Il dominio dei brevetti e la globalizzazione diseguale
Marcos Costa Lima
Il ritardo tecnologico e le possibilità di sviluppo in America Latina attraverso il mercosud: opportunità in scienza e tecnologia
|
Stampa |
Uno studio dell’Organizzazione Mondiale della Salute [1] ha osservato che il settore farmaceutico
affronta gravi problemi che scaturiscono dall’assenza di concorrenza. Di fatto
i 2/3 del mercato mondiale dei farmaci sono controllati, più o meno, da 20
grandi gruppi [2].
Il movimento di concentrazione sì è accelerato, attraverso dei processi di
fusione di mega-imprese. Sul mercato c’è un prezzo quasi unico, determinato
dalle tariffe praticate negli USA [3].
Nel 1995, secondo Bouguerra (2001), il MIT, aveva scoperto
che su 14 farmaci dei più promettenti agli occhi dell’industria nordamericana
nei prossimi 25 anni, 11 nascevano da ricerche finanziate dallo Stato,
demistificando, in questa maniera, l’argomentazione che sono solo le imprese a
finanziare la ricerca, la principale giustificazione ai brevetti.
Il giornalista Philippe Demenet (2001), in un articolo su
ciò che intitola “apartheid medico”, informa sull’appetito delle grandi
compagnie di farmaci, esemplificandolo attraverso diversi casi, come quello
della mostarda indiana (brassica campestris) che ha depositati su di sé
16 brevetti per l’industria Calgene in USA e Rhône Poulanc ed è conosciuta
dagli indù, da tempo immemorabile, per le sue virtù come anti-emorragico,
contro la perdita dell’appetito, il disordine mentale, vermi e reumatismi. Un
altro caso è quello dell’albero conosciuto in India come Neem (azadirachta
indica) o “dono di Dio”, che i contadini utilizzano come
trattamento medico o per elaborare insetticidi naturali, che ha ben 62 brevetti
esistenti che lo riguardano.
Nonostante la Convenzione Sulla Biodiversità, entrata in
vigore nel 1993 e sottoscritta da 169 paesi, ad eccezione degli Usa, le
comunità locali dell’Amazzonia, dell’India o dell’Africa, non hanno alcun
beneficio sul processo. È assurdo che la legge nordamericana e quella della OMC
non riconoscano la validità della scienza non-occidentale. Da millenni gli
indù applicano lo zafferano in polvere o in pasta sulle ferite e i tagli.
Ebbene dal 1995, gli uffici pubblici nordamericani di brevetti attribuiscono la
proprietà esclusiva del “metodo per promuovere la cura di una ferita”, con
la somministrazione dello zafferano, a due ricercatori dell’Università del
Mississippi.
2.3 Nuovi concetti, nuovi diritti.
In un periodo storico dove mai la scienza e i suoi frutti
sono stati così considerati, una delle irrazionalità contemporanee si
evidenzia in tutta la sua grandezza quando si osserva l’evoluzione del diritto
alla proprietà intellettuale, parte chiave delle attività in C&T e uno dei
pilastri del paradigma odierno. L’opinione internazionale vuol far valere l’idea
che si tratta solo di un adeguamento tecnico alla società di informazione, un
adeguamento ai mutamenti che sono in atto nel capitalismo. La dottrina dei
brevetti diceva si trattasse di uno strumento per proteggere l’interesse
generale, che assicura la diffusione universale delle conoscenze e delle
invenzioni, in cambio del monopolio dello sfruttamento consentito agli autori,
per un periodo limitato di tempo. La protezione sarebbe la condizione per
favorire la creazione.
