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Tendenze della competizione globale

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Marcos Costa Lima
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Prof.Dr. del Programma di Dottorato in Scienze Politiche dell’Università Federale di Pernambuco-Recife-Brasil. Attualmente compie studi di post-dottorato presso l’Università di Parigi XIII-Villetaneuse

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Il dominio dei brevetti e la globalizzazione diseguale

Marcos Costa Lima

Il ritardo tecnologico e le possibilità di sviluppo in America Latina attraverso il mercosud: opportunità in scienza e tecnologia

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“Sono convinto che ogni generazione di un paese sottosviluppato debba essere dotata di uno spirito anticonformista di forte intensità, e di più impazienza di quella che ha avuto la generazione precedente, allo stesso tempo deve studiare e lavorare molto e più a fondo, perché sia più competente e sia all’altezza di affrontare le sfide che non smette di lanciargli continuamente, ogni giorno che passa, il mondo, che si va sviluppando e va acquisendo maggior potere di soggiogamento”.

J. Leite Lopes

In: Ciência e Libertação

Presentazione

L’articolo tratta, principalmente, dell’importanza che il binomio Scienza e Tecnologia [1] è arrivato ad avere nel processo di globalizzazione, diventando una variabile centrale, che definisce il futuro delle nazioni [2]. Il tema è fortemente discusso, particolarmente attraverso la corsa delle grandi imprese al diritto della proprietà intellettuale, notoriamente nei settori farmaceutici e della biotecnologia [3], o legati alla salute umana, che rappresenta uno dei campi di maggiore interesse economico e di maggior investimento nella ricerca, per le opportunità future che offre.

Per Jeremy Rifkin, nel suo Secolo Biotecnico, i geni rappresentano l’”oro verde” della biotecnologia e dei gruppi economici e politici che hanno il controllo, o si stanno preparando ad avere il controllo, delle risorse genetiche del pianeta, ed eserciteranno in futuro un potere smisurato sull’economia mondiale, come, all’inizio dell’era industriale, il controllo dei minerali e dei fossili era la condizione necessaria per avere il controllo dei mercati mondiali (Rifkin, 1998: 84). In questo senso, giunge l’interrogativo: in che misura i governi dei paesi periferici tengono in considerazione il problema e quali iniziative hanno messo in pratica per ridurre l’impatto futuro?

Sviluppando questo argomento, si verifica, da un lato, che l’accelerazione dei mutamenti tecnologici possiede una forte polarizzazione a partire dalle economie sviluppate e, dall’altro, che i paesi della periferia, per quanto grandi siano i loro sforzi, non hanno raggiunto lo stesso ritmo dei primi: da ciò deriva, di conseguenza, una dinamica che approfondisce la non-convergenza tecnico-scientifica.

Questo articolo, nella sua prima parte, presenta una riflessione di tipo più astratto, teorico, in relazione all’appropriazione dei risultati della conoscenza da parte dei paesi ricchi e all’approfondimento della disuguaglianza tra i conflitti Nord-Sud, sebbene vengano ideologicamente neutralizzati da potenti apparati mediatici, che promettono l’inserimento dei paesi emergenti nel circuito della globalizzazione, e nei suoi livelli di consumo perché promuovano mutamenti strutturali, sia a partire da politiche macroeconomiche di aggiustamento, sia liberalizzando i loro commerci internazionali, attraverso la riduzione delle barriere doganali, o la deregolamentazione dei sistemi finanziari nazionali e la flessibilizzazione dei mercati del lavoro.

Discute, inoltre, su alcuni nuovi concetti, ancora problematici, come i “beni pubblici mondiali”, “l’interesse generale mondiale”, “la giustizia mondiale”, termini prima concepiti come formulazioni utopiche e oggi, dato l’avanzamento promosso dalle grandi multinazionali mondiali, concepiti come argomentazioni teoriche che apportano critiche all’attuale paradigma tecnico-scientifico, cercando di garantire la protezione del dominio pubblico dell’informazione e della conoscenza nella difesa dell’interesse generale. Il nucleo teorico di questa critica si trova in autori di diversi campi della conoscenza e del sapere, che propongono “un’altra globalizzazione” [4].

