1. Dal salario al lavoro
Se qualcuno aveva mai pensato che il conflitto tra capitale
e lavoro poteva essere rimosso nella società post-fordista (sono corsi per lungo
tempo discorsi inutili sulla “fine”, o almeno la crisi, del lavoro salariato,
che sarebbe stato sostituito dalla nuova dimensione dell’«autoimprenditorialità»
che avrebbe reso i lavoratori finalmente “padroni di se stessi”), ebbene la
storia ha provveduto a smentirlo. Ormai non si fa che parlare di livelli retributivi
insufficienti, di contratti di lavoro scaduti, di padronato alle prese con “esuberi”,
di dipendenti che “non arrivano alla fine del mese”. Qualcuno ha persino resuscitato
la venerabile categoria del «proletariato» [1], mentre non c’è benpensante che non denunci la crescente
sperequazione tra “ricchi” e “poveri”, o almeno tra “nuovi ricchi” e “nuovi
poveri”. Francesco Cossiga, come sempre al di sopra delle righe, si è spinto
fino ad annunciare il ritorno della «lotta di classe» [i]. E così la presunta
obsoleta «contraddizione tra capitale e lavoro» è ritornata prepotentemente
sulla scena, con le parti sociali a guardarsi in cagnesco per la spartizione
dell’osso. Appunto. Ma quale osso?
Quando si affronta la contraddizione tra capitale e lavoro
è necessario definire esattamente l’oggetto del contendere per non rischiare
di ridurre il tutto, come in effetti sta succedendo, a sola questione distributiva
(che c’è, ma non l’unica). Intanto il problema del salario può essere coniugato
in una duplice maniera, la prima delle quali è il salario monetario,
ossia l’ammontare di retribuzione che si stabilisce nel contratto di lavoro.
Ed è ovvio che già qui si aprano contraddizioni, essendo ben noto fin dall’alba
della economia politica che «i salari correnti del lavoro dipendono ovunque
dal contratto che comunemente si conclude tra le due parti sociali i cui interessi
non sono affatto gli stessi. Gli operai desiderano ricevere il più possibile,
i padroni dare il meno possibile. I primi sono propensi a coalizzarsi per elevare
il salario, i secondi per diminuirlo» [2].
Ma il salario può essere considerato anche dal punto di vista
del suo potere di acquisto e si parla allora del salario reale. Con il
salario monetario contrattato i lavoratori prevedono di acquistare poi quel
paniere di beni di consumo che giudicano consono (e quindi necessario) al loro
benessere. Essi fanno questa previsione sulla base dei prezzi dei beni di consumo
correnti al momento della stipula contrattuale; ma siccome il contratto ha validità
prolungata, il salario monetario resta invariato nel tempo anche a fronte di
un eventuale aumento dei prezzi. Così il lavoratore può trovarsi costretto ad
acquistare, con lo stesso salario monetario, un paniere di beni di consumo ridotto
rispetto alle proprie previsioni oppure, se non intende rinunciarvi, deve far
ricorso al credito o consumare i propri risparmi. Da qui le contestazioni per
il “recupero dell’inflazione” così da assicurare ai lavoratori l’acquisto dei
beni-salario che avevano preventivato.
Se bloccata sulla dicotomia salario monetario/salario reale,
la contraddizione tra capitale e lavoro resta però confinata al solo momento
distributivo del reddito, ossia alla questione di quanta sua parte, espressa
in termini monetari oppure in termini reali, affluisce al “fattore lavoro”.
Ne viene così accantonato, per non dire escluso, il vero carattere che trova
la propria ragion d’essere nella natura del contratto che lega il lavoratore
alla controparte e da cui deriva quel salario monetario che poi acquista sul
mercato i beni di consumo. Ora il contratto di lavoro è stato ricondotto, piuttosto
che ad una «obbligazione a fare», ad una «obbligazione a dare» (secondo l’intelligente
interpretazione di M. Martini in Mercenarius. Contributo alla studio dei
rapporti di lavoro in diritto romano (Giuffrè, Milano, 1958) recentemente
riproposta da Ernesto Screpanti su “Proteo” [3]). Infatti, a differenza
delle obbligazioni a fare (locatio operis) che definiscono i contratti
d’associazione, di mandato, d’opera e di mezzadria e nelle quali il lavoratore
s’impegna, dietro remunerazione, a compiere una prestazione lavorativa per conto
altrui ma con la decisione che resta comunque di sua spettanza, nel contratto
di lavoro (locatio operarum) l’accordo vincola i lavoratori «a rinunciare
alla propria autonomia decisionale per un certo numero di ore al giorno, durante
le quali svolgeranno attività lavorative sotto il comando (della controparte)...
