1. Dei tre libri che costituiscono Il capitale il
primo è senz’altro il più letto e a ragione: esso è infatti l’unico
pubblicato da Marx, mentre, com’è noto, il secondo ed il terzo sono usciti a
cura di Engels dopo la morte dell’amico. È un criterio di buon senso
privilegiare le opere pubblicate dall’autore stesso rispetto ai
rimaneggiamenti di terzi (per quanto fidati, Engels incluso) ed è legittimo che
la maggior parte delle interpretazioni tradizionali dell’opera marxiana si
siano basate su questo testo. Se è dunque vero che il primo libro funge da
punto di riferimento nell’analisi del complesso lavoro di Marx alla teoria del
“capitale” - un “marasma” di abbozzi, scritture parziali, rielaborazioni
successive redatti nell’arco di 30 anni - alla luce della nuova edizione
critica delle opere dei due - la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe (MEGA2)
assai più complessa si è rivelata la sua storia interna [1]. D’altronde se Il capitale
è concepito da Marx come un “intero dialetticamente articolato” (lettera a
Engels del 31/06/1865), per comprendere fino alla fine il primo volume è
necessario contestualizzarlo nell’ambito più generale dei tre libri e
confrontarlo con tutte le fasi di elaborazione del testo nel suo complesso. Tali
fasi sono quattro: il manoscritto del 1857-58, il manoscritto del 1861-63, il
manoscritto del 1863-65. Questi primi tre passi rappresentano la successiva
riscrittura complessiva di tutta la teoria del capitale. Il 1867 segna un
punto di svolta con l’uscita del primo libro. Il periodo successivo a questa
data si articola in tre direzioni: varie riedizione del primo libro, manoscritti
per il secondo libro, manoscritti per il terzo libro [2].
Che cosa ha a che fare, si chiederà il lettore, questa premessa con l’argomento che intendo trattare? Vediamolo. A fronte della complessa stratificazione di cui sopra, la “sussunzione” del lavoro sotto il capitale è stata assai spesso studiata sul solo primo libro, per giunta decontestualizzata cioè prendendola isolatamente di per sé. Questo è un grave limite su cui in questa sede non si potrà insistere: la sussunzione resta incomprensibile se non la si inserisce - mostrandone l’articolazione, non in modo generico - nella logica complessiva della teoria del capitale (e nella sua stratificata redazione). Tale mancanza incide su altre, la principale è quella indicata nel titolo, ossia la riduzione storicistica e sociologica dell’impianto teorico marxiano: leggere i capitoli su Cooperazione, Manifattura e Grande industria come la “descrizione” o “narrazione” del capitalismo della Rivoluzione industriale, o comunque del capitalismo inglese dell’800 [3]. A ciò ha senz’altro contribuito la prassi espositiva marxiana che, per corroborare la propria posizione, ha arricchito soprattutto Il capitale di numerosissimi esempi storico-descrittivi. Per la legge del contrappasso questa sua volontà di chiarezza si è ritorta contro di lui, facendo passare in secondo piano - o addirittura scomparire - l’impianto teorico che ne stava alla base. Il testo edito da Marx, soprattutto nelle sue parti descrittive, ha legittimato questo tipo di letture che non sono improprie in modo assoluto; sono tuttavia molto riduttive e fanno senz’altro torto al contesto teorico complessivo in cui Marx le cala. Come detto, la sua ricostruzione richiede che se ne affronti la complessità sia teorica che testuale (cfr. le diverse fasi di elaborazione); alla luce di questa analisi complessiva emerge un significato della sussunzione ben più ampio di quello consueto
2. Far parte delle “processo lavorativo” come tale è, secondo Marx, ciò che caratterizza l’attività umana rispetto a quella genericamente animale; questo processo include degli elementi che sono sempre presenti: l’attività lavorativa, il mezzo di lavoro, l’oggetto di lavoro e la posizione di scopo (Marx, 1890: 211ss.) [4]. Se questi elementi sono presenti in qualunque attività produttiva, ciò non significa che a questo livello già si sappia in che modo essi si uniscano, a quale spetti la priorità sugli altri, in quali modalità specifiche si realizzi la loro interazione. Il processo lavorativo come tale allora non indica di per sé alcun modo di produzione, alcuna modalità concreta di produrre. Le diverse fasi storiche della produzione, di cui il modo di produzione capitalistico è una, si caratterizzano invece proprio per una forma specifica di interazione fra questi elementi astrattamente comuni; le modalità in cui essi si uniscono, interagiscono, in cui uno ha la priorità sugli altri caratterizzano via via le singole formazioni economico-sociali; di esse il modo di produzione costituisce l’anima.
