Desiderio di un altro mondo o desiderio di un mondo diverso?
Sergio Piro
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Sono state considerate dalla letturatura inerente numerose
variabili descrittive, interpretative ed euristiche del desiderare. Vi
si aggiungono, come elemento indispensabile, le pp. 242-246 del vol. IV (1966)
del Grande dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia
relative a desiderare-desiderato, nella convinzione che il riferimento
lessicale e filologico dei termini usati sia - nelle scienze antropologiche in
generale - non solo genericamente utile, quando anche ricco di insegnamenti,
di suggerimenti, di ipotesi di ricerca. Si estrae (da p. 242) una delle molte
accezioni di desiderare: “...sperare in un evento e sforzarsi (a
volte solo con l’immaginazione) di attuarlo o di adoperarsi acché si
realizzi”.
A. Utilizzando questa variante (il desiderio come
speranza e/o come sforzo), di fronte all’angoscia di
sopravvivenza del mondo e della specie che ha inondato gli scantinati dell’umanità
di questo tempo, il desiderio di un altro mondo è generica speranza
di salvezza, mentre il desiderio di un mondo diverso è progetto
politico generale, sforzo di attuarlo o di adoperarsi acché si
realizzi, passaggio alla prassi. Qui dunque desiderio significa, insieme, sentire
- essendovi dentro, facendone parte - l’accadere del mondo, per poi farsi,
eventualmente, accadimento trasformazionale del mondo.
B. In questo transito epocale le genti di questo pianeta
sono gettate nel sentimento sempre più diffuso di un pericolo
crescente, nella percezione di una minaccia sempre più grave alla
sopravvivenza della specie.
Si alternano nel sottofondo antropico di questo momento, in
modo spesso non esplicito eppur da ogni parte affiorante, la sospesa
apprensione, l’attesa di una catastrofe imminente, la previsione di una
sofferenza estrema o di una distruzione dell’umanità.
Come dissennati profeti di sciagura, gli schizofrenici
della parte centrale del secolo ventesimo sentirono tutto questo e vi dettero
una loro espressione che allora ascoltammo con rispetto e che adesso nessuno
vuol sentire più, nonostante che essi forse continuino a pronunziarlo. Si
ricordano qui fra gli Erlebnisse schizofrenici:
• la sospesa apprensione, Wahnstimmung di Hagen
(si rimanda a Callieri e Semerari 1959);
• l’attesa immobile che non finisce mai;
• la spersonalizzazione e la derealizzazione (si
rimanda a Callieri e Felici 1968);
• l’esperienza di stato di assedio;
• l’Erleben della catastrofe imminente (Katastrophale
Stimmungstönung des Erlebens di Müller-Suur);
• la grande crisi del mutamento, della trasformazione e della
catastrofe: Prozess-symptom di Mauz; mutamento pauroso di Coppola);
• il sentimento di sprofondamento dinamico del mondo (Weltuntergangserlebnis
di Wetzel: cfr. Callieri 1955);
• etc.
Gli schizofrenici dei decenni centrali del secolo ventesimo
anticiparono dunque - in qualche modo - il sentimento di catastrofe cosmica e
antropica in cui siamo gettati a vivere in questo momento della storia.
Se è vero che certi aspetti della psicopatologia rivelano
strati profondi e sedimenti antichi di una comunità e di una tradizione, la
superstizione metafisica, il pensiero magico e rituale, la logolatria e l’aritmolatria
dei pazienti psichiatrici contengono tutti - in compresenza - l’intuizione
della fine del mondo: il Weltuntergangserlebnis degli schizofrenici
sembra, insieme, il ricordo di eventi storici antichissimi e la profezia di un
futuro vicinissimo.
