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Per la critica del capitalismo

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Giampiero Betti
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Lavoro vivo e pluslavoro in Italia. Per una misurazione teorico-statistica (prima parte)

Giampiero Betti

Giorgio Gattei

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Si tratta adesso di calcolare la redditività di questa economia, una redditività che può però assumere diversi significati. Il primo di tutto ’è la vitalità, che si definisce come la capacità di una economia di riprodurre un ammontare di beni superiore alla quantità esistente all’inizio del processo di produzione [1]. Se poi la produzione di questi beni (output) avviene mediante l’utilizzo degli stessi come beni-capitali (input), allora la vitalità dell’economia si può misurare direttamente in termini fisici, semplicemente sottraendo dall’ammasso dei beni prodotti (che supponiamo essere uno solo: Q) l’insieme degli stessi utilizzati per la produzione (che supponiamo essere uno solo: Qk). La differenza costituisce il «prodotto netto» Qn che sarà positivo per la condizione presupposta di «vitalità» di quella economia:

Qn = Q - Qk > 0

La stessa condizione di vitalità, espressa nei termini dei relativi prezzi di produzione, definisce il «prezzo (di produzione) del Netto»:

Qn p = Q p - Qk pk

E qui si pone la questione principale: da dove può mai scaturire questo «prezzo del Netto»? Ipotizzando una «funzione di produzione di merci a mezzo di beni-capitali e lavoro» [2], è ovvio che, avendo già tolto dal computo del prezzo del Netto il valore dei beni-capitali impiegati, non resta come unico fattore produttivo necessario al suo sorgere che quel lavoro diretto (d’ora in poi «lavoro vivo») che è stato richiesto per produrlo. Le due grandezze sono quindi economicamente equivalenti, entrambe nel proprio ordine di rappresentazione: quello che appare sul mercato delle merci prodotte come il «prezzo del Netto», nel processo lavorativo si presenta invece come quantità di «lavoro vivo». È così possibile esprimere la equivalenza di neovalore, che è poi tutta la sostanza della «nuova interpretazione» della “trasformazione” [3]:

Qn p = L

Essa mostra come il prodotto netto, espresso nei termini del proprio prezzo di produzione, risulta equivalente all’ammontare del lavoro vivo necessario a produrlo, espresso nella propria unità di misura (le ore di lavoro)  [4].

Tuttavia il «prezzo del Netto», così ottenuto dopo aver dedotto dal ricavo complessivo il prezzo delle merci impiegate come mezzi di produzione, non è interamente a disposizione del capitale. Infatti una sua parte deve recuperare l’ammontare del salario W anticipato alla forza-lavoro e quindi è soltanto la differenza, che ne misura il profitto, ad essere effettivamente disponibile. L’equazione del profitto risulta allora dalla differenza contabile:

Qn p - W = Profitto

A sua volta anche il lavoro vivo si può marxianamente suddividere nelle due parti del «lavoro necessario» Ln, ossia nella parte di lavoro destinata alla produzione delle merci necessarie al benessere della forza-lavoro, e nel «pluslavoro» inteso come eccedenza del lavoro vivo sul lavoro necessario [5], così che l’equazione di pluslavoro viene ad esprimersi nella forma:

L - Ln = Pluslavoro

Si tratta adesso di porre a confronto le due definizioni di profitto e pluslavoro a somiglianza dalla precedente equivalenza posta tra «prezzo del Netto» e lavoro vivo. Partiamo alla rovescia: si può ipotizzare qualcosa di equivalente tra il monte-salari e il lavoro necessario?

La considerazione è naturalmente aggregata, ossia valida solo per l’economia nel suo complesso. All’inizio del processo produttivo sul mercato della forza-lavoro viene contrattato il salario monetario con il quale i capitalisti acquistano il diritto di utilizzare la forza-lavoro all’interno della produzione (nell’ipotesi di un salario uniforme, il monte-salari complessivo risulterà pari al prodotto del salario orario per il numero dei lavoratori occupati). Al termine del processo di produzione i lavoratori (supponendo che sia nulla la loro propensione al risparmio) spenderanno l’intero monte-salari nell’acquisto delle merci reputate necessarie al loro benessere. Naturalmente quantità e qualità di questi «beni-salario» dipenderanno dal prezzo di produzione a cui le merci vengono vendute e quindi non possono essere note finché l’acquisto non è stato condotto a termine; ma come che sia i lavoratori potranno acquistare col monte-salari i beni che a loro interessano soltanto traendoli dal «prezzo del Netto» e senza esaurirlo completamente altrimenti non ci sarebbe margine per il profitto. Così il monte-salari arriva ad acquistare solo una porzione (α < 1) del «prezzo del Netto»:

W = α Qn p

Se questa percentuale, che si determina alla fine del processo di produzione, è proprio quella che i lavoratori si aspettavano d’acquistare, essi saranno quantitativamente soddisfatti di aver così realizzato il proprio salario monetario. Tuttavia può darsi che le loro aspettative quantitative vengano disattese e che, avendo previsto una porzione del prodotto netto pari ad αe, si trovino a mettere le mani solo sulla porzione α < αe. Ma ciò può risultare possibile solo perché dalla equivalenza:

W = α e Qn pe = α Qn p

nella quale monte-salari monetario e prodotto netto sono grandezze date, risulta che i prezzi di produzione a cui vengono effettivamente vendute le merci prodotte sono maggiori di quelli che avevano previsto i lavoratori, ossia che p > pe. È quindi il rincaro dei prezzi ad impedire ai lavoratori di soddisfare le proprie aspettative quantitative di prodotto netto [6].

Ma qui interessa la logica effettiva d’equilibrio e non il confronto con le previsioni. E allora, posta la porzione di prodotto netto su cui i lavoratori riescono effettivamente a mettere le mani con il monte-salari, sulla base della «equivalenza di neovalore» precedentemente discussa trova corrispondenza quella porzione in una parte (percentualmente la medesima) del lavoro vivo complessivamente erogato:

α Qn p = α L

È questa la porzione di lavoro vivo che possiamo chiamare «lavoro indisponibile», oppure alla Marx lavoro necessario, «poiché la classe lavoratrice in generale deve intanto lavorare la quantità di tempo di lavoro necessaria per conservarsi in vita, prima di poter lavorare per altri» [7]. Ma questa porzione è necessaria «anche dal punto di vista del capitalista, in quanto l’intero rapporto capitalistico presuppone l’esistenza continua della classe lavoratrice, la sua ininterrotta riproduzione e la produzione capitalistica ha per sua presupposto necessario la continua disponibilità, conservazione e riproduzione di una classe lavoratrice» [8].

E la parte di lavoro vivo che resta invece a disposizione del capitale dopo la deduzione del lavoro necessario a che sarà mai equivalente? Seguendo lo stesso ragionamento è facile provare che questa eccedenza di lavoro vivo (marxianamente pluslavoro) non può che coincidere con la parte del «prezzo del Netto» che resta a profitto. Infatti:

Pluslavoro = L - α L = Qn p - αQn p = Qn p - W = Profitto

Così quanto si presenta al momento del realizzo delle merci prodotte come profitto trova ragione nel processo di produzione da una differenza di ore di lavoro: sono quelle ore del lavoro vivo complessivamente erogate dalla forza-lavoro che superano le ore di lavoro necessarie alla produzione della porzione del prodotto netto che la forza-lavoro arriva ad acquistare con il monte-salari complessivamente pagatogli dal capitale. E questa differenza è il pluslavoro «che sorride al capitalista con tutto il fascino di una creazione dal nulla» [9].

 

3. «Prezzo del Netto» e Lavoro vivo in Italia.

Quando si passa dall’analisi teorica alla quantificazione statistica si presenta un problema. Quando va bene, si è soliti rimproverare alla Critica dell’economia politica di limitarsi a descrivere concettualmente il fenomeno dello sfruttamento senza arrivare a tradurlo empiricamente. Infatti, se è naturale che la teoria produca e utilizzi costrutti analitici astratti, questi non dovrebbero prima o poi trovare una corrispondenza nei dati reali, così da farsi anche concretamente veri? Certo che sì. Ma come si possono quantificare grandezze economiche quali il valore e il plusvalore? Il salario o l’occupazione si possono ritrovare nei dati della contabilità nazionale, ma lo sfruttamento? Si sostiene (alcuni sostengono) che esiste; si percepisce (alcuni percepiscono) che c’è, ma la sua misura oggettiva sfugge al calcolo, restando così una variabile che, se può interessare qualcuno, non arriva però mai a convincere tutti. Quanto differente è stata invece la ricaduta empirica della macroeconomia keynesiana! Elaborata teoricamente negli anni ’30, essa ha poi dato luogo alla rilevazione statistica dei dati sul reddito, i consumi, gli investimenti e quant’altro fino a creare una disciplina apposita, la Contabilità nazionale per l’appunto, che ha il compito di raccogliere ed elaborare questi dati con ricadute sulle decisioni concrete di politica economica che sono a tutti evidenti [10].

