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Per la critica del capitalismo

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Giampiero Betti
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Lavoro vivo e pluslavoro in Italia. Per una misurazione teorico-statistica (prima parte)

Giampiero Betti

Giorgio Gattei

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1. Dal salario al lavoro

Se qualcuno aveva mai pensato che il conflitto tra capitale e lavoro poteva essere rimosso nella società post-fordista (sono corsi per lungo tempo discorsi inutili sulla “fine”, o almeno la crisi, del lavoro salariato, che sarebbe stato sostituito dalla nuova dimensione dell’«autoimprenditorialità» che avrebbe reso i lavoratori finalmente “padroni di se stessi”), ebbene la storia ha provveduto a smentirlo. Ormai non si fa che parlare di livelli retributivi insufficienti, di contratti di lavoro scaduti, di padronato alle prese con “esuberi”, di dipendenti che “non arrivano alla fine del mese”. Qualcuno ha persino resuscitato la venerabile categoria del «proletariato» [1], mentre non c’è benpensante che non denunci la crescente sperequazione tra “ricchi” e “poveri”, o almeno tra “nuovi ricchi” e “nuovi poveri”. Francesco Cossiga, come sempre al di sopra delle righe, si è spinto fino ad annunciare il ritorno della «lotta di classe» [i]. E così la presunta obsoleta «contraddizione tra capitale e lavoro» è ritornata prepotentemente sulla scena, con le parti sociali a guardarsi in cagnesco per la spartizione dell’osso. Appunto. Ma quale osso?

Quando si affronta la contraddizione tra capitale e lavoro è necessario definire esattamente l’oggetto del contendere per non rischiare di ridurre il tutto, come in effetti sta succedendo, a sola questione distributiva (che c’è, ma non l’unica). Intanto il problema del salario può essere coniugato in una duplice maniera, la prima delle quali è il salario monetario, ossia l’ammontare di retribuzione che si stabilisce nel contratto di lavoro. Ed è ovvio che già qui si aprano contraddizioni, essendo ben noto fin dall’alba della economia politica che «i salari correnti del lavoro dipendono ovunque dal contratto che comunemente si conclude tra le due parti sociali i cui interessi non sono affatto gli stessi. Gli operai desiderano ricevere il più possibile, i padroni dare il meno possibile. I primi sono propensi a coalizzarsi per elevare il salario, i secondi per diminuirlo» [2].

Ma il salario può essere considerato anche dal punto di vista del suo potere di acquisto e si parla allora del salario reale. Con il salario monetario contrattato i lavoratori prevedono di acquistare poi quel paniere di beni di consumo che giudicano consono (e quindi necessario) al loro benessere. Essi fanno questa previsione sulla base dei prezzi dei beni di consumo correnti al momento della stipula contrattuale; ma siccome il contratto ha validità prolungata, il salario monetario resta invariato nel tempo anche a fronte di un eventuale aumento dei prezzi. Così il lavoratore può trovarsi costretto ad acquistare, con lo stesso salario monetario, un paniere di beni di consumo ridotto rispetto alle proprie previsioni oppure, se non intende rinunciarvi, deve far ricorso al credito o consumare i propri risparmi. Da qui le contestazioni per il “recupero dell’inflazione” così da assicurare ai lavoratori l’acquisto dei beni-salario che avevano preventivato.

Se bloccata sulla dicotomia salario monetario/salario reale, la contraddizione tra capitale e lavoro resta però confinata al solo momento distributivo del reddito, ossia alla questione di quanta sua parte, espressa in termini monetari oppure in termini reali, affluisce al “fattore lavoro”. Ne viene così accantonato, per non dire escluso, il vero carattere che trova la propria ragion d’essere nella natura del contratto che lega il lavoratore alla controparte e da cui deriva quel salario monetario che poi acquista sul mercato i beni di consumo. Ora il contratto di lavoro è stato ricondotto, piuttosto che ad una «obbligazione a fare», ad una «obbligazione a dare» (secondo l’intelligente interpretazione di M. Martini in Mercenarius. Contributo alla studio dei rapporti di lavoro in diritto romano (Giuffrè, Milano, 1958) recentemente riproposta da Ernesto Screpanti su “Proteo” [3]). Infatti, a differenza delle obbligazioni a fare (locatio operis) che definiscono i contratti d’associazione, di mandato, d’opera e di mezzadria e nelle quali il lavoratore s’impegna, dietro remunerazione, a compiere una prestazione lavorativa per conto altrui ma con la decisione che resta comunque di sua spettanza, nel contratto di lavoro (locatio operarum) l’accordo vincola i lavoratori «a rinunciare alla propria autonomia decisionale per un certo numero di ore al giorno, durante le quali svolgeranno attività lavorative sotto il comando (della controparte)... Così la loro remunerazione non si configura come il prezzo di una merce e il valore del prodotto ottenuto con la loro attività non si configura come valore prodotto da loro. Il salario non è il prezzo dei servizi lavorativi, ma un compenso per l’impegno all’obbedienza... (dato che) qui non si scambia un bene, si assume un obbligo all’obbedienza... (con il quale) il datore di lavoro acquisisce potere di comando sul lavoro» [4]. È per questo che nel contratto di lavoro si dà (e non si fa) lavoro, ossia si consegna alla controparte la capacità di decidere riguardo alla propria attività che sarà poi svolta secondo il volere di quella. Così l’impresa capitalistica si costituisce come un “nesso di contratti” (giusta la definizione attualmente più alla moda), ma con l’avvertenza - sottolinea Screpanti - che si tratta di «un nesso di contratti di lavoro, vale a dire proprio l’opposto di ciò a cui pensano i teorici del “nesso di contratti”» [5].

