Il movimento dei lavoratori e la nozione storica di “egemonia”
Alessandro Mazzone
Fuoriuscita dal capitalismo e configurazione del soggetto di classe
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Noi sappiamo che l’imperialismo ha contrattacato e vinto in
gran parte. Nelle metropoli (riduzione delle garanzie sociali, smantellamento
del c.d. “Stato del benessere”, svuotamento delle istituzioni politiche
democratiche, mutamento della funzione dello Stato [1]) e nelle periferie assoggettate o ricolonizzate in forme nuove.
Vuol dire questo che si è perduta una battaglia nella lotta egemoniale
per lo sviluppo democratico complessivo, (per la
democrazia-che-sbocca-nel-socialismo, in termini un po’ obsoleti)? O che si è
entrati in una fase storica completamente, qualitativamente nuova? E come
lavorare per la ricostituzione di un soggetto democratico, progressivo, o forse
rivoluzionario, nel tempo nostro?
Queste, come tutti sappiamo, sono questioni pratiche,
brucianti, presenti. Formularle in modo adeguato, però, significa né più né
meno che orientarsi nel mondo di oggi. Si sosterrà qui che si tratta di
questioni di egemonia, e di lotta tra egemonie, cominciata con la fase
imperialistica dello sviluppo capitalistico, e che dura tuttora, anche se,
ovviamente, in condizioni mutate. Cominciamo col ricapitolare la nozione teorica
di “egemonia” (riprendendo il filo dal massimo teorico dell’egemonia come
rapporto di classe, Antonio Gramsci).
II. La nozione di “egemonia” riguarda il processo
della vita sociale in tutti i suoi aspetti, cioè tutta la riproduzione
sociale complessiva. La produzione e riproduzione degli uomini associati è
bensì determinata dal rapporto di produzione fondamentale (nel Modo di
produzione capitalistico, quello di sfruttamento, cioè del rapporto
Capitale/Lavoro), ma è attuata attraverso tutte le attività
vitali degli uomini associati - attività lavorative non solo, ma anche di
educazione, insegnamento e apprendimento, di cura del corpo e della mente
(igiene, sanità, sport, riposo), di produzione culturale, scientifica,
artistica ecc. (E, naturalmente, la attività biotica, compresa la riproduzione
sessuata, che è sempre storicamente determinata.)
In una società di classe, questo complesso di attività può
tendere a riprodurre, e dunque a perpetuare, il rapporto fondamentale di classe
nel mondo moderno, capitalistico, il rapporto Capitale/Lavoro - oppure, al
contrario, a metterlo in crisi, a superarlo, quando la Riproduzione sociale
complessiva e il suo fondamento, la riproduzione materiale del corpo sociale
mediante il lavoro, entra in conflitto con il rapporto di produzione
fondamentale, e quindi con la configurazione di classe della società in
questione.
Ma va tenuto presente che si tratta di processi storici:
in altre parole, che stiamo parlando di forme di vita e di autoattuazione, o
si può dire, di manifestazioni “umane”, complessivamente
considerate, e via via divenute possibili. Operai, capitalisti, ma
anche ingegneri e Istituti politecnici per produrli, scienziati specialisti,
tecnici specializzati e Istituti tecnici o apprendistato per produrli, medicina
sperimentale, ecc. ecc. non sono pensabili al di fuori o “prima”
della produzione capitalistica. E così non lo sarebbe la scuola di base
obbligatoria e universale, che diventa indispensabile quando la popolazione
lavoratrice deve almeno saper leggere, scrivere e far di conto. Neppure avrebbe
senso immaginare una società feudale, o schiavistica, con diritti civili
(libertà di movimento, di contratto, di compravendita) per tutti, o
addirittura diritti politici, “volontà popolare”, suffragio universale e
via dicendo. Tutto questo divenne pensabile, e poi possibile, in società
plasmate dal Modo di produzione capitalistico e dal suo sviluppo - nel mondo
moderno, appunto.
In secondo luogo, va tenuto presente che egemonia è
un processo, anzi una figura determinata del processo sociale complessivo: non
uno stato immobile, e neppure un equilibrio stabile. Perciò essa importa sempre
una tensione, una tendenza, e un contrasto. Il contrasto può essere con
resistenze alla penetrazione del rapporto di produzione dominante, e quindi dei
modi di vita che esso viene plasmando - come nel caso delle masse contadine nell’Europa
dell’800 e di parte del ’900, che non si oppongono attivamente al
capitalismo, ma tendono a conservare forme economiche, e forme di lavoro e di
vita, ai margini del mercato [2]. Oppure può trattarsi di
contrasto attivo, di lotta tra classi dominanti, o di lotta per affermare la
loro egemonia su quelle subalterne. O, ancora, di lotta “dal basso”, che ha
la prospettiva di nuovi rapporti di produzione e riproduzione complessiva, e
quindi di una nuova egemonia. Una egemonia (anche plurisecolare, come quella
della borghesia inglese o francese) non è mai immobile.