Ci sono allora almeno due livelli: 1) processo lavorativo in generale, dove non abbiamo alcuna forma concreta di produzione; proprio poiché esso indica i caratteri astrattamente comuni, non vi si possono distinguere caratteristiche specifiche e 2) il concetto di modo di produzione, dove conosciamo le modalità specifiche in cui quegli elementi si uniscono, dando vita ad una forma particolare di produzione.
Ciò stabilito, possiamo porci la seguente domanda: quali sono le determinazioni specifiche che il processo lavorativo assume nella produzione capitalistica? I capitoli dedicati alla sussunzione sono il luogo in cui Marx dà conto di questa esigenza teorica. Il processo lavorativo in astratto e la forma che esso assume nel modo di produzione capitalistico non sono assunti empirici o descrizioni di fatti; si tratta piuttosto di categorie, di modelli teorici attraverso i quali si cerca di dar conto del funzionamento effettivo della realtà, che può più o meno confermarli.
Errore grave sarebbe confondere i due livelli indicati, anzi identificare quello generale - processo lavorativo - col particolare - riproduzione sociale in forma capitalistica: il risultato consisterebbe nel sostenere l’eternità del modo di produzione capitalistico, esattamente come facevano i classici da lui per questo aspramente criticati. Qui Marx è categorico: la definizione generale del lavoro produttivo, articolata nei momenti suddetti, non è sufficiente a determinare il lavoro produttivo all’interno del modo di produzione capitalistico [5]. Nella misura in cui è sussunto, infatti, il processo lavorativo assume aspetti qualitativi specifici, si forma, adeguandosi alle leggi di movimento del capitale. Questo adeguamento è necessario da un punto di vista teorico, considerata e la natura della riproduzione sociale in forma capitalistica e la natura dell’astratto processo lavorativo: è il loro essere fatti in un certo modo che implica tutta una serie di rapporti che si esplicano nelle forme che andiamo ad analizzare - è la loro logica interna. Vediamo allora come si caratterizza, concettualmente, il modo capitalistico di produzione.
3. La produzione di plusvalore è la condizione logica di esistenza del modo di produzione capitalistico. Esso è eccedenza di tempo di lavoro sul lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro, di cui il capitale si appropria senza sborsare equivalente. La giornata lavorativa e così divisa in due parti: tempo di lavoro necessario (alla riproduzione della forza-lavoro, ossia a pagarne il valore) e pluslavoro. Finché questa grandezza viene aumentata attraverso l’estensione del tempo di lavoro o in altre forme ma senza intaccare il modo di produrre, essa viene chiamata plusvalore assoluto. Quando invece si interviene sul modo di produrre (per ridurre la parte della giornata lavorativa necessaria alla riproduzione della forza-lavoro) essa viene chiamata plusvalore relativo. In realtà si può considerare la prima grandezza il plusvalore in una fase “statica”, la seconda in fase “dinamica”; le due dimensioni sono compresenti e convivono nella dinamica complessiva della valorizzazione. Vediamo allora le trasformazioni subite dal processo lavorativo nella sua forma capitalistica.