Ciò premesso, non pare affatto strano che una simile definizione dell’impresa capitalistica trovi una esatta corrispondenza in quella data da Ronald H. Coase nel suo seminale articolo sulla Natura dell’impresa del 1937: se infatti l’impresa si contrappone al mercato perché produce merci (make) invece di acquistarle (buy), allora l’impresa capitalistica si distingue da una generica impresa per «la relazione giuridica normalmente chiamata del “padrone e del servitore”, i cui caratteri essenziali sono stati definiti come segue...». E qui Coase cita da F. R. Butt, Master and servant del 1929: «1) Il servitore deve trovarsi nella condizione di dover rendere servizi personali al padrone o a terzi per conto del padrone, altrimenti si ha un contratto per la vendita di beni o simili. 2) Il padrone deve avere il diritto di controllare il lavoro del servitore, sia personalmente sia per mezzo di un altro servitore o agente. È questo diritto di controllo o interferenza che autorizza il padrone a dire al servitore quando lavorare (all’interno delle ore di servizio) e quando non lavorare, e quale lavoro fare e come farlo (all’interno della condizioni stabilite per tale servizio) che è la caratteristica dominante in questa relazione e distingue il servitore da un lavoratore autonomo al quale compete solo di dare al datore di lavoro i frutti del suo lavoro» [6]. Fin qui la citazione, che Coase immediatamente commenta giudicando che allora «è proprio la direzione l’elemento che caratterizza l’essenza del concetto legale di “datore di lavoro e dipendente”» e che solo una definizione siffatta «si attaglia bene all’impresa così come essa viene considerata nel mondo reale» [7].

Se quindi è il comando sul lavoro altrui a definire l’impresa capitalistica, a maggior ragione una intera economia sarà capitalistica quando è organizzata attorno alla erogazione del «lavoro comandato» (labour commanded, come avrebbe detto Adam Smith) da parte dei lavoratori salariati (labouring poor, per dirla ancora con Adam Smith). E saranno le modalità d’esecuzione e l’ammontare temporale di quel lavoro, ben più che il salario reale o monetario, a qualificare la «capacità di comando» del capitale sull’insieme degli «obbedienti» [8]. Solitamente nella scienza accademica questa dimensione del rapporto di produzione è (di proposito) trascurata. Posta invece al centro della Critica dell’economia politica di Karl Marx, essa è stata coltivata dagli studiosi marxisti, ma con ben poca fortuna se, al termine del “secolo breve”, dalla verifica è risultato che il dettato marxiano soffre di tali insufficienze analitiche da rendere logicamente impossibile ricondurre il profitto capitalistico a quel «lavoro comandato». È stato questo, come è noto, l’esito disperante del controverso dibattito sulla «trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione» [9], un dibattito che ha fatto scorrere fin troppo inchiostro e su cui, in conclusione, sarebbe opportuno riconoscere che, almeno nella forma letterale in cui la “trasformazione” è stata messa sulla carta da Marx, i critici hanno avuto ragione perché non regge proprio.