Così la loro remunerazione non si configura come il prezzo di una merce e il
valore del prodotto ottenuto con la loro attività non si configura come valore
prodotto da loro. Il salario non è il prezzo dei servizi lavorativi, ma un compenso
per l’impegno all’obbedienza... (dato che) qui non si scambia un bene, si assume
un obbligo all’obbedienza... (con il quale) il datore di lavoro acquisisce potere
di comando sul lavoro» [4]. È per questo
che nel contratto di lavoro si dà (e non si fa) lavoro, ossia si consegna alla
controparte la capacità di decidere riguardo alla propria attività che sarà
poi svolta secondo il volere di quella. Così l’impresa capitalistica si costituisce
come un “nesso di contratti” (giusta la definizione attualmente più alla moda),
ma con l’avvertenza - sottolinea Screpanti - che si tratta di «un nesso di contratti
di lavoro, vale a dire proprio l’opposto di ciò a cui pensano i teorici
del “nesso di contratti”» [5].
Ciò premesso, non pare affatto strano che una simile definizione
dell’impresa capitalistica trovi una esatta corrispondenza in quella data da
Ronald H. Coase nel suo seminale articolo sulla Natura dell’impresa del
1937: se infatti l’impresa si contrappone al mercato perché produce merci (make)
invece di acquistarle (buy), allora l’impresa capitalistica si distingue
da una generica impresa per «la relazione giuridica normalmente chiamata del
“padrone e del servitore”, i cui caratteri essenziali sono stati definiti come
segue...». E qui Coase cita da F. R. Butt, Master and servant del 1929:
«1) Il servitore deve trovarsi nella condizione di dover rendere servizi personali
al padrone o a terzi per conto del padrone, altrimenti si ha un contratto per
la vendita di beni o simili. 2) Il padrone deve avere il diritto di controllare
il lavoro del servitore, sia personalmente sia per mezzo di un altro servitore
o agente. È questo diritto di controllo o interferenza che autorizza il padrone
a dire al servitore quando lavorare (all’interno delle ore di servizio) e quando
non lavorare, e quale lavoro fare e come farlo (all’interno della condizioni
stabilite per tale servizio) che è la caratteristica dominante in questa relazione
e distingue il servitore da un lavoratore autonomo al quale compete solo di
dare al datore di lavoro i frutti del suo lavoro» [6]. Fin
qui la citazione, che Coase immediatamente commenta giudicando che allora «è
proprio la direzione l’elemento che caratterizza l’essenza del concetto
legale di “datore di lavoro e dipendente”» e che solo una definizione siffatta
«si attaglia bene all’impresa così come essa viene considerata nel mondo reale» [7].
Se quindi è il comando sul lavoro altrui a definire
l’impresa capitalistica, a maggior ragione una intera economia sarà capitalistica
quando è organizzata attorno alla erogazione del «lavoro comandato» (labour
commanded, come avrebbe detto Adam Smith) da parte dei lavoratori salariati
(labouring poor, per dirla ancora con Adam Smith). E saranno le modalità
d’esecuzione e l’ammontare temporale di quel lavoro, ben più che il salario
reale o monetario, a qualificare la «capacità di comando» del capitale sull’insieme
degli «obbedienti» [8]. Solitamente nella scienza accademica questa dimensione del rapporto
di produzione è (di proposito) trascurata. Posta invece al centro della Critica
dell’economia politica di Karl Marx, essa è stata coltivata dagli studiosi marxisti,
ma con ben poca fortuna se, al termine del “secolo breve”, dalla verifica è
risultato che il dettato marxiano soffre di tali insufficienze analitiche da
rendere logicamente impossibile ricondurre il profitto capitalistico a quel
«lavoro comandato». È stato questo, come è noto, l’esito disperante del controverso
dibattito sulla «trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di produzione» [9], un dibattito
che ha fatto scorrere fin troppo inchiostro e su cui, in conclusione, sarebbe
opportuno riconoscere che, almeno nella forma letterale in cui la “trasformazione”
è stata messa sulla carta da Marx, i critici hanno avuto ragione perché non
regge proprio.