Le grandi multinazionali mondiali si sono mobilitate a
livello internazionale, soprattutto con l’appoggio del governo nordamericano
per riesaminare il diritto di proprietà intellettuale. Avevano già ottenuto l’estensione
e la durata di certe protezioni e la creazione di nuovi diritti. Come afferma
Philippe Quéau, direttore della divisione di informazione ed informatica dell’Unesco,
la materia esige una discussione più profonda sulla proprietà della
conoscenza, sulla nozione di “interesse generale”, come condizione
perché i gruppi dominanti non facciano pendere il diritto di proprietà
intellettuale dal loro lato. In questo senso, garantire la protezione di un “dominio
pubblico mondiale” dell’informazione e della conoscenza è un aspetto
importante nella difesa dell’“interesse generale”. Affermando con ragione
che la maggior parte delle invenzioni e innovazioni si appoggiano su idee che
fanno parte del patrimonio comune dell’umanità, sarebbe assurdo
ridurre l’accesso alle informazioni e alle scoperte che costituiscono il bene
comune, per effetto di un diritto che si preoccupa eccessivamente di difendere
interessi particolari (Quéau, 2000).
In uno dei suoi ultimi lavori Immanuel Wallerstein (1999)
parla di un ciclo economico lungo, iniziato nel 1789 e, per lui, chiusosi nel
1989. Il filosofo-storico dell’economia mondiale, scrutando il futuro che ci
attende, sottolinea l’urgenza di riprendere il concetto dei diritti dell’uomo
e di lavorare affinché questi vengano applicati, sia a livello nazionale che
internazionale, e il diritto che le comunità hanno di proteggere le loro
eredità culturali (scosse dalla globalizzazione), non deve essere mai formulato
come diritto di protezione dei loro privilegi. Considerando lo scontro che sta
per avvenire nel capitalismo, e che non necessariamente passerà a livello della
sfera dello Stato, a ragione, soprattutto, del processo di delegittimazione che
gli Stati-Nazionali vanno soffrendo, il pensatore del sistema-mondo lo individua
ad un livello più locale e tra gruppi multipli, con strategie di alleanze
complesse e flessibili, ma sempre conservando obiettivi egualitari come
idea-forza.
Il conflitto Nord-Sud è presente nella sua interpretazione
dei conflitti attuali, ed è uno degli elementi forti che danno origine alla
crisi del sistema. L’“aiuto caritatevole” dei paesi affluenti sta nella
logica dell’irrazionalità di un sistema-mondo che ha bisogno di essere
ricostruito.
Per tutti questi motivi è necessario ripensare l’equilibrio
tra pubblico e privato, tra le attività degli attori nel quadro globale, che
implicano tanto gli Stati, quanto le grandi imprese, le ONG, gli individui e il
dominio pubblico. Come rendere più responsabili dei propri atti e dei danni che
possono causare gli Stati e le grandi multinazionali del mondo sviluppato? Come
sottolinea Inge Kaul, è necessario consolidare nuovi strumenti intellettuali,
che per di più passino per la realizzazione di obiettivi comuni e per la
cooperazione internazionale e, in questo senso, “il bene pubblico globale
è [una categoria] abbastanza utile” (Kaul, 2000).
Nel XVII secolo vennero firmati i primi Trattati
Internazionali, garantendo il libero accesso all’alto mare. Questi accordi si
moltiplicarono fino all’inizio del XX secolo: il trasporto di merci, il
commercio, le telecomunicazioni, l’aviazione civile. Lo spazio e l’oceano,
che esistevano prima di qualunque attività umana, erano concepiti come bene
pubblico globale e sottoposti ad un regolamento internazionale. Quando sono
Trattati Multilaterali e di interesse planetario, questi accordi costituiscono
un bene pubblico globale, perché creano un quadro regolamentare comune. Secondo
Kaul, questi primi beni globali sono più importanti che mai, per il fatto della
crescita delle attività economiche internazionali e della mondializzazione
della tecnica e della comunicazione.
Il controllo delle epidemie costituisce, dopo più di
100 anni, uno dei cardini della cooperazione internazionale, ma non può più
funzionare sotto il semplice coordinamento dei sistemi nazionali di allerta una
volta che uno stato può benissimo essere tentato di dislocare le risorse del
bilancio verso altre attività. Quindi, le questioni di politica mondiale
esigono più che accordi di principio, una armonizzazione delle politiche, il
rispetto delle norme internazionali e non, come hanno fatto sistematicamente gli
USA, di non rispettarle confidando nel loro potere militare ed economico di
rappresaglia. La non sottoscrizione del trattato di Kyoto, sul clima mondiale è
un esempio evidente.
