Modelli teorici o descrizioni storico-sociologiche? Per una rilettura della sussunzione del lavoro sotto il capitale
Roberto Fineschi
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1. Dei tre libri che costituiscono Il capitale il
primo è senz’altro il più letto e a ragione: esso è infatti l’unico
pubblicato da Marx, mentre, com’è noto, il secondo ed il terzo sono usciti a
cura di Engels dopo la morte dell’amico. È un criterio di buon senso
privilegiare le opere pubblicate dall’autore stesso rispetto ai
rimaneggiamenti di terzi (per quanto fidati, Engels incluso) ed è legittimo che
la maggior parte delle interpretazioni tradizionali dell’opera marxiana si
siano basate su questo testo. Se è dunque vero che il primo libro funge da
punto di riferimento nell’analisi del complesso lavoro di Marx alla teoria del
“capitale” - un “marasma” di abbozzi, scritture parziali, rielaborazioni
successive redatti nell’arco di 30 anni - alla luce della nuova edizione
critica delle opere dei due - la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2)
assai più complessa si è rivelata la sua storia interna [1]. D’altronde se Il capitale
è concepito da Marx come un “intero dialetticamente articolato” (lettera a
Engels del 31/06/1865), per comprendere fino alla fine il primo volume è
necessario contestualizzarlo nell’ambito più generale dei tre libri e
confrontarlo con tutte le fasi di elaborazione del testo nel suo complesso. Tali
fasi sono quattro: il manoscritto del 1857-58, il manoscritto del 1861-63, il
manoscritto del 1863-65. Questi primi tre passi rappresentano la successiva
riscrittura complessiva di tutta la teoria del capitale. Il 1867 segna un
punto di svolta con l’uscita del primo libro. Il periodo successivo a questa
data si articola in tre direzioni: varie riedizione del primo libro, manoscritti
per il secondo libro, manoscritti per il terzo libro [2].
Che cosa ha a che fare, si chiederà il lettore, questa
premessa con l’argomento che intendo trattare? Vediamolo. A fronte della
complessa stratificazione di cui sopra, la “sussunzione” del lavoro sotto il
capitale è stata assai spesso studiata sul solo primo libro, per giunta
decontestualizzata cioè prendendola isolatamente di per sé. Questo è un grave
limite su cui in questa sede non si potrà insistere: la sussunzione resta
incomprensibile se non la si inserisce - mostrandone l’articolazione, non in
modo generico - nella logica complessiva della teoria del capitale (e nella sua
stratificata redazione). Tale mancanza incide su altre, la principale è quella
indicata nel titolo, ossia la riduzione storicistica e sociologica dell’impianto
teorico marxiano: leggere i capitoli su Cooperazione, Manifattura e Grande
industria come la “descrizione” o “narrazione” del capitalismo della
Rivoluzione industriale, o comunque del capitalismo inglese dell’800 [3]. A ciò ha senz’altro contribuito la prassi espositiva marxiana che,
per corroborare la propria posizione, ha arricchito soprattutto Il capitale di
numerosissimi esempi storico-descrittivi. Per la legge del contrappasso questa
sua volontà di chiarezza si è ritorta contro di lui, facendo passare in
secondo piano - o addirittura scomparire - l’impianto teorico che ne stava
alla base. Il testo edito da Marx, soprattutto nelle sue parti descrittive, ha
legittimato questo tipo di letture che non sono improprie in modo assoluto; sono
tuttavia molto riduttive e fanno senz’altro torto al contesto teorico
complessivo in cui Marx le cala. Come detto, la sua ricostruzione richiede che
se ne affronti la complessità sia teorica che testuale (cfr. le diverse fasi di
elaborazione); alla luce di questa analisi complessiva emerge un significato
della sussunzione ben più ampio di quello consueto
2. Far parte delle “processo lavorativo” come tale
è, secondo Marx, ciò che caratterizza l’attività umana rispetto a quella
genericamente animale; questo processo include degli elementi che sono sempre
presenti: l’attività lavorativa, il mezzo di lavoro, l’oggetto di lavoro e
la posizione di scopo (Marx, 1890: 211ss.) [4]. Se questi elementi sono presenti in qualunque attività
produttiva, ciò non significa che a questo livello già si sappia in che
modo essi si uniscano, a quale spetti la priorità sugli altri, in quali
modalità specifiche si realizzi la loro interazione. Il processo lavorativo
come tale allora non indica di per sé alcun modo di produzione, alcuna
modalità concreta di produrre. Le diverse fasi storiche della produzione, di
cui il modo di produzione capitalistico è una, si caratterizzano invece proprio
per una forma specifica di interazione fra questi elementi astrattamente
comuni; le modalità in cui essi si uniscono, interagiscono, in cui uno ha la
priorità sugli altri caratterizzano via via le singole formazioni
economico-sociali; di esse il modo di produzione costituisce l’anima.
