Le assurde dinamiche attuali dello sviluppo capitalistico. La questione in Irak è l’imperialismo
Max-Fraad Wolff
Rick Wolff
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Talvolta, i fondamentalisti rovesciarono le oligarchie quando
le loro alleanze si ruppero. Era allora possibile che i fondamentalisti si
confrontassero con un imperialismo americano deluso dalla disfatta dei suoi
alleati oligarchi e deciso ad obbligare i nuovi regimi fondamentalisti a
comportasi come gli oligarchi prima di loro. Quando ciò non era possibile, o
non era possibile immediatamente, come in Iran, gli USA potevano intervenire
militarmente o stimolare (e finanziare) uno dei suoi alleati nel Medio oriente a
fare ciò: ad esempio la guerra tra Iran e Iraq. I fondamentalisti, quando
riuscirono nelle loro crociate ben finanziate contro i socialisti e comunisti
all’estero, scoprirono che non erano più necessari e non avrebbero più
ricevuto finanziamenti. Per esempio, in Afghanistan, dopo aver sconfitto il
regime pro-Sovietico, i fondamentalisti si sentirono traditi e abbandonati dagli
USA. La loro crociata si rivolse allora contro gli USA e culminò negli attacchi
dell’11 Settembre 2001.
Spinti da diverse pressioni sia domestiche che estere,
occasionalmente alcuni oligarchi presero dei sentieri indipendenti dagli USA. Se
ciò creava delle difficoltà per iniziative di politica estera americana
concorrenti, creava problemi interni al governo americano, o si scontravano con
il disegno imperialista americano, veniva intrapresa un’azione correttiva. Gli
USA potevano allora intervenire direttamente, come successe all’Iraq nel 2001,
ai Talebani nel 2002, e più recentemente di nuovo all’Iraq. Spesso in questi
casi, oligarchi che precedentemente erano stretti alleati dell’imperialismo
americano - come Saddam Hussein - rischiarono di essere ridefiniti rapidamente
come demoni Hitleriani che minacciavano il mondo.
Lo sviluppo economico diseguale, i cambiamenti negli
allineamenti politici all’interno di, e tra, paesi nel mondo, e i movimenti
culturali globali in continuo movimento hanno introdotto continuamente delle
contraddizioni nel contesto e nel meccanismo dell’imperialismo USA. Così, per
esempio, il crollo dell’Unione Sovietica e del socialismo dell’Est Europeo
in genere dopo il 1989 (e cambiamenti simili in Cina) alterarono l’imperialismo
USA nel Medio Oriente e altrove. Le alleanze tra i nazionalisti e i socialisti
che erano sopravvissute alle crociate contro di loro fatte dalle alleanze tra
gli oligarchi e i fondamentalisti persero ogni supporto (economico, politico e
ideologico) che erano riuscite ad ottenere dall’Unione Sovietica e dalla Cina.
Per tutti gli anni ‘90, una sinistra non impegnata, demoralizzata e ampiamente
distrutta cambiò i propri calcoli politici nel Medio Oriente. Per gli oligarchi
(e per gli USA) c’erano meno vantaggi e più costi derivanti dalle loro
alleanze con i fondamentalisti che erano ora meno necessari. I loro patroni
precedenti sperarono che il fondamentalismo si sarebbe convenientemente
trasformato in una religiosità socialmente passiva. Mentre la politica
americana spengeva in quella direzione, gli ideologi americani ridefinirono
sempre più i precedenti “eroici combattenti per la libertà” come “fanatici
religiosi” oppure “fanatici anti-Americani e anti-Cristiani”.
I fondamentalisti considerarono la perdita di appoggio e il
peggioramento della loro reputazione negli USA come un tradimento. Lungi dal
diminuire, la loro crociata contro il secolarismo, Israele, e gli Stati e le
società che loro consideravano come insufficientemente islamici, il rancore
aumentò. Con meno aiuto americano da perdere, identificarono gli USA sempre di
più e sempre più apertamente come la potenza in ultima istanza dietro Israele,
il secolarismo globale, e gli oligarchi che non condividevano la loro dedizione
fondamentalista. Da alleati, essi divennero ostacoli per l’imperialismo USA.