Fatte queste osservazioni, possiamo fissare preliminarmente
una nozione astratta di “egemonia”. Egemonia è un rapporto di
classe. In quanto in tutti i rapporti sociali (ossia nella produzione e
riproduzione di concreti esseri umani, dunque anche nelle istituzioni in cui
questi operano ed esistono) prevale l’instaurazione, il perfezionamento, la
riproduzione, la perpetuazione del rapporto di classe fondamentale
(Capitale/Lavoro nel nostro caso), la classe egemone vede attuate e
conservate le condizioni della sua esistenza come classe, del suo sviluppo, e,
se vi è rapporto di sfruttamento, dello sfruttamento del lavoro delle classi
subalterne. Nel quadro di questo sviluppo, si attuano, conservano e modificano
anche le condizioni dell’esercizio del potere politico, culturale, ideale
della classe egemone, esercitato in tutto il corpo sociale.
Questa nozione di “egemonia” è astratta, come si
è detto (e data qui preliminarmente, appunto per fissare le idee da sviluppare
di seguito, e i termini indispensabili [3]).
Lo è, perché necessariamente tralascia i processi storici concreti, in
cui una egemonia di classe si realizza, in rapporto e scontro con altre classi,
e ogni volta in contesti economici, politici, culturali, istituzionali ben
determinati (p. es., nella Rivoluzione francese, nel Risorgimento italiano;
nello sviluppo prima commerciale, poi industriale, poi imperiale dell’Inghilterra
tra ’600 e primo ’900; ecc.). In quanto nozione del rapporto e processo di classi,
“egemonia” è prima di tutto una nozione storica, non immediatamente
politica.
Da questo discendono alcune conseguenze.
1. “Egemonia” non si riduce a “potere”, anche se
implica potere, anzi molte forme di potere: quello che si esercita come
costrizione, con la violenza pubblica [4], quello che è “costrizione
silenziosa” (economica); quello che è influenzare, sì, ma nel senso
più lato e inevitabile (poiché ogni educazione, ogni creazione e offerta di
orizzonti di esperienza e di pensiero, influenza gli allevati, educati,
promossi, aiutati, nel bene e nel male); e che è diverso dal potere che opera
come propaganda, e oggi, manipolazione e anticultura sistematica; ecc.
Ora: arrivare a detenere il potere (politico, di Stato) è un
risultato di lotte (di classe, cioè egemoniali); detenerlo ed
esercitarlo, è normalmente una parte dell’attuazione o dell’esercizio
dell’egemonia.
Tuttavia: non si dirà che una classe è “egemone” perché
“ha il potere”! [5] Questa espressione è priva di senso. Prima di tutto, il
potere, politico o di Stato p. es., non è esercitato da una classe, ma
attraverso istituzioni, gestite da individui in carne ed ossa. Questi operano,
coscientemente o no, per conto, e talvolta anche in nome, di una classe. La
classe come tale non è affatto una somma di individui, ma una totalità di
rapporti, un “insieme di rapporti sociali” [6].
Tra questi rapporti ve ne è uno fondamentale, il
rapporto di produzione. Si sa bene che, nel mondo moderno, questo è il rapporto
di Capitale/Lavoro. Ma molte discussioni astruse sarebbero evitate, e si
avrebbero più chiare le idee, ricordando che quel rapporto è fondamentale
semplicemente perché esso concerne il fondamento - la produzione di “beni”
(in forma di merci cariche di plusvalore, e in cui il capitale si realizza,
certo): e che senza questi “beni” non ci sarebbe società né vita di
uomini. [7] Ricordato questo, allora,
2. la corretta comprensione di “egemonia” permette di evitare l’ economicismo.
Tutta l’annosa discussione sulla misura o il modo in cui la
base” determina la “sovrastruttura” è viziata fin dall’inizio da un
fraintendimento della teoria marxiana. Se dico che “base” è “forze
produttive + rapporti di produzione” - e infatti le forze produttive, “umane”
e “naturali”, ma mediate dal lavoro umano, non esisterebbero al di fuori dei
rapporti di produzione entro cui operano e si trasformano - ho già detto che il
rapporto di produzione fondamentale può venire sorretto, garantito, bloccato,
modificato da quelle “altre” attività umane, in cui si realizza la
Riproduzione sociale complessiva, e che costituirebbero la “sovrastruttura”.