Eppure nello spirito la “trasformazione” deve restare assolutamente
centrale se si vuol comprendere la realtà del modo capitalistico di produzione
in cui il profitto è soltanto un fenomeno che rimanda ad altro per la propria
spiegazione. Ma soprattutto essa si può dimostrare valida se viene ricondotta,
giusto il titolo della prima sezione del terzo libro del Capitale, alla
sola «trasformazione del plusvalore in profitto» o, per dire meglio ancora,
alla trasformazione del pluslavoro in profitto. È certo che per rendere
coerente il tutto si richiedono aggiustamenti al dettato marxiano (ma meno di
quelli che si possono immaginare), trattandosi di confinare il processo di trasformazione
al solo «lavoro vivo» erogato dalla forza-lavoro, con esclusione quindi del
controverso «lavoro morto» in cui dovrebbe essere convertito il prezzo di produzione
dei beni-capitali impiegati. Ma il risultato vale la fatica, perché allora è
possibile pervenire alla conclusione inoppugnabile che il profitto dipende dal
pluslavoro, ossia «dal grado di sfruttamento del lavoro complessivo da
parte del capitale complessivo» [10].
È quanto si era cercato di mostrare, riassumendo le più recenti
innovative tendenze del dibattito internazionale sulla «trasformazione» marxiana,
in G. Gattei (a cura di), Karl Marx e la trasformazione del pluslavoro in
profitto (MediaPrint, Roma, 2002), che è il testo che sta alla base del
sintetico ragionamento teorico che viene sviluppato nel paragrafo che segue.
2. Dal «prezzo del Netto» al Lavoro vivo
Supponiamo allora [11] una economia capitalistica chiusa (con esclusione quindi
dei rapporti internazionali) che produce merci impiegando lavoro e beni capitali.
Il lavoro è acquistato all’inizio del periodo di produzione sul mercato della
forza-lavoro dietro corresponsione di un salario monetario. Pagando questo salario
(che è il «valore di scambio» della merce forza-lavoro), il capitale ne acquista
il «valore d’uso», ossia la possibilità di consumare la forza-lavoro a proprio
vantaggio [12].
Ma l’uso del valor d’uso della forza lavoro non è altro che il lavoro vivo.
Anche i beni-capitali sono acquistati all’inizio del periodo
di produzione sul proprio mercato dietro pagamento del loro prezzo di produzione
che è un prezzo speciale (d’equilibrio di lungo periodo) che garantisce un saggio
uniforme del profitto in tutti gli impieghi e l’identico salario orario per
tutti i lavoratori. Differisce quindi dal prezzo corrente di mercato, che è
invece influenzato dalle variazioni occasionali della domanda e dell’offerta
e che porta a saggi del profitto difformi nei vari impieghi e a salari differenti
nelle diverse occupazioni. Non assicurando l’uniformità del saggio del profitto
e del salario orario, i prezzi di mercato non possono essere infatti dei prezzi
di equilibrio, dato che allora i capitali e i lavoratori si sposterebbero dagli
impieghi e dalle occupazioni a minor saggio del profitto e salario verso quelli
dove i saggi del profitto ed i salari sono maggiori. Solo se i saggi del profitto
ed i salari orari risultano uniformi, quel movimento di capitali e lavoratori
viene a cessare e l’economia viene a trovarsi, per l’appunto, in uno stato di
equilibrio di lungo periodo. Ora i prezzi che definiscono saggi del profitto
e salari orari uniformi per ogni merce (prodotto o bene-capitale che sia) sono
chiamati in dottrina «prezzi di produzione» [13].
Ma quale significato conoscitivo possono avere le due condizioni
così estreme d’uniformità dei saggi del profitto e del salario orario, tanto
inverosimili nel concreto? Della prima condizione ha spiegato direttamente il
senso Marx nel Capitale: «l’idea fondamentale è quella del profitto medio,...
ossia che ogni capitalista non è in realtà che un semplice azionista dell’impresa
complessiva della società che partecipa al profitto complessivo in proporzione
della sua quantità di capitale» [14]. Altrettanto si può dire, parafrasando, per la
condizione di salari orari uniformi: ogni salariato si presenta come componente
paritetico della classe operaia impegnata nel produrre e partecipa al salario
complessivo in proporzione della quantità di lavoro personalmente erogata (e
quindi ne riceve un salario orario uniforme). È ovvio che nella realtà tutto
questo non avviene mai. Eppure l’economia politica ha sempre presupposto tali
condizioni d’equilibrio ideale, mentre economisti d’ogni colore se ne sono tranquillamente
serviti. A che scopo? È ancora Marx a rispondere: «innanzi tutto per situare
i fenomeni nella loro forma regolare, ossia per studiarli indipendentemente
dalle manifestazioni esteriori che risultano dal movimento della domanda e dell’offerta;
in secondo luogo, per delineare la vera tendenza del loro movimento e, in qualche
modo, fissarla» [15]. Così l’equilibrio di lungo periodo è una posizione
limite verso cui la realtà concreta tende a muoversi senza raggiungerla mai,
ma che potrebbe raggiungere «tanto più rapidamente, 1) quanto più mobile è il
capitale, ossia quanto più facilmente può essere trasferito da una sfera di
produzione ad un’altra, da un luogo ad un altro; 2) quanto più rapidamente la
forza-lavoro può essere gettata da una sfera di produzione in un’altra, da una
località produttiva in un’altra» [16].