Una serie di schermaglie emerse tra gli avversari emergenti. Da una parte vi
erano gli oligarchi alleati con gli USA (anche se necessità politiche interne
mosse alcuni di essi a aiutare apertamente o no il fondamentalismo) mentre dall’altra
parte vi era un estremo fondamentalismo, sempre più violento e infuriato.
Questa polarità sempre più profonda produsse gli attacchi dell’11 Settembre
2001.
3.2. L’imperialismo USA dopo l’11 Settembre 2001
La distruzione del World Trade Center e i danni al Pentagono
dimostrano ben di più della incapacità del governo Bush (CIA, FBI, l’apparato
militare, ecc.) di anticipare, prevenire o intercettare gli attacchi. Essi
focalizzarono anche l’attenzione sul nuovo e attuale ostacolo/nemico dell’imperialismo
USA. E, ancora più importante, gli attacchi offrirono a Bush una opportunità
eccezionale per mobilitare il sostegno per un imperialismo americano aggressivo,
militarizzato, e promosso dallo Stato. Ciò era stato a lungo richiesto ma senza
risultati dall’ala di destra del Partito Repubblicano e dai suoi sostenitori
imprenditoriali. Le sfide precedenti all’imperialismo USA dalla Cina, Corea,
Cuba, Vietnam, ecc. non erano state affrontate secondo loro con successo da una
azione statale sufficientemente aggressiva (cioè militare). Ora essi avevano
preso il potere statale (cosa fatta precedentemente da Reagan) e avevano a loro
disposizione un attacco agli USA da usare per la necessaria mobilitazione (cosa
che non era riuscita al governo Reagan). Una “guerra contro il terrorismo”
senza limiti poteva funzionare come un’arma di distrazione di massa, come una
distrazione dal fallimento di Bush di prevenire gli attacchi (o di catturare Bin
Laden, o di distruggere il fondamentalismo). Allo stesso tempo, poteva essere
usato come la maschera culturale per nascondere l’impulso dell’imperialismo
USA di assicurarsi le proprie basi e i propri piani sotto le nuove circostanze
globali e di minimizzare il dissenso interno.
Ne seguì una demonizzazione tipica, anche se maldestra e
confusa, in cui Bin Laden, al-Qaeda, i Talebani, e Saddam Hussein divennero i
protagonisti. Al fine di sottolineare la rete di ostacoli all’imperialismo USA
che prima o poi doveva essere rimossa, Iraq, la Corea del Nord, Iran e altre
nazioni furono raggruppate nell’”asse del male”. Questa demonizzazione
distorse grossolanamente, o semplicemente ignorò, le grandi differenze e
persino gli scontri tra questi “membri dell’asse”. Ad uso politico
interno, le immagini dominanti dipinsero i terroristi come anti-americani,
anti-cristiani, anti-democratici, e anti-semiti alleati nella distruzione degli
USA tramite una guerra biologica, chimica e atomica fatta da maniaci suicidi.
Bush articolò una “guerra contro il terrorismo in ogni parte del mondo”,
una guerra interventista e indefinitamente lunga al fine di mascherare la
prossima, e la più globale, fase dell’imperialismo USA. La giustificazione
era non tanto la classica “missione civilizzatrice” (anche se questa tesi
rimane) quanto una semplice “auto-difesa” in cui l’”auto” si estende
al di là della stessa “civilizzazione” americana. Questa ultima asserzione
è poi usata per far pressione su tutte le organizzazioni internazionali - le
Nazioni Unite, la NATO, la UE, e altre ancora - per associarsi o perlomeno
appoggiare e contribuire al finanziamento della “guerra” degli USA “contro
il terrorismo” pena il rischio di diventare politicamente irrilevanti o
persino di sparire.