Ci sono allora almeno due livelli: 1) processo lavorativo in
generale, dove non abbiamo alcuna forma concreta di produzione;
proprio poiché esso indica i caratteri astrattamente comuni, non vi si possono
distinguere caratteristiche specifiche e 2) il concetto di modo di produzione,
dove conosciamo le modalità specifiche in cui quegli elementi si
uniscono, dando vita ad una forma particolare di produzione.
Ciò stabilito, possiamo porci la seguente domanda: quali
sono le determinazioni specifiche che il processo lavorativo assume nella
produzione capitalistica? I capitoli dedicati alla sussunzione sono il luogo
in cui Marx dà conto di questa esigenza teorica. Il processo lavorativo in
astratto e la forma che esso assume nel modo di produzione capitalistico non
sono assunti empirici o descrizioni di fatti; si tratta piuttosto di categorie,
di modelli teorici attraverso i quali si cerca di dar conto del funzionamento
effettivo della realtà, che può più o meno confermarli.
Errore grave sarebbe confondere i due livelli indicati, anzi
identificare quello generale - processo lavorativo - col particolare -
riproduzione sociale in forma capitalistica: il risultato consisterebbe nel
sostenere l’eternità del modo di produzione capitalistico, esattamente come
facevano i classici da lui per questo aspramente criticati. Qui Marx è
categorico: la definizione generale del lavoro produttivo, articolata nei
momenti suddetti, non è sufficiente a determinare il lavoro produttivo all’interno
del modo di produzione capitalistico [5]. Nella misura in cui è sussunto, infatti, il processo lavorativo
assume aspetti qualitativi specifici, si forma, adeguandosi alle leggi di
movimento del capitale. Questo adeguamento è necessario da un punto di vista
teorico, considerata e la natura della riproduzione sociale in forma
capitalistica e la natura dell’astratto processo lavorativo: è il loro essere
fatti in un certo modo che implica tutta una serie di rapporti che si esplicano
nelle forme che andiamo ad analizzare - è la loro logica interna. Vediamo
allora come si caratterizza, concettualmente, il modo capitalistico di
produzione.
3. La produzione di plusvalore è la condizione logica di
esistenza del modo di produzione capitalistico. Esso è eccedenza di tempo di
lavoro sul lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro, di cui il
capitale si appropria senza sborsare equivalente. La giornata lavorativa e così
divisa in due parti: tempo di lavoro necessario (alla riproduzione della
forza-lavoro, ossia a pagarne il valore) e pluslavoro. Finché questa grandezza
viene aumentata attraverso l’estensione del tempo di lavoro o in altre forme
ma senza intaccare il modo di produrre, essa viene chiamata plusvalore
assoluto. Quando invece si interviene sul modo di produrre (per ridurre la
parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione della forza-lavoro)
essa viene chiamata plusvalore relativo. In realtà si può considerare
la prima grandezza il plusvalore in una fase “statica”, la seconda in fase
“dinamica”; le due dimensioni sono compresenti e convivono nella dinamica
complessiva della valorizzazione. Vediamo allora le trasformazioni subite dal
processo lavorativo nella sua forma capitalistica.