Nella seconda parte, si affronta la disputa sul campo internazionale delle TRIPs (Trade Related to Intelectual Properties), specialmente riguardo alla salute umana che concerne il settore farmaceutico e il rivoluzionario settore della biotecnologia; le caratteristiche che denotano questi settori, così come le risposte brasiliane per affrontare queste nuove sfide.

Nella terza parte, il ritardo tecnologico dell’America Latina ed in particolare gli sforzi sviluppati dal Mercosud, soprattutto nel campo della Biotecnologia, che ancora non sono soddisfacenti nella battaglia per il superamento della dipendenza.

1. In cerca di una visione sistematica, o l’urgenza di un altro paradigma

L’accelerazione dei processi di mutamento della produzione di scienza e tecnologia, e la diffusione di innovazioni radicali, hanno suggerito ad un gruppo significativo di autori che ci troviamo in una fase di passaggio a un’era di informazione e conoscenza, evidente, soprattutto, nei paesi che comandano e danno il ritmo all’economia mondiale (Lundvall, 2001); (Cassiolato, 1999); (Albagli, 1999); (OCDE, 1992).

Questo complesso processo ha suscitato molteplici interpretazioni, riassunte nel termine globalizzazione, che, malgrado il significato polisemico, ha alcune caratteristiche forti già stabilite: in primo luogo si tratta di una nuova fase di internazionalizzazione del capitale iniziata negli anni ’80, risultante dalla politica di liberalizzazione e di deregolamentazione del commercio mondiale, delle relazioni di lavoro e delle finanze, sotto l’egemonia del capitale finanziario. Sotto questo regime, tendono a crescere la disoccupazione mondiale e la precarietà del lavoro, così come aumentano le disuguaglianze tra i paesi, a livello del reddito e delle condizioni di vita (Chesnais, 1999a). In secondo luogo, nonostante il settore produttivo non guidi più il processo economico, le grandi multinazionali hanno un ruolo preminente, si voglia per il ritmo accelerato dell’oligopolizzazione e della concorrenza, si voglia per la capillarità della presenza mondiale, che dominando (le multinazionali, nota d.t) praticamente le complesse relazioni che avvolgono la scienza e la tecnologia [5].

Questa irrazionalità, intrinseca all’attuale paradigma, si sostiene nel trittico: i) forma sociale capitalista; ii) uso intensivo di energia fossile e delle tecniche per trasformare l’energia in lavoro e iii) tradizione dell’illuminismo, radicalizzandosi nell’espansione neoliberale ha provocato effetti sostanziali e perversi, evidenziatisi, per esempio, nella versione del 2001 degli “Indici di Sviluppo Mondiale” elaborata dalla Banca Mondiale, che richiama l’attenzione sull’incremento delle disparità tra ricchi e poveri sul pianeta, dove dei 6 milioni di abitanti oggi esistenti, 1,2 milardi vivono con meno di 1 dollaro al giorno [6]. Nel 1999 veniva prodotta quattro volte più ricchezza che tre decenni fa, e dei 32,5 miliardi di dollari prodotti in quell’anno, l’80% sono stati prodotti dai paesi sviluppati. Altri indicatori di questa concentrazione informano che il 15% della popolazione mondiale, che rappresenta i ricchi, consuma il 50% dell’energia commerciale disponibile, il consumo di energia pro capite è 10 volte superiore ai consumi degli abitanti nei paesi a basso reddito e il 90% degli utenti di Internet vivono nei paesi ricchi (Kupfer, 2001).