La prima priorità, dettata sia dalla politica interna USA
che dalla strategia imperialista, fu un’azione militare contro un ostacolo
debole, facilmente isolato, e militarmente senza difesa come i Talebani. La
seconda scelta del governo Bush, Saddam Hussein, risultò essere meno debole,
meno facilmente isolata, ed un molto più costoso ostacolo/obiettivo per l’imperialismo
USA. Dopo l’Iraq, sembra che vi siano azioni contro altri governi che sono
già state pianificate o addirittura già messe in azione, sia apertamente o
occultamente: per esempio la Corea del Nord, la Siria, Cuba, Venezuela, Zimbawe,
Libia e Iran. Addizioni, sottrazioni e cambiamenti nella scala di importanza dei
diversi obiettivi terranno occupati gli strateghi americani della guerra al
terrorismo e forniranno abbondante materiale per l’industria ideologica
imperialista: la produzione di discorsi politici, di rapporti scritti da
istituti di ricerca, di studi accademici, e delle montature giornalistiche dei
media. La missione globale per concedere la “democrazia” dappertutto -
specialmente dove i governi sono stati più completamente demonizzati come non
democratici - sarà la vernice tematica unificatrice su tutto. Dappertutto, gli
ambasciatori USA faranno pressione molto apertamente per elezioni e sistemi
parlamentari e molto meno apertamente per il modello USA nel quale queste
istituzioni dipendono per la massima parte dalla grande industria sia locale che
multinazionale.
3.3 I veri obiettivi della guerra: la competizione per poli
geopolitico-economici
La guerra contro l’Iraq illustra sia i contorni generali
dell’ imperialismo USA che le sue contraddizioni. Come sempre, il capitalismo
USA si trova a dover fronteggiare delle contraddizioni: da soprainvestimenti
irrazionali - che producono più merci di quanto non possano essere vendute ai
profitti desiderati a lavoratori alienati che resistono la pressione per maggior
produttività - a livelli senza precedenti nella storia di debiti delle famiglie
e delle imprese. Come sempre, una parte della soluzione a questi problemi è
identificata nelle opportunità all’estero di aumentare i profitti attraverso
esportazioni, importazioni, debiti esteri, investimenti all’estero. Perciò,
il mondo degli affari, la politica, e l’industria ideologica americani devono
identificare e dare una graduatoria a ciò che viene percepito come ostacolo per
le imprese USA di avvantaggiarsi pienamente di tali opportunità.
Contro-strategie economicamente efficienti devono essere escogitate e messe in
opera contro gli altri poli avanzati. Misure economiche, politiche (sia militari
che no) e culturali saranno soppesate e scelte. Le pratiche del passato saranno
valutate e aggiornate per essere messe in campo ora. Nuove politiche - rese
possibili dalla tecnologia e rese necessarie dalle nuove condizioni - saranno
aggiunte all’arsenale imperialista.
La guerra contro l’Iraq ha dimostrato che quattro sono i
poli che coglieranno l’attenzione negli anni a venire: l’Unione Europea, il
Giappone, la Russia e la Cina. Le loro diverse capacità economiche, politiche e
militari di perseguire le strategie imperialiste che emergono dai loro
capitalismi sia privati che di Stato pongono problemi sia attuali che potenziali
per i bisogni espansionistici dell’imperialismo americano. Per di più,
possibili alleanze (tra queste quattro entità o con altre nazioni) limitano o
minacciano di ostacolare le ambizioni imperialiste degli USA. Questi ostacoli
sono emersi apertamente nelle gravi divergenze di opinioni sulla guerra contro l’Iraq
ma esse erano già affiorate precedentemente per quanto riguarda accordi
tariffari, ripartizioni di mercati, concessioni di condutture petrolifere, la
protezione delle condizioni ambientali globali, e altre questioni. Nel 2003,
campagne di demonizzazione negli USA hanno già incluso negli obiettivi la
Francia e la Germania. Il capitalismo americano, le cui interazioni economiche
con i capitalismi europei e asiatici sono reciprocamente vantaggiose, deve allo
stesso tempo fronteggiare le contraddizioni che emergono dalla competizione dei
loro interessi e dagli scontri delle loro espansioni imperialiste.