La prima che incontriamo è la cooperazione semplice.
Con essa si ha uno sdoppiamento della finalità: da una parte quella del
processo complessivo, il piano collettivo al quale i singoli membri si
conformano; dall’altra quella del singolo processo di ciascun lavoratore. La
posizione sociale di scopo sta al disopra dei singoli lavoratori e ne guida
quella particolare. Questo organismo complessivo trascende i limiti del singolo
e consente l’aumento della produttività del lavoro. Poiché la produzione di
plusvalore relativo sfrutta la produttività del lavoro, la produzione
capitalistica cercherà di instaurare quelle modalità del processo lavorativo
che permettono di raggiungere lo scopo; la cooperazione semplice e ciò che il
capitale trova già pronto nel momento del suo ideale inizio, quando ancora non
ha cominciato a modificare il modo di produrre per renderlo adeguato alle
proprie esigenze. Questo processo ha una dimensione positiva; il modo di
produzione capitalistico è quella fase della storia della riproduzione umana in
cui la socialità non solo esterna della produzione (interazione tra produttori
indipendenti), ma interna (interazione dei produttori sotto la sussunzione dello
stesso scopo complessivo) è condizione strutturale della produzione stessa. Se
in altre epoche vi era questo secondo tipo di cooperazione, essa era
estemporanea e legata alla realizzazione di beni molto particolari. Col modo di
produzione capitalistico essa diviene condizione stabile del processo produttivo
e si allarga tendenzialmente a tutta la riproduzione sociale in virtù della
maggiore produttività della sfera che la applica. Così il modo di produzione
capitalistico è, da un punto di vista logico, il tramite storico per l’effettiva
generalizzazione della socialità del lavoro. Alle esigenze che una maggiore
produttività mette in moto tuttavia la cooperazione semplice non riesce a far
fronte; sulla base della logica interna al capitale si innesca quindi una
spirale di trasformazioni tese ad un ulteriore aumento della produttività per
ottenere maggiore plusvalore che portano alla modifica del modo di lavorare.
Vediamole.
La manifattura è la forma tipicamente capitalistica di
cooperazione che presuppone da una parte la cooperazione semplice e dall’altra
la generalizza decomponendo l’attività artigianale in parti. Il singolo
lavoratore perde la capacità di realizzare il prodotto nel suo intero e così
diviene parte di un organismo complesso di cui rappresenta un momento. Questo
modifica il modo di produrre (Marx, 1861: 291s.; Marx, 1890: 381). Con la
divisione del lavoro manifatturiera lo “essere- parte” diventa qualità
della forza-lavoro [6]. Grazie allo sviluppo della manifattura il carattere sociale del
lavoro esiste realmente, tuttavia si realizza come “forma fenomenica” del
capitale (Marx, 1861: 292; Marx, 1890: 404s.). La socialità del lavoro non è
rappresentata più dalla semplice dipendenza esterna attraverso la circolazione;
oramai è condizione della riproduzione. L’erogazione di forza-lavoro è
adesso possibile solamente in combinazione, il lavoro indipendente non esiste
più da un punto di vista logico (poi anche nella “realtà”, ma non ancora
qui dove siamo al livello della spiegazione teorica della realtà). Il processo
di socializzazione del lavoro che si opera attraverso la divisione del lavoro
manifatturiera ha tuttavia dei limiti qualitativi che non ne fanno una forma
adeguata alla produzione capitalista vera e propria. Se la manifattura, difatti,
crea il “lavoratore-parte”, allo stesso tempo essa richiede che la sua
abilità sia decisiva per la produzione. La divisione del lavoro segna al tempo
stesso il progresso e il limite interno alla manifattura (Marx, 1863: 2021),
dove resta presente e necessaria una gerarchia tra le differenti abilità che si
oppongono alle necessità obiettive della produzione/valorizzazione (Marx, 1890:
393). Il lavoro non si è ancora realmente trasformato in attività puramente
formale alla quale si oppone il capitale. La manifattura quindi sviluppa la
produttività del lavoro, crea una potenzialità produttiva che, ad un dato
momento, entra in contraddizione con la sua base tecnica (Marx, 1890: 412);
così la manifattura è una fase di passaggio ad un livello superiore in cui le
limitazioni saranno superate (Marx, 1863: 2018).
