imparato vivendo con loro. E gli sembra anche che per chiunque sia così (anche se a molti è data soltanto una scelta obbligata, o tra padri di scarto, mediatici o stolidificanti). E che non possa essere diversamente, a guardar bene. Per cui l’affermazione recente di un noto politico, sul “non aver padri”, appare davvero singolare, anche a tener conto delle esigenze a breve scadenza, elettorali o altre...

[8] Viene qui a proposito la nozione di “monopolio della violenza”, che secondo M. Weber definirebbe il potere di Stato. Ma sono le classi che, nel realizzare la loro egemonia, si danno partiti, organizzazioni, istituzioni e anche Stati.

[9] Lo si sente dire. Ma chi parla così non intende la nozione di “classe” (che non significa, e non ha mai significato un “insieme di individui” - né in Marx né nei suoi antecedenti e fonti, Ferguson, A. Smith e la “storia filosofica” del tardo illuminismo inglese e francese; poi l’economia politica classica, e naturalmente Hegel). E inoltre, chi parla così è spesso affetto da quel miope politicismo, che vede gli eventi politici giorno per giorno, e si immagina che la storia sia una serie di “giorni”, come quelli che entrano nel suo orizzonte, e che lui percepisce. Oggi, poi, sono legate a quella miopia politicistica, e alle sue delusioni, molte favole reazionarie, a cominciare dalle chiacchiere filosofeggianti sulla “fine” - della storia, del lavoro, dello Stato, delle classi, e chi più ne ha più ne metta.

[10] Come Marx dice dell’ “uomo” in generale, che non è un’essenza astratta insidente in tutti gli elementi dell’insieme “uomini”, ma sempre, in concreto, una totalità di rapporti sociali.

[11] “Nessuna società potrebbe vivere, se il lavoro cessasse” - scrive Marx introducendo il concetto di “riproduzione” in Capitale I, sez. VII, proprio all’inizio. Al livello di astrazione di Capitale I, “lavoro” è “lavoro produttivo” in genere, purché valorizzante il capitale che lo impiega. Ma è interessante che Marx, contro il suo solito, faccia qui un’affermazione così generale. Essa riguarda infatti quel fondamento elementare, che è implicito in ogni ragionamento sulle società umane. Anzi: quando dici “società”, hai già detto produzione e riproduzione di uomini, mediante il lavoro - e resta da vedere in quali, ben determinati rapporti degli uomini tra loro, e con la natura ambiente.

[12] Per una diversa impostazione, si può vedere il contributo di Hans Heinz HOLZ, presentato al convegno napoletano del novembre 2003 sui problemi della Transizione, e pubblicato in anteprima in “Aginform”, n° 38, gennaio 2004, col titolo Il testamento filosofico e politico di Stalin.

[13] Cfr. anche GRAMSCI, Quaderni del carcere, ed. critica (Torino 1975), in particolare nel Quaderno 19, sul Risorgimento italiano, per la egemonia esercitata dai moderati sui democratici nel periodo decisivo, tra il 1848 e la fondazione dello Stato unitario.

[14] Le nazioni europee moderne ne sono un buon esempio. Esse sono “nazioni borghesi”, nel senso che l’insorgere e poi lo sviluppo della borghesia (in Italia: dai Comuni medievali in poi, con la “pausa” regressiva della “crisi italiana” dal ’500 al ’700, e poi col Risorgimento), con i nuovi rapporti di produzione, le nuove figure sociali possibili, la nuova cultura corrispondente, vengono a costituire grado a grado, e attraverso una lunga serie di figure e scontri politici, un corpo, che si chiama “Nazione” (e ha comune una lingua? Ma quanti Italiani parlavano la lingua italiana nel 1861?)