Parimenti, contraddizioni interne e dibattiti affliggono l’imperialismo
americano. Quegli imperialisti che preferiscono meccanismi economici,
diplomatici e culturali lottano contro tali poli geopolitico-economici e contro
chiunque desidera giocare la partita a scapito della preponderanza militare
americana. Perciò, i ‘falchi’ del regime Bush-Rumsfeld insistono sul fatto
che i fallimenti dei governi precedenti dipendevano dal non utilizzare
pienamente quella preponderanza nel passato (in Vietnam, Iraq, Iran e altrove) e
ciò comportò perdite inutili e costose per gli “interessi USA”. L’altro
lato del dibattito politico convenzionale negli USA si preoccupa dei rischi
ancor maggiori comportati dallo strafare militare americano. Mentre i
capitalisti e i governi multinazionali del mondo si alleano sia con l’uno o
con l’altro lato, in genere a seconda della loro valutazione su chi potrebbe
meglio servire i loro interessi, il risultato del dibattito dipende dalla
miriade di fattori che sovra-determinano i diversi partecipanti al dibattito.
4. Contraddizioni, controtendenze e movimenti di massa
Come sempre, tra questi fattori vi sono l’emergere e la
forza dei movimenti di massa anti-imperialisti. La loro importanza - negata e
sminuita da così tanti seguaci dell’imperialismo prima che decine di milioni
di cittadini di tutto il mondo hanno manifestato il 15 Febbraio del 2003 - è
stata riaffermata da quel momento in poi. Come la guerra contro l’Iraq ha
mostrato di nuovo, l’imperialismo ha sempre rischi e costi imprevedibili che
sono distribuiti in maniera molto diseguale tra i cittadini di entrambi i lati
del conflitto imperialista. Diversi gruppi di elettori possono formare
coalizioni ben in grado di influenzare, per esempio, il risultato della lotta
tra “falchi’ e ‘colombe’. Un’altra possibilità è che la struttura di
classe capitalista che è alla radice dell’imperialismo contemporaneo incontri
le proprie contraddizioni nella forma di recessioni sia nazionali che globali. I
costi delle - e le alternative alle - politiche e guerre imperialiste possono
essere percepite in modi differenti in condizioni di recessione.
Guardando al dopo-2003 e considerando la recessione economica
globale che persiste ancora dopo tre anni, si possono scorgere segni di un
risorgere di alleanze nazionaliste e socialiste. Gli spostamenti politici in
America Latina ( specialmente in Brasile e Venezuela ma anche altrove) che
rendono più difficile la vita per l’imperialismo USA in quei paesi,
prefigurano spostamenti globali? Potrebbero le nazioni islamiche prendere la
stessa via? Mentre queste possibilità attirano l’attenzione strategiche dei
leader giapponesi, europei, russi e cinesi, preoccupati dalle rivalità
inter-imperialiste e dalla militarizzazione di Bush dell’imperialismo
americano, quali nuove e rimarcabili alleanze potrebbero svilupparsi?
Tra tutte le contraddizioni e complicazioni oltre a quelle
poche che sono state discusse più sopra, un punto chiave conserva un’importanza
centrale. Coloro che sono preoccupati dalla strategia militarizzata imperialista
del regime di Bush (accoppiata, come sempre, alle ‘patriottiche’ restrizioni
dei diritti civili e del dissenso interni) saranno capaci di andare oltre al
rifiuto delle politiche dei ‘falchi’ e a favore di quelle delle ‘colombe’?
Questa volta, saranno capaci di mettere in dubbio e criticare gli impegni di
entrambe verso l’impero USA e verso quella struttura di classe capitalista per
cui l’imperialismo è sempre all’ordine del giorno?