Mille anni fa, terribile e suggestiva, gotica e dark,
avvolta dai fumi e dai miasmi del più profondo medioevo, l’umanità
cristiana si avvolse nella profezia di fine del mondo, si presentò nel
dominio buio e assoluto della colpa, della penitenza, dell’espiazione
totale, segnale sicuro della presenza persistente nel sottofondo
doxico-ideologico delle genti di allora dell’angoscia di distruzione totale,
della leggenda del diluvio universale, del racconto del bombardamento
termo-nucleare divino di Sodoma e Gomorra, dell’attesa dell’Apocalisse:
sentimenti profondi della collettività che sono ancora attivi e che formano
forse la base originaria, remota dell’odierno presentimento.
Fu quella di mille anni fa una profezia che non si avverò.
Ma oggi queste angosce profonde e irrazionali sono, in una girandola
paradossale, tutt’altro che immotivate: la fine del mondo o, più
propriamente, l’estinzione della specie è oggi un pericolo reale e non solo
un’angoscia metafisica o religiosa o superstiziosa come fu mille anni fa.
Coloro che sono più terrorizzati dalla possibilità della catastrofe non sono
le persone comuni, la gente in senso lato, gli scrittori di fiction,
bensì gli scienziati, i fisici, gli ecologi, i naturalisti, gli economisti,
gli statisti lungimiranti (quanto pochi!): e la loro angoscia non si attacca
come una peste mortale a una previsione millenaria, immotivata e assurda,
bensì ai calcoli, alle statistiche, ai dati dei loro strumenti, alle
previsioni, alle analisi di tendenza, a tutto l’apparato nomotetico della
ricerca rigorosa. E se coloro che si occupano di scienze della natura tremano
per la trasformazione di un pianeta, le cui condizioni materiali e le cui
caratteristiche fisiche sono sempre più alterate, coloro che si occupano di
scienze umane sono terrorizzati dall’epifania dell’inclinazione
autodistruttiva della specie. Ma anche ora, come mille anni fa, l’attesa, l’angoscia,
l’agitazione contagiano le genti di tutto il mondo in presagio oscuro e in
una consapevolezza lucidissima.
La catastrofica scena dell’attacco e del crollo delle
Twin Towers, ripetuta tutti i giorni, senza posa, dalle televisioni di tutto
il mondo in una tragica litania che non ha fine, annunzia la morte del mondo e
grida alla coscienza allarmata delle genti che l’ora è vicina. La sospesa
apprensione, la Wahnstimmung, il silenzio da incubo dello stato di
assedio degli anni novanta, cedono ora, nel nuovo millennio, al terrore
irrefrenabile della catastrofe totale, al panico, alla disperazione.
In coloro che vi sono gettati, al desiderio passivo e
platonico di un altro mondo subentra il desiderio attivo di un mondo
diverso, un mondo senza esclusione, senza catastrofi, senza sofferenza dei
popoli, senza massacro dei migranti, senza morti per fame e per sete, senza
guerra, senza fine del mondo.
C. Ma si torni un momento al tema iniziale. Si diceva della
differenza fra desiderio di un altro mondo e desiderio di un mondo
diverso. In questa prospettiva convenzionale il desiderio di un altro
mondo è:
• ipotetico e desiderativo (...vorrei sfuggire
al soffrire del mondo moderno, vorrei più pace, vorrei che la gente
diventasse migliore, vorrei che l’ONU risolvesse i problemi della fame,
della salute, delle malattie di tutti i popoli);
• generico e retrospettivo (...vorrei che
tornasse la serenità di un tempo; ...vorrei che il tempo tornasse
indietro);
• sognante (...vorrei andare a far vita
primitiva alle isole Marchesi, vorrei rifugiarmi nel Tibet o in un convento,
vorrei vivere lontano da tutto e da tutti);
• metafisico (...vorrei morire e andare in
Paradiso, cioè l’accezione più comune nella quale il sintagma “altro
mondo” è abitualmente usato);
• etc.
Pur rappresentando sovente la conseguenza del desiderio
di un altro mondo, il desiderio di un mondo diverso si
presenta subito come prassi, come gettatezza al di là.