Diversi fattori evidenziano l’urgenza di questa
determinazione per un nuovo tipo di bene globale, soprattutto per l’ampliamento
degli effetti perversi che, tra gli altri, hanno provocato un rischio sistemico
globale:
• Uso eccessivo di cloro fluoro carburi (CFC)
• Incendio di foreste
• Inquinamento degli oceani
• Spargimento di petrolio
• Uso della radioattività
• Radiazioni elettromagnetiche
• Aumento dello stress
• Uso o di pesticidi
• Frequente volatilità dei mercati finanziari
• Riscaldamento del pianeta
• Oligopolio sui medicinali
• Disoccupazione strutturale
• Aumento della violenza
In secondo luogo il potere crescente degli attori con raggio
di azione globale non statale -imprese multinazionali, ONGs, FMI, Banca
mondiale, OMC, ONU- con i loro obiettivi specifici, spinge gli stati nazionali
ad aderire a norme politiche comuni, sia in termini di standard(OIT) che di
rispetto dei diritti umani, che sono positive, o a politiche imposte di
aggiustamento economico -con effetti tremendamente negativi e distruttivi sulla
periferia del mondo.
Le buone intenzioni non sono sufficienti per produrre beni
pubblici globali. Il protocollo di Montreal del 1987 e il Trattato di Kyoto, che
progetta di ridurre le emissioni di cloro-fluoro-carburi per minimizzare la
distruzione della calotta di ozono, sono rare eccezioni. Alcuni beni pubblici
globali, soprattutto nel dominio della conoscenza, dovrebbero basarsi su una
legislazione tassativa; per esempio, il vaccino contro la poliomielite, il
vaiolo, l’AIDS. I brevetti in questo caso, sarebbero considerati come un “male
pubblico”.
La crescente importanza attribuita alla dimensione dei beni
pubblici globali, guardando al nuovo quadro mondiale che si presenta, fa si che
bisognerebbe mettere come condizione preliminare, come suo fondamento, il
principio della giustizia mondiale, nel senso dell’equità, che inizia con
dimostrazioni inequivocabili da parte dei paesi che più possono contribuire,
non nel senso dell’aiuto o delle forme di compensazione, ma intendendo che
queste forti differenze tra paesi del Nord e del Sud, fortemente ancorate allo
sfruttamento e alle determinazioni storiche coloniali, sono cristallizzate anche
attraverso processi oligarchici e autoritari nazionali.
Questa discussione ha bisogno di un maggior respiro
concettuale, poiché sia i principi liberali di universalità che di
individualismo, che sono i due segni della modernità, non fanno da assi all’etica
o alla filosofia politica e non rispondono neanche ai problemi del nostro tempo.
Marx già si riferiva all’universalismo come ad una cosa astratta e allo
stesso modo all’individualismo, poiché non era legittimo riferirsi a
categorie come “tutti gli uomini”, che sono generiche e non fanno altro che
occultare le differenze reali, che in verità sono le cause di tutti i
conflitti. Da lì la debolezza di “tutti gli uomini sono liberi ed uguali”.
In questo senso, ci dice Victoria Camps, l’individuo che crea la modernità
è il soggetto di diritti: è il soggetto della morale razionale, impersonale,
universale. Ebbene questo soggetto non esiste. Precisamente perché è
trascendentale, non esiste in nessuna parte (Camps, 1993: 72).
La nozione di “priorità globali condivise” è
stata un’esperienza per le Nazioni Unite e per le loro istituzioni settoriali,
anche considerando il suo svuotamento durante la seconda metà del XX secolo. In
questo senso, si ritorna a Habermas e una nuova forma di integrazione sociale,
secondo lui, basata sulla “solidarietà cosmopolita”, ora liberata
dall’ideale kantiano della pace mondiale per mezzo del commercio. Per il
filosofo, la regolazione di una società mondiale ancora non ha preso forma,
neanche sotto forma di progetto e, se questo avvenisse, non avrà come
destinatari i Governi, ma la società civile, che trascenda le frontiere
nazionali (Habermas, 2000).