La grande industria è il modo di produrre più adeguato al
mondo di produzione capitalista, perché segna un passaggio fondamentale grazie
alla nuova determinazione del concetto di processo lavorativo. Agendo sul mezzo
di lavoro, lo trasforma in macchina e poi in sistema di macchine; la conseguenza
determinante consiste in questo: il principio sempre soggettivo della
manifattura è rovesciato nell’organizzazione obiettiva della produzione
(Marx, 1890: 428s.). Con ciò il lavoratore non è più solamente parte, ma
appendice (Marx, 1890: 464s. [7]; Marx, 1863:
2015s.). Le condizioni di lavoro utilizzano il lavoratore diventato appendice;
allo stesso tempo la scienza, la conoscenza delle forze naturali, l’elaborazione
tecnologica diventano momenti determinanti nell’organizzazione del processo
produttivo e nella creazione di ricchezza; tuttavia il potere sociale del “general
intellect” appare sotto forma di capitale, separato dell’esistenza dei
lavoratori; questi ultimi si oppongono alla scienza come a qualcosa di esterno
(Marx, 1890: 499ss.).
Da quanto detto emerge che la forma specificamente
capitalistica del modo di produrre - ossia la forma concreta che in esso assume
il processo lavorativo - si caratterizza per le seguenti peculiarità: 1)
carattere cooperativo interno, 2) esser parte ed 3) essere appendice del
lavoratore singolo (fino alla sua tendenziale sostituzione con un automa).
Queste sono le determinazioni formali del lavoro sotto il capitale [8].
4. Quella che abbiamo ricostruito nei capitoli sulla
sussunzione è una “logica d’adeguamento”. Per dare un senso determinato
alla “storicità” del modo di produzione capitalistico Marx deve rendere
conto da un punto di vista teorico, non da un punto di vista meramente
descrittivo, del “tempo interno” del capitale: il modo di produzione
capitalistico deve avere per la logica sua propria un inizio, uno
sviluppo ed una fine per essere storico; è con ciò necessario che la teoria
dia conto delle modalità di sussunzione sotto il nuovo modo di produzione di
quanto il capitale trova come “dato”. Nel suo ideale momento di nascita il
modo di produzione capitalistico ha davanti a sé un mondo che non è stato da
lui plasmato, che non funziona in base alla sua logica; se esiste una fase di
adeguamento è allora necessario spiegare come funzioni. Questa trasformazione
ha delle fasi interne e sopra abbiamo cercato di ricostruire il nesso per cui si
procede dall’una all’altra: si è visto che esiste una sottesa logica
interna in base alla quale è possibile poi spiegare l’effettivo
verificarsi dei relativi fenomeni storici ed empirici. Ma nella quarta sezione
del Capitale non si descrivono questi fenomeni, al contrario: essi
possono essere spiegati solo sulla base della teoria.
Una volta che il capitale funziona a “pieno regime”
(quando ha posto i propri presupposti), le tre caratteristiche sopra indicate
non scompaiono, ma si ripresentano come momenti del suo processo in “figure”
diverse. L’adeguamento del modo di produrre alla valorizzazione si verifica
infatti sempre di nuovo nella dinamica processuale della produzione
capitalistica. Se allora i capitoli dedicati alla sussunzione del lavoro sotto
il capitale permettono di cogliere la logica interna - non la fatticità
empirica - delle trasformazioni cui è soggetto il processo lavorativo una volta
che avviene sottoforma di riproduzione capitalistica, le determinazioni formali
individuate risultano momenti di un processo tendenziale che non si realizza una
volta per tutte, né deve verificarsi meccanicamente in questo ordine, e che non
esclude riflussi verso posizioni precedenti nel caso che la valorizzazione lo
richieda. Fenomeni simili vanno studiati, infatti, nell’ambito della teoria
del ciclo e della crisi; le esigenze di aumentare o ridurre la produttività si
sviluppano a questo livello e si è visto prima che sono proprio problemi legati
alla produttività a determinare il cambiamento del modo di produrre. Resta
attiva la tendenza di fondo per cui a lungo termine essa è crescente, ma il
processo non è affatto lineare o meccanico.