Marx, invece... Al suo tempo, consapevole della necessità di «una conoscenza esatta e positiva delle condizioni in cui lavora e si muove la classe operaia» [11], aveva progettato una indagine statistica che fosse condotta dai lavoratori stessi, in quanto soltanto da costoro egli pensava di poter ricavare le informazioni necessarie a descrivere i «fatti e misfatti dello sfruttamento capitalistico» [12]. La sua intenzione era di «dimostrare come la produzione del plusvalore, la totalità delle forme di sfruttamento capitalistico, si ripercuotessero sui produttori immediati, come da essi fossero sperimentati e subiti fisicamente, psichicamente ed intellettualmente» [13] ed allo scopo aveva predisposto un formulario di 100 domande sulle condizioni di lavoro e di resistenza operaia che la “Revue socialiste” distribuì in 25.000 esemplari nel 1880. Ne ritornarono compilati però appena un centinaio, così di che di quella prima «inchiesta operaia» non si fece nulla.

L’idea venne resuscitata nel 1965 dalla rivista “Quaderni rossi” con l’intenzione di prendere conoscenza della nuova realtà del lavoro “fordista” nel frattempo sopraggiunta [14], mentre recentissimamente una «inchiesta di classe» è stata effettivamente portata a termine da CESTES-”Proteo” (cfr. S. Cararo, M. Casadio, R. Martufi, L. Vasapollo, F. Viola (a cura di), La coscienza di Cipputi. EuroBang/3. Inchiesta sul lavoro: soggetti e progetti, MediaPrint, Roma, 2002). È questo un risultato certamente notevolissimo, che però rischia di restare al margine della considerazione quantitativa dello sfruttamento perché portato avanti da un proponente non ufficiale come CESTES-”Proteo” (ma questo sarebbe il meno), ma soprattutto perché la descrizione dello sfruttamento resta affidata alla sola percezione dei soggetti, che vengono interrogati tramite interviste. Non è un caso che il titolo dell’inchiesta parli della «coscienza», e non dell’esistenza, di Cipputi [15]. Siamo così forse condannati a vedere la Critica dell’economia politica sfuggire alla quantificazione empirica perché priva di corrispondenza nei dati della contabilità nazionale oppure restare relegata al territorio della soggettività dei sondaggi demoscopici? Non lo crediamo affatto, come si cercherà di provare nelle pagine che seguono. Ma prima è necessaria una premessa.

Supponiamo che quell’economia, che teoricamente abbiamo descritto nel paragrafo precedente, sia nel concreto l’Italia. Ci poniamo la domanda: è possibile misurare statisticamente le variabili economiche cruciali che sono state poste nella «equivalenza di neovalore» (ossia il «prezzo di produzione del Netto» e il lavoro vivo) e poi quelle che ne derivano, ossia il lavoro necessario e il pluslavoro? Nella loro precisione analitica ciò non è possibile, non essendoci serie statistiche che misurino simili variabili economiche. Però a questo riguardo suona opportuna una indicazione espressa una volta da Piero Sraffa quando ebbe occasione di sottolineare (al congresso dell’International Economic Association tenutosi a Corfù nel 1958) «la differenza tra due tipi di misurazione»: quella a cui sono interessati gli statistici e la misurazione in teoria. Ora, mentre «le misure teoriche richiedono una precisione assoluta», dato che «qualsiasi imprecisione in queste misure teoriche non è semplicemente fastidiosa, ma distrugge le basi dell’intero edificio teorico», «le misure degli statistici sono solo approssimate e costituiscono un buon campo di lavoro per la soluzione di problemi di numeri indici» [16]. Che ci sta dicendo allora Sraffa? Che, mentre per le definizioni teoriche dobbiamo essere assolutamente certi del loro rigore logico a pena del fallimento dell’analisi, nella rilevazione empirica è consentita una certa approssimazione, che è poi l’unica che ci consente di calare nel concreto il rigore dell’astrazione. Così, se non è dato ritrovare nelle serie statistiche «prezzi di produzione» o pluslavoro nella loro precisione teorica, è però permesso ricorrere a dati disponibili che richiamino all’incirca quelle grandezze dando così, se non proprio la misura esatta, almeno una idea della loro dimensione.


[1] In verità la definizione esatta di “vitalità” è più blanda: «una configurazione produttiva si dice vitale se è in grado di riprodurre la quantità di ciascuna merce indispensabile in misura almeno pari alla quantità complessivamente impiegata di ciascuna di esse in tutti i processi che producono le merci indispensabili» (G. CHIODI, Teorie dei prezzi, Giappichelli, Torino, 2001, p. 40). Come si vede, si considera “vitale” anche una configurazione produttiva che riproduce soltanto esattamente le merci consumate. Qui si fa invece l’ipotesi che se ne producano di più.

[2] Naturalmente abbiamo ben presenti tutte le difficoltà che si pongono nella costruzione di una funzione macroeconomica della produzione (cfr. G. COLACCHIO e A. SOCI, On the aggregate production function and its presence in modern macroeconomics, in “Structural change and economic dynamics”, 2003, n. 14, pp. 75-107), ma quanto esposto nel testo ha funzione puramente indicativa.