Esiste tutta una corrente di importanti intellettuali come
Bobbio, David Held e lo stesso Habermas, che, basandosi sull’idea kantiana di
unità morale del genere umano, sono giunti a considerare il cosmopolitismo -fondato
sulla preservazione dei diritti umani, e sul controllo ambientale, sull’equilibrio
demografico, sulla pace- come il modo migliore di affrontare i grandi problemi
mondiali. Difendono il rilancio delle istituzioni internazionali e
sopranazionali e contemplano l’avanzamento di un “diritto di ingerenza”,
destinato a punire il genocidio o le pulizie etniche. Ma chi darà supporto a
queste “istituzioni internazionali umanitarie”, chi le finanzia? [4]
“Nessun lettore di giornale si inganna oggi sul vincolo
tra la produttività e la distruzione. Di fronte a una situazione di concorrenza
altamente efficiente, i nostri governi si getteranno in una gara di
deregolamentazione per ridurre i costi, e che ha condotto nell’ultimo decennio
verso interessi osceni e disuguaglianze drastiche tra i salari, all’abbandono
delle infrastrutture culturali, a una crescente disoccupazione e alla
emarginazione di una popolazione povera che aumenta ogni giorno. Per riconoscere
ciò non abbiamo bisogno di un nuovo linguaggio, perché non ci inganneranno
più con una “società dell’abbondanza”” (Habermas, 2000: 204).
Ma benché Habermas abbia recentemente assai depurato il
concetto kantiano di realizzazione della pace mondiale per via del commercio,
come è evidente in questo suo recente testo, non si può ignorare la
consistente critica portata da Meszáros (1996; 45) all’autore della Teoria di
Azione Comunicativa, che si attende “troppo dalla razionalità del sistema
socio economico e politico borghese”; così, il suo punto di vista
liberal-democratico occidentale finirebbe per ignorare sistematicamente, non
solo la difficile situazione degli sfruttati del Terzo Mondo, ma anche la serie
di limitazioni storiche strutturali sotto le quali viene realizzata tutta la
comunicazione nelle società di classe. Tutto sembra indicare che a breve
termine, tenendo in considerazione il consolidarsi dell’“Era di Bush”, si
approfondisca la direzione dell’intolleranza e dell’insicurezza globale,
quando tutto ciò di cui si avrebbe bisogno è il contrario. In ogni modo,
sorgono nell’arena internazionale, benché in embrione, nuovi soggetti sociali
che protestano a partire da una piattaforma “verso un’altra mondializzazione”.
È ancora troppo presto per prevedere gli sviluppi su questo “nuovo scacchiere”.
Alcune questioni, tuttavia, iniziano a diventare più chiare,
dato che il radicamento e il consolidamento di un nuovo paradigma non possono
più accettare qualunque innovazione scientifica e tecnologica; devono venire
associati a nuovi sistemi di sostentamento sociale, ambientale, che siano
fortemente distributive. E innovazione ambientale in questo contesto vuol dire
tecnologie non inquinanti; innovazione sociale vuol dire che si possa
influenzare positivamente il modo di vita delle popolazioni nel loro quotidiano.
3. Ritardo tecnologico in America Latina negli anni ’90
La scienza e la tecnologia, al contrario di ciò che hanno
affermato i positivisti e neo positivisti, sono sempre inserite nelle strutture
e nella realtà sociali della loro epoca. L’idea secondo la quale la scienza
segue un corso di sviluppo indipendente o immanente, dal quale le risultanti
tecnologiche nascono e si impongono su società come una istanza ferrea, è un’idea
sbagliata e molto ideologizzata. Oggi viviamo il feticcio dell’autonomia
nazione della C&T, come se fossimo sottomessi a una logica inesorabile. La
stessa apparizione di Internet, uno degli elementi rivoluzionari del complesso
informatico, si deve alla macchina militare da guerra degli Stati Uniti d’America
e non pare corretto condannare la tecnologia, ma solo la forma di utilizzazione.