La quale non può prodursi né esistere e operare se non c’è... quel fondamento,
che se proprio vi piace, potete anche chiamare “base”, purché la
metafora edilizia (o geologica) non vi induca a immaginare che la “base” e
la “sovrastruttura”, nei suoi vari “strati” o “piani”, sian cose
ferme, ognuna per sé, o agenti separatamente l’una sull’altra, a “strati”.
Questo è proprio impossibile. [8]
3. Si dice spesso che un partito, o talvolta un gruppo, o
anche un’ideologia o un modo di vita, è “egemone” in una condizione o in
una determinata società [9]: si
vuol dire che quel partito, o gruppo, o modo di pensare ecc., è prevalente, ed
esercita un potere, o anche una funzione di guida, su altri gruppi, partiti,
modi di vita ecc. - È compresa in questo l’idea di un contrasto, di una
competizione, e del prevalere di una parte su altre. Fin qui, bene - ma
soltanto fin qui. La nozione di modo di produzione, e quindi quella di
classi e di egemonia di classe, è logicamente a monte dei processi politici,
culturali ecc., che si instaurano nelle società di classe e attuano (o mettono
in forse) l’egemonia. Questa si realizza storicamente, configurando in
un processo lungo, per lo più secolare, tutta la vita associata, e dunque
creando un tipo di società. [10] - In quanto rapporto e processo di classe, la
nozione di egemonia è assai più vasta della sfera politica, culturale ecc..
Essa riguarda il complesso delle attività attraverso cui gli uomini di una
determinata società producono e riproducono la loro vita nell’ambiente
non-umano, ovvero “natura”, e quindi fondamentalmente, ma non
esclusivamente, mediante il lavoro produttivo in senso stretto. Con tutte queste
attività gli uomini associati producono e riproducono, in definitiva, sé
stessi. Perciò “egemonia” è categoria storica. Essa riguarda la
Riproduzione sociale complessiva, e in essa si esercita. Si attua dunque in una Formazione
economico-sociale (nella terminologia che risale a Marx), o in un segmento
di essa - come le singole nazioni o Stati sono oggi, nel mondo capitalistico,
segmenti, diversamente sviluppati e interconnessi, dell’unica Formazione
economico-sociale borghese, capitalistica.
4. Ma l’egemonia di una classe sfruttatrice non significa oppressione
della maggioranza sfruttata? Questo è un punto da trattare con attenzione. Si
sa che il sentimento dell’oppressione subita, se resta solo sentimento,
dà luogo a impulsi di ribellione e tendenze anarcoidi [11]. Ma di fatto, l’oppressione è percepita; e, quel che più conta,
esiste realmente. E allora?
[1] V. M. CASADIO, J. PETRAS, L.
VASAPOLLO, Clash! Scontro tra potenze, Milano, Jaca Book 2004, in
particolare la Parte I, Centralità dello Stato imperiale nella competizione
globale.
[2] E quindi ai margini della cultura delle città. Si
tratta talora di processi plurisecolari. “Cittadinesco” significa civile,
raffinato, non rozzo nell’italiano del ’300; ruvidi nei modi e nel parlare,
plebei sono gli uomini e le donne della campagna - per es. nel Decamerone.
Ce ne sono ancora tracce, dopo più di sei secoli...
[3] Scrivo sforzandomi di citare il meno
possibile. Alcuni richiami di luoghi “classici” di Marx, Lenin, Gramsci sono
accennati tra parentesi, altri si intendono, altri sono soltanto impliciti. Chi
scrive dichiara qui di sapere bene, arrivato a 70 anni, di avere certamente dei
“padri” - i filosofi, con cui ha scelto di percorrere il cammino della vita,
e poi i maestri, i compagni con cui ha vissuto e vive, e ha imparato vivendo con
loro. E gli sembra anche che per chiunque sia così (anche se a molti è data
soltanto una scelta obbligata, o tra padri di scarto, mediatici o
stolidificanti). E che non possa essere diversamente, a guardar bene. Per cui l’affermazione
recente di un noto politico, sul “non aver padri”, appare davvero singolare,
anche a tener conto delle esigenze a breve scadenza, elettorali o altre...
[4] Viene qui a proposito la nozione di “monopolio
della violenza”, che secondo M. Weber definirebbe il potere di Stato. Ma sono
le classi che, nel realizzare la loro egemonia, si danno partiti,
organizzazioni, istituzioni e anche Stati.
[5] Lo si sente dire. Ma chi parla così non intende la
nozione di “classe” (che non significa, e non ha mai significato un “insieme
di individui” - né in Marx né nei suoi antecedenti e fonti, Ferguson, A.