[3] I suoi “fondatori” sono stati Gerard DUMENIL (a partire da De la valeur aux prix de production, Economica, Paris, 1980) e Duncan FOLEY (a partire da The value of money, the value of labor power and the Marxian transformation problem, in “Review of radical political economics”, 1982, n. 2, pp. 37-47). I due testi citati non hanno ancora trovato traduzione italiana.

[4] Come da tempo scritto da S. PERRI (in Prodotto netto e sovrappiù. Da Smith al marxismo analitico e alla «new interpretation», UTET, Torino 1998, p. 212), «ci sembra che almeno un aspetto della problematica relativa alla “sostanza” del valore possa essere affrontata in termini rigorosi senza sollevare particolari problemi metodologici: quello del confronto tra quantità di lavoro contenute in determinati aggregati di merci e la valutazione delle stesse quantità ai prezzi di produzione». Però il confronto, per essere indiscutibile, non può riguardare (come invece è stato sempre fatto) il prezzo di produzione del «prodotto lordo» ed il quantum di lavoro «vivo e morto» necessario a produrlo. Esso va posto - e solo allora è inoppugnabile - tra il prezzo di produzione del prodotto netto e il solo lavoro vivo.

[5] È stato questo il principale apporto analitico della Critica dell’economia politica che discende da quella distinzione fondamentale tra «lavoro» e «forza-lavoro» che non era stata invece percepita dagli economisti precedenti a Marx.

[6] L’argomento, cui qui si accenna soltanto, è stato discusso da R. BELLOFIORE, R. REALFONZO, Finance and the labour theory of value: towards a macroeconomic theory of distribution from a monetary perspective, in “International Journal of Political Economy”, 1997, n. 2, pp. 97-118; G. FORGES DAVANZATI, R. REALFONZO, Wages, labour productivity and unemployment in a model of monetary theory of production, in “Economie appliquée”, 2000, n. 4, pp. 117-138; R. BELLOFIORE, G. FORGES DAVANZATI, R. REALFONZO, Marx inside the circuit: discipline device, wage bargaining and unemployment in a sequential monetary economy, in “Review of Political Economy”, 2000, n. 4, pp. 403-417. Attende adesso di essere “voltato” in italiano.

[7] K. MARX, Manoscritti del 1861-63, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 181.

[8] Idem, pp. 176-177.

[9] K. MARX, Il capitale. Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1964, p. 250. È curioso che in un recente articolo anche Ernesto Screpanti, dopo aver definito impropriamente lo sfruttamento capitalistico come differenza tra la produttività media del lavoro ed il salario (entrambi misurati in termini di prezzi), abbia poi sentito il bisogno di “tradurlo” in una differenza del «lavoro comandato» sul «lavoro contenuto», così da ricavarne una espressione che «si presenta come un rapporto tra due quantità di lavoro». Ne segue che i capitalisti fanno profitto quando «possono comandare al termine della produzione più lavoro di quanto ne hanno comandato nella produzione stessa, più lavoro per avviare un nuovo processo produttivo di quanto ne è stato usato nel vecchio processo» (E. SCREPANTI, Valore e sfruttamento: un approccio controfattuale, in “Proteo”, 2001, n. 3, p. 53). A prescindere dal percorso logico, che cosa manca in tutto questo rispetto alla conclusione raggiunta nel testo? Soltanto il termine «pluslavoro».

[10] Nel suo piccolo, perfino la teoria del «surplus economico» di Baran e Sweezy ha provato a darsi una veste statistica, come si può vedere in J. D. PHILLIPS, La stima del surplus economico, in P. A. BARAN e P. M. SWEEZY, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino, 1968, pp. 309-329.

[11] K. MARX, L’inchiesta operaia, Laboratorio politico, Napoli, 1995, p. 48.

[12] Idem.

[13] V. HUNECKE, Statistiche operaie borghesi e proletarie nel secolo XIX, in “Studi storici”, 1973, n. 2, p. 399.

[14] Cfr. l’intero numero Intervento socialista nella lotta operaia, “Quaderni rossi”, 1965, n. 5.

[15] Quando, al primo convegno dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori (Ginevra, 1866) si lanciò l’idea di una «statistica delle condizioni delle classi operaie», ciò fu fatto proprio allo scopo di «sviluppare presso gli operai dei differenti paesi, non soltanto il sentimento, ma anche il fatto della loro fraternità» (cfr. C. LABARDE (a cura di), La Première Internationale, Union Générale d’Editions, Paris, 1976, p. 74. Corsivi nel testo).

[16] P. SRAFFA, in F. A. LUTZ e D. C. HAGUE (a cura di), The theory of capital, Macmillan, New York, 1961, p. 305.