Nello stesso senso, incolpare la scienza per le implicazioni minacciose dei suoi
prodotti -ad esempio la clonazione ed i transgenici- che sono di fatto prodotti
del modo socialmente dominante della produzione nella sua totalità può
sembrare assurdo. Ma è difficile negare che dal progresso della Biotecnologia
si possano trarre benefici inestimabili sul controllo o anche la stessa
estinzione di molte malattie degenerative, come il diabete e il morbo di
Parkinson. La questione è soprattutto sul tipo di uso, nell’assenza di
regolazione sociale e nella appropriazione privata della conoscenza. Tanto
assurdo quanto insultare la scienza sarebbe immaginare che l’azione isolata di
scienziati illuminati possa invertire il processo in corso.
Capire questo è necessario per fare domande che sono
fondamentali: la scienza che stiamo praticando è quella di cui abbiamo bisogno?
Che tipo di scienza desideriamo? Quali devono essere i suoi obiettivi? Chi
determina le sue priorità? - le risposte devono, in un sistema democratico,
essere decise dalla maggioranza della società. Mai l’umanità ha avuto tanti
mezzi a sua disposizione per risolvere, con un livello minimamente accettabile,
la questione delle carenze elementari di vita del pianeta. Con tutto ciò, la
ragione sembra stare dalla parte del pensatore ungherese István Meszáros,
quando sintetizza “grande dilemma della scienza è che il suo sviluppo è
sempre stato legato al dinamismo contraddittorio del capitale stesso”
(Ibidem, 265).
L’opera di Schumpeter è stata fondamentale per capire l’accelerazione
tecnologica che ha avuto inizio a partire dalla seconda metà del XIX secolo. L’economista
austriaco ha introdotto il progresso tecnico come elemento decisivo nel processo
di concorrenza intercapitalistico e quindi, nella determinazione delle
trasformazioni e oscillazioni che attraversa il sistema economico. Nel
caratterizzare il processo tecnico come qualcosa che percorre tre fasi -l’invenzione,
l’innovazione e la diffusione, Schumpeter ha affermato, al contrario di ciò
che è successo nell’evoluzione di questo progresso, che l’invenzione
sarebbe una riserva che si andrebbe ad ampliare permanentemente e si
collocherebbe senza problemi alla portata degli impresari innovatori. Che
fortuna sarebbe se l’accumulo di invenzioni fosse, come i libri, disponibile
nelle librerie delle biblioteche pubbliche! In verità, ci sono barriere
strutturali che impediscono il libero accesso alla conoscenza per via naturale
ed evolutiva.
[1] Vari
professionisti di fama mondiale hanno chiesto la creazione di una tassa sui
profitti di queste multinazionali dei farmaci, con l’intento di sovvenzionare
i fondi per la ricerca delle malattie tropicali e per la produzione di
medicinali di prima necessità.
[2] Dei 25 medicinali più venduti nel mondo, 20 sono americani.
[3] Velásquez, G.; Bennet, S.; Quick, D. (1997),
“Rôle des secteurs publiques et privé dans le domaine pharmaceutique.
Incidences sur l’equité en matière d’accès et sur l’usage rationnel des
medicaments”. OMC: Genève. Citato in: Le Monde Diplomatique.
[4] Bisogna
considerare qui l’espressione dello spirito umanitario, espresso da “Medici
Senza Frontiere”, al ricevere il Premio Nobel per la Pace: “è necessario
liberarsi delle ambiguità e degli equivoci di certe parole d’ordine, che
mischiano l’azione umanitaria indipendente con gli interventi politici e
militari delle grandi potenze o coalizioni internazionali di crimini e terrore
di massa” (Biberon, Philippe; Brauman, Rony, 1999).