[15] D’altra parte, l’oppressione realissima oggi, quando un pugno di superricchi su scala mondiale tiene in mano le sorti dei popoli, riposa anche sull’ottundimento del sentimento dell’oppressione (che si manifesta in rassegnazione, disinteresse, rinuncia all’impegno vestita da “disgusto per la politica” ecc.). Su questo bisognerà tornare nell’analisi, ancora in buona parte da fare, della concreta egemonia esercitata oggi, nella fase presente, e nuova, dell’imperialismo. Nei lunghi secoli dell’oppressione “tradizionale”, schiavista e feudale, le rivolte non furono la normalità. Normalità fu l’acconciarsi allo stato di cose esistente, la rassegnazione, l’ammirazione per i semidei ricchi e potenti, per i segni e i simboli del loro potere. Solo la classe operaia moderna ha potuto dire “Non siam più, laggiù nell’ officina / sulla terra, nei campi, al mar / la plebe sempre all’opra china / senza ideale in cui sperar”. Il ritorno a quella “normalità”, mutatis mutandis, è oggi l’obiettivo di un’azione sistematica tendente a trasformare le masse lavoratrici, cioè l’immensa maggioranza, in una neoplebe incapace di rappresentarsi il contesto delle sue condizioni, di ricavarne conseguenze razionali, o anche solo di immaginare quell’ “altro mondo possibile”, e necessario, che, se non vagheggiato, ma voluto con chiarezza di intelletto e spirito di sacrificio, sarebbe veramente possibile. - Ma di questo non possiamo occuparci qui. Il tema è vasto, e merita trattazione a parte.

[16] Nella Ontologia dell’essere sociale, e nei postumi Prolegomeni all’ontologia dell’essere sociale. Tr. it. Milano, Guerini & associati, 1990.

[17] Quasi 200 anni fà, di fronte al primo romanticismo, G.W. F. HEGEL mostrava come questa coscienza morale astratta si sviluppasse in moralismo, ironia “disincantata”, e ipocrisia. (Cfr. p. es. Fenomenologia, 1807, cap. IV; Filosofia del diritto, 1821, § 140: quest’ultimo testo è ben leggibile anche per i non specialisti.) - I pensatori “postmoderni” oggi di moda spargono a piene mani quel “disincanto” e quella ipocrisia. Certo, io mangio e bevo, so bene che intanto migliaia muoiono di fame e di sete, e, come individuo privato e isolato, non posso farci nulla. Questa consapevolezza è intollerabile, il pensatore “postmoderno” mi spiega come posso toglierla di mezzo col “disincanto” e la imperturbalità - e così non vado avanti, non penso che, essendoci in verità le “risorse”, la realizzabilità materiale, il superamento di quella morte per inedia e in verità sterminio è oggi possibilità reale; la quale può diventare possibilità concreta attraverso una lotta egemoniale, certo non breve, per condizioni di riproduzione degli uomini che vadano al di là del capitalismo imperialistico. Il risultato “postmoderno” è che non penso razionalmente, praticamente, e non agisco collettivamente, con altri uomini, in organizzazioni, strutture, istituzioni che sono appunto e sole quelle dell’effettivo agire. (Mentre per la coscienza morale astratta e il suo sentire, doloroso o indifferente e disincantato, basta la privata interiorità, l’immediato sentire, che può essere condiviso qui ed ora con altri, diventare magari vampata di ribellione, ma non processo collettivo, duraturo, conscio di cause ed effetti, costruzione di una alternativa.)

[18] Qui devo chieder venia al paziente lettore. Sì, si tratta di concetti filosofici, bisogna fare uno sforzo per ripensarli in proprio. Anche se chi scrive ha fatto il suo lavoro per bene, ha mostrato la via passo passo (che non è detto), quello sforzo di ripensare in proprio non si lascia togliere. Si rifletta a questo. Un pensiero politico che non è azione è... un ferro di legno. Se è pensiero, riflessione razionale, esso non influisce solo su coloro a cui viene comunicato, ma prima di tutto su chi lo pensa. Faccio una riflessione politica vera (non un piagnisteo generico sulla malvagità o l’ignavia umana...), ho mutato la mia percezione del corpo sociale di cui sono elemento. Ma con ciò ho cambiato me stesso, di tanto o poco, nel mio rapporto col mondo: agisco, a partire da ora, con altri e sul mondo, in modo diverso da prima. Questa è - in vitro - “unità di teoria e prassi”.

Ma si tratta, qui, anche di capire perché l’avversario di classe, la tirannide moderna NON voglia che noi pensiamo, che usciamo dal vago e ribelle sentire l’oppressione e l’ingiustizia, e pensandone invece le modalità, il fondamento, la struttura, ci attrezziamo per combatterle.