Nel suo costituire uno sforzo, seguendo l’accezione
di Battaglia di cui s’è detto prima (il desiderio come speranza e/o come
sforzo), il desiderio di un mondo diverso è:
• concreto, perché in modo non eludibile
prevede operazioni di salvezza della specie;
• trasformazionale, perché intuisce o prevede
la necessità di trasformazione dell’esistente;
• antropologico o antropologico-sociale,
perché implica - sine qua non - un mutamento di mentalità, di
ideologie, di progettualità, di organizzazioni, di ordinamenti;
• politico nel suo tragitto protensivo da desiderio
a prassi, poiché non è perseguibile senza l’ipotesi di una
rivoluzione, per necessità pacifica, dell’attuale assetto economico,
politico, militare, ordinamentale e culturale del mondo;
• molteplice, perché numerose intenzioni
(o, meglio, protensioni per il loro gettarsi nel futuro), si
intrecciano, si sovrappongono e si mescolano in una molteplicità di
progetti differenti, talora perfino contaminatori e/o paradossali nel senso
tarskiano, del termine per la presenza appunto di protensioni
contraddittorie.
D. Parlare delle modalità e degli svolgimenti propriamente
politici del desiderio di un mondo diverso va al di là di un tema
specifico. Vi è un arco vastissimo di prassi politiche che vanno dagli
impegni più immediati di lotta all’esclusione, al razzismo, allo
sfruttamento globale, alla condizione delle popolazioni condannate a morire di
fame e di sete, alla superstizione e al fanatismo, all’AIDS, alla
distruzione ecologica, prassi che vanno qui ricordate perché sono tutte
conseguenza protensionale del desiderio di un mondo diverso.
Qui, ponendo l’attuale situazione di crisi e di pericolo
della comunità planetaria alla base del desiderio di un mondo diverso,
non si è voluto in alcun modo proporre una sorta di psicogenesi delle scelte
politiche trasformazionali e/o rivoluzionarie, legate - come è generalmente
inteso - a complesse situazioni sociali, economiche, personali di cui vi è,
da oltre duecento anni, esteso riferimento bibliografico in vari campi del
sapere, ma si è inteso sottolineare il carattere necessariamente globale del desiderio
di un mondo diverso e necessariamente radicale delle scelte di
trasformazione in questo grado epocale: portato ed espressione di una
situazione che è grave ora per tutta l’umanità e che fu ignota nei secoli
scorsi fino al giorno dell’esplosione di Hiroshima.
Il discorso sul desiderio di un mondo diverso si
ferma qui. Ma di un solo impegno, essenziale per la sopravvivenza, si dovrà
parlare prima di concludere: il rifiuto della guerra come mezzo per risolvere
i conflitti dell’umanità, dunque il desiderio di pace.
Le guerre ad altissimo potenziale distruttivo di questa
parte della storia, basate sulla ricorrenza moltiplicata degli stessi fattori
primordiali di possesso e di rapina, ma coinvolgenti ormai l’intera
popolazione terrestre, pongono in pericolo l’esistenza dell’umanità e
tracciano il panorama di un possibile suicidio della specie: la guerra che fu
necessaria dalla notte dei tempi per la sopravvivenza dell’orda conduce ora
- con un’inversione evolutiva tipica - all’estinzione.
La lotta telica alla guerra, lo scopo politico di un’umanità
pacifica ed unita non è un sogno utopistico, né un retorico atto d’amore,
né tanto meno una missione religiosa, bensì una rigorosa e immediata
necessità prassica per la salvezza della specie: la sua mutazione eirenica
è chiaramente l’unica che può garantirne la sopravvivenza. Ma è un
percorso trasformazionale di lotta, di tormento, di lutti, di catastrofi
ambientali inimmaginabili: la pace sta solo al di là di una tragedia di
dimensioni inimmaginabili, una tragedia di questa fase di un imperialismo
sfrenato come un’Apocalisse.
Qui, dunque, il desiderio è la salvezza, la via di un
mondo diverso è politica.
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