Eppure nello spirito la “trasformazione” deve restare assolutamente centrale se si vuol comprendere la realtà del modo capitalistico di produzione in cui il profitto è soltanto un fenomeno che rimanda ad altro per la propria spiegazione. Ma soprattutto essa si può dimostrare valida se viene ricondotta, giusto il titolo della prima sezione del terzo libro del Capitale, alla sola «trasformazione del plusvalore in profitto» o, per dire meglio ancora, alla trasformazione del pluslavoro in profitto. È certo che per rendere coerente il tutto si richiedono aggiustamenti al dettato marxiano (ma meno di quelli che si possono immaginare), trattandosi di confinare il processo di trasformazione al solo «lavoro vivo» erogato dalla forza-lavoro, con esclusione quindi del controverso «lavoro morto» in cui dovrebbe essere convertito il prezzo di produzione dei beni-capitali impiegati. Ma il risultato vale la fatica, perché allora è possibile pervenire alla conclusione inoppugnabile che il profitto dipende dal pluslavoro, ossia «dal grado di sfruttamento del lavoro complessivo da parte del capitale complessivo» [10].

È quanto si era cercato di mostrare, riassumendo le più recenti innovative tendenze del dibattito internazionale sulla «trasformazione» marxiana, in G. Gattei (a cura di), Karl Marx e la trasformazione del pluslavoro in profitto (MediaPrint, Roma, 2002), che è il testo che sta alla base del sintetico ragionamento teorico che viene sviluppato nel paragrafo che segue.

 

2. Dal «prezzo del Netto» al Lavoro vivo

Supponiamo allora [11] una economia capitalistica chiusa (con esclusione quindi dei rapporti internazionali) che produce merci impiegando lavoro e beni capitali. Il lavoro è acquistato all’inizio del periodo di produzione sul mercato della forza-lavoro dietro corresponsione di un salario monetario. Pagando questo salario (che è il «valore di scambio» della merce forza-lavoro), il capitale ne acquista il «valore d’uso», ossia la possibilità di consumare la forza-lavoro a proprio vantaggio [12]. Ma l’uso del valor d’uso della forza lavoro non è altro che il lavoro vivo.

Anche i beni-capitali sono acquistati all’inizio del periodo di produzione sul proprio mercato dietro pagamento del loro prezzo di produzione che è un prezzo speciale (d’equilibrio di lungo periodo) che garantisce un saggio uniforme del profitto in tutti gli impieghi e l’identico salario orario per tutti i lavoratori. Differisce quindi dal prezzo corrente di mercato, che è invece influenzato dalle variazioni occasionali della domanda e dell’offerta e che porta a saggi del profitto difformi nei vari impieghi e a salari differenti nelle diverse occupazioni. Non assicurando l’uniformità del saggio del profitto e del salario orario, i prezzi di mercato non possono essere infatti dei prezzi di equilibrio, dato che allora i capitali e i lavoratori si sposterebbero dagli impieghi e dalle occupazioni a minor saggio del profitto e salario verso quelli dove i saggi del profitto ed i salari sono maggiori. Solo se i saggi del profitto ed i salari orari risultano uniformi, quel movimento di capitali e lavoratori viene a cessare e l’economia viene a trovarsi, per l’appunto, in uno stato di equilibrio di lungo periodo. Ora i prezzi che definiscono saggi del profitto e salari orari uniformi per ogni merce (prodotto o bene-capitale che sia) sono chiamati in dottrina «prezzi di produzione» [13].

Ma quale significato conoscitivo possono avere le due condizioni così estreme d’uniformità dei saggi del profitto e del salario orario, tanto inverosimili nel concreto? Della prima condizione ha spiegato direttamente il senso Marx nel Capitale: «l’idea fondamentale è quella del profitto medio,... ossia che ogni capitalista non è in realtà che un semplice azionista dell’impresa complessiva della società che partecipa al profitto complessivo in proporzione della sua quantità di capitale» [14]. Altrettanto si può dire, parafrasando, per la condizione di salari orari uniformi: ogni salariato si presenta come componente paritetico della classe operaia impegnata nel produrre e partecipa al salario complessivo in proporzione della quantità di lavoro personalmente erogata (e quindi ne riceve un salario orario uniforme). È ovvio che nella realtà tutto questo non avviene mai. Eppure l’economia politica ha sempre presupposto tali condizioni d’equilibrio ideale, mentre economisti d’ogni colore se ne sono tranquillamente serviti. A che scopo? È ancora Marx a rispondere: «innanzi tutto per situare i fenomeni nella loro forma regolare, ossia per studiarli indipendentemente dalle manifestazioni esteriori che risultano dal movimento della domanda e dell’offerta; in secondo luogo, per delineare la vera tendenza del loro movimento e, in qualche modo, fissarla» [15]. Così l’equilibrio di lungo periodo è una posizione limite verso cui la realtà concreta tende a muoversi senza raggiungerla mai, ma che potrebbe raggiungere «tanto più rapidamente, 1) quanto più mobile è il capitale, ossia quanto più facilmente può essere trasferito da una sfera di produzione ad un’altra, da un luogo ad un altro; 2) quanto più rapidamente la forza-lavoro può essere gettata da una sfera di produzione in un’altra, da una località produttiva in un’altra» [16].