[19] Nozione e termine che risalgono ai Quaderni del carcere di A. GRAMSCI. Così per il blocco storico che risulta dal Risorgimento italiano nell’’800: la borghesia come classe egemone alleata alla proprietà terriera semifeudale, attraverso un compromesso che escludeva trasformazioni democratiche; quindi la piccola borghesia commerciale e artigiana, e la classe operaia e i contadini, cioè la grande maggioranza della popolazione, in vario grado di subalternità. Tutto questo non esaurisce il carattere progressivo della rivoluzione borghese in Italia: qualcosa cambia anche per frazioni importanti delle classi subalterne. Ma nel breve corso di una generazione, già a fine ’800, avremo lo scontro diretto tra reazione e primo movimento operaio.

[20] Sembra opportuno distinguere tra questo tipo di lotte storiche, e l’esercizio quotidiano dell’egemonia nelle varie sfere della vita sociale. Per quest’ultimo si usa, e mantengo, l’aggettivo “egemonico”. Così il rapporto di capitale è egemonico, è fondamento dell’ egemonia borghese, e via dicendo.

[21] Questo valeva per le borghesie dominanti al tempo di Gramsci. E sembra valere ancor di più per l’attuale oligarchia economico-politico-finanziaria.

[22] Tali erano i “diritti” di corporazioni, città, o anche singoli, che il Medioevo conosceva: così le varie carte, statuti, ecc., i cui documenti erano gelosamente conservati, e che risalivano ad atti d’autorità regia o, in subordine, feudale.

[23] I diritti politici non furono mai riconosciuti pienamente alle classi subalterne dalle rivoluzioni borghesi. Anche con la Rivoluzione francese, la famosa legge Le Chapelier (1791) vietava le associazioni operaie. La libertà di religione trovò limiti in Europa: nella “questione ebraica”, ossia della emancipazione degli israeliti. Solo la Costituzione giacobina (1793), mai attuata, previde il suffragio universale - lo si ebbe poi nel 1848, ma solo per affossare la Seconda Repubblica (e non per caso Marx analizzò questo svolgimento nelle Lotte di Classe in Francia e nel 18 Brumaio di Luigi Buonaparte); quanto al suffragio femminile, bisognerà attendere il XX secolo. - Per i grandi classici del pensiero liberale, a cominciare da J. Locke, il suffragio universale, che in linea di principio darebbe alla maggioranza dei non-possidenti il potere sui possidenti, è un’assurdità.

[24] Caso tipico, la liberazione dei contadini - cioè dell’immensa maggioranza della popolazione - dalle servitù feudali; e la possibilità, aperta ai più agiati di loro, di accedere alla proprietà della terra. In Francia, questi nuovi piccoli proprietari furono poi soldati e sostenitori di Napoleone I.

[25] Anche questo è un tema su cui Marx ritorna più volte, tanto in Capitale III, sez. VII, quanto nei 3 grandi manoscritti preparatori.

[26] Questa deduzione non è che l’esplicazione del concetto di egemonia e di lotta di egemonie - in questo senso può dirsi che essa, poste le premesse, è tautologica.

[27] C’è bisogno di dire che il c.d. “tempo libero” sta alle prospettive di sviluppo umano al massimo come condizione necessaria, non sufficiente, poiché può essere riempito di qualunque cosa, essendo appunto “libero” in quanto vuoto, semplice “tempo di non-lavoro”? Più sostanziale, in quella fase, era la rivendicazione “la Costituzione non solo fuori, ma anche dentro i luoghi di lavoro”.

[28] La opportunità politica delle varie posizioni di allora è, ovviamente, un discorso a parte.

[29] Si avviava invece allora, come oggi sappiamo, la grande controffensiva del capitale su scala mondiale, che tuttora mostra i suoi effetti. La nostra ipotesi è dunque, come si dice, controfattuale.

[30] Cfr. G. GATTEI, Tre maniere dell’imperialismo, nel vol. Il piano inclinato del capitale. Crisi, competizione globale e guerre, a cura di L. VASAPOLLO. Milano, Jaca Book, 2003.

[31] Si può anche affermare che la classe operaia, cioè il capitale, il rapporto di produzione fondamentale, il Modo di produzione capitalistico, non esistono più. Ci si dica allora, ma non a frasi, non a brandelli di mode “filosofiche” e di “analisi” politicistiche, che cosa esiste, e in che mondo viviamo.