Smith e la “storia filosofica” del tardo illuminismo inglese e francese; poi
l’economia politica classica, e naturalmente Hegel). E inoltre, chi parla
così è spesso affetto da quel miope politicismo, che vede gli eventi politici
giorno per giorno, e si immagina che la storia sia una serie di “giorni”,
come quelli che entrano nel suo orizzonte, e che lui percepisce. Oggi, poi, sono
legate a quella miopia politicistica, e alle sue delusioni, molte favole
reazionarie, a cominciare dalle chiacchiere filosofeggianti sulla “fine” -
della storia, del lavoro, dello Stato, delle classi, e chi più ne ha più ne
metta.
[6] Come Marx dice dell’ “uomo”
in generale, che non è un’essenza astratta insidente in tutti gli elementi
dell’insieme “uomini”, ma sempre, in concreto, una totalità di rapporti
sociali.
[7] “Nessuna società potrebbe vivere, se il lavoro cessasse” -
scrive Marx introducendo il concetto di “riproduzione” in Capitale I, sez.
VII, proprio all’inizio. Al livello di astrazione di Capitale I, “lavoro”
è “lavoro produttivo” in genere, purché valorizzante il capitale che lo
impiega. Ma è interessante che Marx, contro il suo solito, faccia qui un’affermazione
così generale. Essa riguarda infatti quel fondamento elementare, che è
implicito in ogni ragionamento sulle società umane. Anzi: quando dici “società”,
hai già detto produzione e riproduzione di uomini, mediante il lavoro - e resta
da vedere in quali, ben determinati rapporti degli uomini tra loro, e con
la natura ambiente.
[8] Per una diversa impostazione, si può vedere il
contributo di Hans Heinz HOLZ, presentato al convegno napoletano del novembre
2003 sui problemi della Transizione, e pubblicato in anteprima in “Aginform”,
n° 38, gennaio 2004, col titolo Il testamento filosofico e politico di
Stalin.
[9] Cfr. anche GRAMSCI, Quaderni del carcere,
ed. critica (Torino 1975), in particolare nel Quaderno 19, sul
Risorgimento italiano, per la egemonia esercitata dai moderati sui democratici
nel periodo decisivo, tra il 1848 e la fondazione dello Stato unitario.
[10] Le nazioni europee moderne ne sono un buon
esempio. Esse sono “nazioni borghesi”, nel senso che l’insorgere e poi lo
sviluppo della borghesia (in Italia: dai Comuni medievali in poi, con la “pausa”
regressiva della “crisi italiana” dal ’500 al ’700, e poi col
Risorgimento), con i nuovi rapporti di produzione, le nuove figure sociali
possibili, la nuova cultura corrispondente, vengono a costituire grado a grado,
e attraverso una lunga serie di figure e scontri politici, un corpo, che
si chiama “Nazione” (e ha comune una lingua? Ma quanti Italiani parlavano la
lingua italiana nel 1861?)
[11] D’altra parte, l’oppressione
realissima oggi, quando un pugno di superricchi su scala mondiale tiene in mano
le sorti dei popoli, riposa anche sull’ottundimento del sentimento dell’oppressione
(che si manifesta in rassegnazione, disinteresse, rinuncia all’impegno vestita
da “disgusto per la politica” ecc.). Su questo bisognerà tornare nell’analisi,
ancora in buona parte da fare, della concreta egemonia esercitata oggi, nella
fase presente, e nuova, dell’imperialismo. Nei lunghi secoli dell’oppressione
“tradizionale”, schiavista e feudale, le rivolte non furono la normalità.
Normalità fu l’acconciarsi allo stato di cose esistente, la rassegnazione, l’ammirazione
per i semidei ricchi e potenti, per i segni e i simboli del loro potere. Solo la
classe operaia moderna ha potuto dire “Non siam più, laggiù nell’ officina
/ sulla terra, nei campi, al mar / la plebe sempre all’opra china /
senza ideale in cui sperar”. Il ritorno a quella “normalità”, mutatis
mutandis, è oggi l’obiettivo di un’azione sistematica tendente a
trasformare le masse lavoratrici, cioè l’immensa maggioranza, in una neoplebe
incapace di rappresentarsi il contesto delle sue condizioni, di ricavarne
conseguenze razionali, o anche solo di immaginare quell’ “altro mondo
possibile”, e necessario, che, se non vagheggiato, ma voluto con chiarezza di
intelletto e spirito di sacrificio, sarebbe veramente possibile. -
Ma di questo non possiamo occuparci qui. Il tema è vasto, e merita trattazione
a parte.