Nel libro intitolato Globalização em Questão, Hirst e Thompson (1999) affermano che è venuto a crearsi un “mito della globalizzazione”, soprattutto perché, tra le altre ragioni, il ciclo economico del 1870-1914 veniva considerato più aperto ed integrato rispetto a quello attuale. Nonostante si fossero sbagliati nel “naturalizzare” il processo delle trasformazioni del capitalismo, che diventa evolutivo, gli autori inglesi presentano alcune riflessioni importanti per la comprensione delle attuali trasformazioni, principalmente quando indicano i tre elementi di maggior rilevanza:

• il fatto che la maggior parte dei gruppi delle multinazionali abbiano una forte base nazionale;

• l’alta concentrazione dei flussi di investimento diretto estero (IDE) nei paesi della Triade;

• la forte incidenza dei flussi commerciali, tecnologici e finanziari tra gli USA, l’Europa e il Giappone.

Diversi autori hanno richiamato l’attenzione sul “distacco” provocato dalla globalizzazione tra la sfera dell’economia e quella della politica. La nuova razionalità economica, che cerca la deregolamentazione, si rende autonoma dalla sfera politica e dal controllo sociale, la cui razionalità sta nella regolamentazione, sottomettendo la società alle leggi di accumulazione e alla razionalità che gli è inerente. Le corporazioni multinazionali acquistano un’eccessiva influenza sulle decisioni governative, soprattutto nei paesi periferici, riducendo l’autorità nazionale della sfera politica sul territorio e sulla popolazione.

Lo Stato nazionale, in termini astratti, stabilisce le condizioni di produzione della conoscenza; regola le politiche di concorrenza nel mercato e i meccanismi di appropriazione legale del settore privato, il quale rende dinamica l’innovazione tecnologica. Lo Stato nazionale reale, quello della periferia, si ritrova indebolito, sia perché il controllo di alcune delle variabili macroeconomiche è localizzato fuori del paese, sia per la presenza egemonica dei capitali produttivi internazionali in settori strategici del paese, sia per il volume del debito estero o anche per la dipendenza dalle tecnologie create all’estero. Se, come intendiamo far notare, l’apparato scientifico e tecnologico diventa uno dei fondamenti della legittimazione dello Stato, che si basa fortemente sulla razionalità tecnica per il mantenimento del sistema sociale, questa stessa razionalità presuppone un processo di generazione della conoscenza scientifica e tecnologica soggetto all’appropriazione legale ed economica, richiedendo quindi una pianificazione sofisticata, politiche pubbliche che lo gestiscano e lo controllino. Ora, uno Stato frammentato non avrà la possibilità di assolvere competentemente tale compito, perdendo, di conseguenza, in legittimità.

Il processo di avanzamento della globalizzazione tuttavia, non è avvenuto senza tensioni e contraddizioni. La trans-nazionalizzazione dei mercati si è opposta alla necessità dei Diritti Umani Globali [7]. Questi diritti non sono più riservati al dominio esclusivo dello Stato, alla competenza esclusiva nazionale, e vengono controllati a partire da un sistema normativo internazionale che dà loro una certa protezione. Molte volte, esauritesi le vie interne di giustizia, appena le istituzioni nazionali mostrano lacune od omissioni, le decisioni internazionali acquistano forza giuridica obbligatoria e vincolante. Come ben dice Flavia Piovesan [8]: “Queste trasformazioni, che partono dal movimento di internazionalizzazione dei diritti umani, hanno contribuito al processo di democratizzazione dello stesso scenario internazionale, già che, oltre allo Stato, nuovi soggetti di diritto diventano partecipi dell’area internazionale, come gli individui e le organizzazioni non governative. Gli individui si convertono in soggetti di diritto internazionale, tradizionalmente un’area in cui solo gli stati potevano partecipare” (Piovesan, 1999: 57).