Ciò premesso, proseguiamo. Dopo aver pagato il prezzo di produzione
dei beni-capitali ed il salario della forza- lavoro, il processo di produzione
può avere luogo. Ai beni-capitali disponibili si applica il «lavoro vivo» eseguito
dalla forza-lavoro, che è altrettanto disponibile, e da questa “combinazione
produttiva” scaturisce un ammontare di merci che, terminato il processo lavorativo,
viene venduto al relativo prezzo di produzione. Ne risulta un ricavo totale
che è pari alle quantità delle merci prodotte moltiplicate per i loro prezzi,
mentre il costo complessivo della produzione è dato dal prezzo di produzione
delle quantità dei beni-capitali impiegati e dal salario pagato all’insieme
della forza-lavoro messa all’opera.
[1] Così Carla Fracci su “La Repubblica”
del 5 dicembre 2003.
[i] Cossiga: “La CGIL
contro i lavoratori, “La Repubblica”, 3 dicembre 2003.
[2] A. SMITH, La ricchezza delle nazioni,
Newton Compton, Roma, 1995, p. 108.
[3] E. SCREPANTI, Contratto di
lavoro, regimi di proprietà e governi dell’accumulazione: verso una teoria generale
del capitalismo, in “Proteo”, 2001, n. 1, pp. 70-81.
[4] Idem, p. 74 (corsivo aggiunto).
[5] Idem (corsivo aggiunto).
[6] R. COASE, La natura dell’impresa,
in Impresa, mercato, diritto, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 93.
[7] Idem,
p. 94 (corsivo aggiunto).
[8] Il termine non è usato a sproposito: si denominava «obbedienza»
l’obbligo che in età moderna doveva alla Corporazione chi lavorava in un’attività
da quella regolata senza potervi essere iscritto (ad esempio perché ancora apprendista,
oppure perché donna, oppure perché ebreo). Questi «sudditi delle Corporazioni»,
in cambio del diritto ad esercitare il proprio mestiere d’artigianato o di piccolo
commercio, s’impegnavano a prestare «lavoro obbligato», anche gratuito, quando
richiesto dalle Corporazioni per le esigenze della città. Ma le Corporazioni
potevano anche vendere le «obbedienze» ai singoli maestri mediante «aste» ed
«appalti», realizzando così la costrizione al «lavoro per altri» (sull’argomento
cfr. L. GHEZA FABBRI, L’organizzazione del lavoro in una economia urbana.
Le Società d’Arti a Bologna nei secoli XVI e XVII, CLUEB, Bologna, 1988,
pp. 88-105).
[9] La
cui storia è stata meticolosamente commentata da G. JORLAND, Les paradoxes
du capital, Editions Odile Jacob, Paris, 1995, pp. 15-353.
[10] K. MARX, Il capitale. Libro terzo, Editori
Riuniti, Roma, 1965, p. 241.
[11] Qui si riprende anche il ragionamento sviluppato
in G. GATTEI, Per ritrovare il senso del “Capitale”, in “Proteo”, 2003,
n. 1, pp. 100-105.
[12] «Il venditore della forza-lavoro realizza il suo valore di scambio
e aliena il suo valore d’uso, come il venditore di qualsiasi altra merce» (K.
MARX, Il capitale. Libro primo, Editori Riuniti, Roma, 1964, p. 228).
[13] Per una presentazione storico-teorica
dei «prezzi di produzione» cfr. H. D. KURZ e N. SALVADORI, Theory of production.
A long-period analysis, Cambridge University Press, Cambridge 1995. Gli
autori così spiegano: i prezzi di produzione, «detti anche “naturali”, “normali”
oppure “prezzi ordinari”, sono stati concepiti come espressione delle forze
persistenti, non accidentali e non temporanee che governano il sistema economico,
distinguendosi così dai prezzi “correnti” o “di mercato” che riflettono invece
tutti i generi d’influenze, molte di natura accidentale e temporanea. Nella
letteratura i sistemi economici così considerati sono anche conosciuti come
“posizioni normali” o “di lungo periodo” dell’economia» (pp. 1-2).
[14] K. MARX, Il capitale. Libro terzo, Editori
Riuniti, Roma 1965, p. 256.
[15] Idem, p. 233.
[16] Idem, p. 240.