[1] Per tutte le
informazioni sull’edizione v. Mazzone, 2002.
[2] Tutti questi numerosi
materiali sono stati pubblicati per la prima volta nella seconda sezione della
MEGA. Ciò dà quanto meno un’idea delle importanti novità che essa porta
nell’esegesi marxiana; tutte le fasi di elaborazione della teoria del
capitale, bozze, manoscritti, appunti, stesure provvisorie e via dicendo sono
disponibili agli studiosi per la prima volta nella storia della critica.
[3] Ciò non
avrebbe rappresentato d’altra parte che la continuazione della successione “cronologica”
avviata nei primi tre capitoli con la cosiddetta “produzione mercantile
semplice”, categoria in verità del tutto assente dai testi marxiani ed
inventata da Engels (poi largamente diffusa nei vari marxismi). Contro di essa
ormai definitive le critiche. Vedi Backhaus, 1997 e Reichelt, 1970. Sulla
questione vedi anche i contributi di Fineschi e Hecker nel citato Mazzone,
2002.
[4] Per un’esposizione analitica
delle tesi sostenute mi permetto di rimandare a Fineschi, 2001: capp. I e IV.
Sulla sussunzione vedi anche l’importante Badaloni 1980, in cui si tiene ampio
conto della MEGA2.
[5] “Questa definizione del lavoro
produttivo come risulta dal punto di vista del processo lavorativo semplice,
non è affatto sufficiente per il processo di produzione capitalistico” (Marx,
1890: 215).
[6] Marx, 1861: 291s.: “per il lavoratore stesso non ha
luogo alcuna combinazione delle attività. La combinazione è piuttosto una
combinazione delle funzioni unilaterali sotto le quali è sussunto ciascun
lavoratore, ciascun numero di lavoratori o di gruppi. La sua funzione è
unilaterale, astratta, parte. Insieme che si viene a formare e si basa proprio
su questa sua pura esistenza di parte e su questo suo isolamento della
singola funzione. È dunque una combinazione della quale egli costituisce una
parte, combinazione che riposa sul fatto che il suo lavoro non è combinato.
I lavoratori furono dei mattoni di questa combinazione. Ma la combinazione
non è un rapporto che appartenga loro stessi che sia da essi sussunto in quanto
uniti”.
[7] In rapporto al macchinario “il lavoratore
complessivo combinato ossia il corpo lavorativo sociale appare come soggetto
dominante, l’auto meccanico appare come oggetto; nell’altra [sistema di
macchine] l’automa stesso è il soggetto e i lavoratori sono soltanto
coordinati ai suoi organi incoscienti quali organi coscienti e insieme a
quelli sono subordinati alla forza motrice centrale”.
[8] Se
andiamo a vedere i lavori preparatori al Capitale (e qui torniamo al
discorso fatto in apertura), mancando lì la copiosa esemplificazione storica ed
empirica che abbiamo invece nell’opera a stampa, emerge chiaramente come il
fulcro dell’attenzione di Marx consista nell’individuare le leggi teoriche
di movimento nella figurazione che egli ha di fronte. Poi di esse si
cerca conferma in una grande messe di prove empiriche, di dati di fatto a
conferma. Questa è tuttavia una seconda fase, quella della figura storica. La
prima, quella della forma, logicamente la precede e le dà il senso.