L’articolo 28 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite si rimette a un ordine globale in cui i diritti e le libertà stabilite in questa dichiarazione vengano completamente realizzati. Siamo ancora molto lontani dal raggiungere obiettivamente un diritto cosmopolita effettivamente istituzionalizzato. In questa direzione Habermas (2000a) afferma che nella transizione da un ordine basato sugli Stati Nazionali ad un ordine cosmopolita non si sa cosa sia più pericoloso: se il mondo degli Stati sovrani “che da molto hanno perso l’innocenza”, o “la poco chiara amalgama delle istituzioni e delle conferenze internazionali dalle quali non si può sperare niente di più che un’incerta legittimità, una volta che queste istituzioni continuano a dipendere dalla buona volontà degli stati potenti e dalle loro alleanze” (op. cit. p.154).

C’è un insieme di giuristi contemporanei che si sono soffermati a difendere una visione integrata dei diritti umani, negando la compartimentalizzazione e, allo stesso tempo, svelando l’insufficienza delle risposte giuridiche per una piena esigibilità dei diritti economici, sociali e culturali, con particolare riferimento alla normativa internazionale e nazionale. In questo senso si rafforzano le idee di costituzione di un Patto Internazionale dei Diritti Umani, destinato a precisare dettagliatamente questi diritti e stabilire meccanismi di esigibilità a livello internazionale. Trattando del diritto all’istruzione, non sempre riconosciuto come diritto universale, dice Bobbio: “Sono precisamente certe trasformazioni sociali e certe innovazioni tecniche che fanno sorgere nuove esigenze; esigenze imprescindibili ed esigibili anche prima che queste trasformazioni ed innovazioni fossero venute alla mente” (1992, 75:76).

La rivoluzione microelettronica rappresenta un aspetto fondamentale di questo processo, che è stato poco considerato nell’analisi di Hirst e Thompson tanto da perdere di vista la radicalità implicita del fatto che la conoscenza è diventata la risorsa per eccellenza per la competitività nell’attuale economia, dove il vincolo tra sviluppo scientifico e tecnologico è ogni volta sempre più forte, dove la scienza non è più un’istituzione con forti tratti umanitari per la liberazione dell’uomo, ma si trasforma in mera tecnica, in forza produttiva strategica, in semplice commoditie. Questa è la tesi elaborata da Habermas, sulla scia di Weber e dei francofortesi, della scienza trasformata in “principale forza produttiva” in sostituzione del valore-lavoro, presente anche nell’opera di André Gorz. Non è altro l’ “uomo uni-dimensionale” nella concezione di Marcuse, che vive in una “società industriale che fa sue la tecnologia e la scienza ed è organizzata per un dominio delle proprie risorse ogni volta sempre più efficace” (Marcuse, 1973, p.36). Diventa irrazionale quando i suoi successi rendono più profonde le disuguaglianze tra gruppi, classi e nazioni.

L’ironia con cui Marcuse inaugura la sua Ideologia della Società Industriale -”una mancanza di libertà confortevole, dolce, ragionevole e democratica prevale nella società industriale sviluppata, testimone del progresso tecnico” (Idem, p.23) di fatto è arrivata soltanto alle classi medio- alte dei paesi della periferia, benchè terrorizzate sia per lo spettro della disoccupazione, che può raggiungere i loro figli, sia per la diffusione della quotidiana violenza urbana [9].

È interessante confrontare le idee di Marcuse con il pensiero recente di Pierre Lévy (1998), che ha sviscerato tutta una riflessione sul potere della tecnica nelle società contemporanee. Sebbene il filosofo di Francoforte ben capisca che i processi socio-tecnici sono raramente oggetto di deliberazioni collettive esplicite e, meno ancora, prese dall’insieme dei cittadini, Lévy (op. cit. p.9) non si fa profeta di una catastrofe culturale promossa dalla informatizzazione: “Non si tratta di una nuova critica filosofica della tecnica”, ma, principalmente, di mettere all’ordine del giorno la possibilità di una tecno-democrazia, che potrà essere ideata soltanto nella pratica. Il suo obiettivo maggiore è valutare il ruolo delle tecnologie di informazione nella costituzione della cultura e dell’intelligenza dei gruppi, dove la tecnica non deve essere affrontata come un male o come una catastrofe, o come una condanna morale a priori, come se fosse qualcosa di separato dal divenire collettivo e dal mondo delle necessità, della cultura.