Ciò premesso, proseguiamo. Dopo aver pagato il prezzo di produzione dei beni-capitali ed il salario della forza- lavoro, il processo di produzione può avere luogo. Ai beni-capitali disponibili si applica il «lavoro vivo» eseguito dalla forza-lavoro, che è altrettanto disponibile, e da questa “combinazione produttiva” scaturisce un ammontare di merci che, terminato il processo lavorativo, viene venduto al relativo prezzo di produzione. Ne risulta un ricavo totale che è pari alle quantità delle merci prodotte moltiplicate per i loro prezzi, mentre il costo complessivo della produzione è dato dal prezzo di produzione delle quantità dei beni-capitali impiegati e dal salario pagato all’insieme della forza-lavoro messa all’opera.


[1] Così Carla Fracci su “La Repubblica” del 5 dicembre 2003.

[i] Cossiga: “La CGIL contro i lavoratori, “La Repubblica”, 3 dicembre 2003.

[2] A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, Newton Compton, Roma, 1995, p. 108.

[3] E. SCREPANTI, Contratto di lavoro, regimi di proprietà e governi dell’accumulazione: verso una teoria generale del capitalismo, in “Proteo”, 2001, n. 1, pp. 70-81.

[4] Idem, p. 74 (corsivo aggiunto).

[5] Idem (corsivo aggiunto).

[6] R. COASE, La natura dell’impresa, in Impresa, mercato, diritto, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 93.

[7] Idem, p. 94 (corsivo aggiunto).

[8] Il termine non è usato a sproposito: si denominava «obbedienza» l’obbligo che in età moderna doveva alla Corporazione chi lavorava in un’attività da quella regolata senza potervi essere iscritto (ad esempio perché ancora apprendista, oppure perché donna, oppure perché ebreo). Questi «sudditi delle Corporazioni», in cambio del diritto ad esercitare il proprio mestiere d’artigianato o di piccolo commercio, s’impegnavano a prestare «lavoro obbligato», anche gratuito, quando richiesto dalle Corporazioni per le esigenze della città. Ma le Corporazioni potevano anche vendere le «obbedienze» ai singoli maestri mediante «aste» ed «appalti», realizzando così la costrizione al «lavoro per altri» (sull’argomento cfr. L. GHEZA FABBRI, L’organizzazione del lavoro in una economia urbana. Le Società d’Arti a Bologna nei secoli XVI e XVII, CLUEB, Bologna, 1988, pp. 88-105).

[9] La cui storia è stata meticolosamente commentata da G. JORLAND, Les paradoxes du capital, Editions Odile Jacob, Paris, 1995, pp. 15-353.

[10] K. MARX, Il capitale. Libro terzo, Editori Riuniti, Roma, 1965, p. 241.

[11] Qui si riprende anche il ragionamento sviluppato in G. GATTEI, Per ritrovare il senso del “Capitale”, in “Proteo”, 2003, n. 1, pp. 100-105.

[12] «Il venditore della forza-lavoro realizza il suo valore di scambio e aliena il suo valore d’uso, come il venditore di qualsiasi altra merce» (K. MARX, Il capitale. Libro primo, Editori Riuniti, Roma, 1964, p. 228).

[13] Per una presentazione storico-teorica dei «prezzi di produzione» cfr. H. D. KURZ e N. SALVADORI, Theory of production. A long-period analysis, Cambridge University Press, Cambridge 1995. Gli autori così spiegano: i prezzi di produzione, «detti anche “naturali”, “normali” oppure “prezzi ordinari”, sono stati concepiti come espressione delle forze persistenti, non accidentali e non temporanee che governano il sistema economico, distinguendosi così dai prezzi “correnti” o “di mercato” che riflettono invece tutti i generi d’influenze, molte di natura accidentale e temporanea. Nella letteratura i sistemi economici così considerati sono anche conosciuti come “posizioni normali” o “di lungo periodo” dell’economia» (pp. 1-2).

[14] K. MARX, Il capitale. Libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1965, p. 256.

[15] Idem, p. 233.

[16] Idem, p. 240.