Il fatto che la scienza e la tecnica abbiano acquisito, su questo fine secolo e principio di nuovo millennio, un valore politico e culturale tanto rilevante, fa che non possano essere viste solo sotto una luce di negatività. I prodotti della tecnica moderna sarebbero tutt’altro che conciliati con i loro usi strumentali perchè sono importanti fonti dell’immaginario, entità che partecipano pienamente all’istituzione di mondi percepiti.

Lo sfruttamento economico della produzione intellettuale, oggetto centrale di queste riflessioni, rappresentato dalla Legge sui Brevetti, nel contesto di una globalizzazione che, così come sostiene il giurista Paulo Bonavides, è un gioco senza regole, una disputa senza arbitri che pone il capitalismo un’altra volta sul banco degli imputati, diventa un problema. Nell’ampio campo della ricerca avviato dai progressi dei farmaci e della biotecnologia, sorge un insieme di domande direttamente relazionato all’appropriazione dei risultati della scienza, che regola il confronto tra forze economiche, Stato e Società e dove l’etica andrà ad occupare un luogo centrale.


[1] Nota del traduttore: il binomio Scienza e Tecnologia, lungo tutto il testo, viene indicato con C&T. Il binomio Ricerca e Sviluppo, lungo tutto il testo, viene indicato con R&S

[2] Per François Chesnais (1996: 141), gli investimenti in R&S sono tra le spese industriali più concentrate del mondo.

[3] L’industria farmaceutica ha sempre avuto requisiti specifici di delocalizzazione della R&S.

Indipendentemente dalla necessità di avere accesso a fonti di conoscenze scientifiche particolarmente importanti (...) la necessità di condurre test clinici per ottenere l’autorizzazione amministrativa di mettere il prodotto sul mercato estero e adattare i prodotti, ha fatto sì che le multinazionali impiantassero laboratori in diversi grandi mercati (Chesnais, op. cit: 153).

[4] Immanuel Wallerstein (1999), Boa Ventura De Souza Santos (1999); Milton Santos (1999); François Chesnais (1996); Noam Chomsky (2001); Bourdieu (2001) tra i tanti.

[5] Si è stimato che queste multinazionali partecipino a 2/3 degli scambi commerciali e che il 40% del commercio mondiale venga realizzato internamente a questi gruppi (Cassiolato, 1999).

[6] Dati recenti del IBGE affermano che metà delle famiglie degli Stati del Ceará, Paraíba, Rio Grande del Nord e Alagos vivono con un reddito medio mensile di 1/2 Salario Minimo.

[7] Il movimento di internazionalizzazione dei diritti umani è relativamente recente, costituitosi a partire dal dopoguerra come risposta alle atrocità e agli orrori perpetrati dal nazismo. Nel 1948 venne approvata la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, che introdusse una nuova caratteristica ai diritti umani, ossia l’universalità e l’indivisibilità.

[8] Secondo l’autrice il segno iniziale del processo di incorporazione dei trattati internazionali dei diritti umani da parte del Brasile è stato la ratifica, nel 1989, della Convenzione contro la Tortura e Altri Trattamenti Crudeli o Degradanti. Nel 1998 lo stato brasiliano riconosce due istanze giurisdizionali internazionali e di protezione dei diritti umani: la Corte Interamericana e l’adesione allo Statuto del Tribunale Internazionale Criminale Permanente (op. cit. p.57).

[9] Nella Regione Metropolitana di Recife, nei primi tre mesi del 2001, vennero registrati più di 500 omicidi.