La prima che incontriamo è la cooperazione semplice. Con essa si ha uno sdoppiamento della finalità: da una parte quella del processo complessivo, il piano collettivo al quale i singoli membri si conformano; dall’altra quella del singolo processo di ciascun lavoratore. La posizione sociale di scopo sta al disopra dei singoli lavoratori e ne guida quella particolare. Questo organismo complessivo trascende i limiti del singolo e consente l’aumento della produttività del lavoro. Poiché la produzione di plusvalore relativo sfrutta la produttività del lavoro, la produzione capitalistica cercherà di instaurare quelle modalità del processo lavorativo che permettono di raggiungere lo scopo; la cooperazione semplice e ciò che il capitale trova già pronto nel momento del suo ideale inizio, quando ancora non ha cominciato a modificare il modo di produrre per renderlo adeguato alle proprie esigenze. Questo processo ha una dimensione positiva; il modo di produzione capitalistico è quella fase della storia della riproduzione umana in cui la socialità non solo esterna della produzione (interazione tra produttori indipendenti), ma interna (interazione dei produttori sotto la sussunzione dello stesso scopo complessivo) è condizione strutturale della produzione stessa. Se in altre epoche vi era questo secondo tipo di cooperazione, essa era estemporanea e legata alla realizzazione di beni molto particolari. Col modo di produzione capitalistico essa diviene condizione stabile del processo produttivo e si allarga tendenzialmente a tutta la riproduzione sociale in virtù della maggiore produttività della sfera che la applica. Così il modo di produzione capitalistico è, da un punto di vista logico, il tramite storico per l’effettiva generalizzazione della socialità del lavoro. Alle esigenze che una maggiore produttività mette in moto tuttavia la cooperazione semplice non riesce a far fronte; sulla base della logica interna al capitale si innesca quindi una spirale di trasformazioni tese ad un ulteriore aumento della produttività per ottenere maggiore plusvalore che portano alla modifica del modo di lavorare. Vediamole.
La manifattura è la forma tipicamente capitalistica di cooperazione che presuppone da una parte la cooperazione semplice e dall’altra la generalizza decomponendo l’attività artigianale in parti. Il singolo lavoratore perde la capacità di realizzare il prodotto nel suo intero e così diviene parte di un organismo complesso di cui rappresenta un momento. Questo modifica il modo di produrre (Marx, 1861: 291s.; Marx, 1890: 381). Con la divisione del lavoro manifatturiera lo “essere- parte” diventa qualità della forza-lavoro [6]. Grazie allo sviluppo della manifattura il carattere sociale del lavoro esiste realmente, tuttavia si realizza come “forma fenomenica” del capitale (Marx, 1861: 292; Marx, 1890: 404s.). La socialità del lavoro non è rappresentata più dalla semplice dipendenza esterna attraverso la circolazione; oramai è condizione della riproduzione. L’erogazione di forza-lavoro è adesso possibile solamente in combinazione, il lavoro indipendente non esiste più da un punto di vista logico (poi anche nella “realtà”, ma non ancora qui dove siamo al livello della spiegazione teorica della realtà). Il processo di socializzazione del lavoro che si opera attraverso la divisione del lavoro manifatturiera ha tuttavia dei limiti qualitativi che non ne fanno una forma adeguata alla produzione capitalista vera e propria. Se la manifattura, difatti, crea il “lavoratore-parte”, allo stesso tempo essa richiede che la sua abilità sia decisiva per la produzione. La divisione del lavoro segna al tempo stesso il progresso e il limite interno alla manifattura (Marx, 1863: 2021), dove resta presente e necessaria una gerarchia tra le differenti abilità che si oppongono alle necessità obiettive della produzione/valorizzazione (Marx, 1890: 393). Il lavoro non si è ancora realmente trasformato in attività puramente formale alla quale si oppone il capitale. La manifattura quindi sviluppa la produttività del lavoro, crea una potenzialità produttiva che, ad un dato momento, entra in contraddizione con la sua base tecnica (Marx, 1890: 412); così la manifattura è una fase di passaggio ad un livello superiore in cui le limitazioni saranno superate (Marx, 1863: 2018).
La grande industria è il modo di produrre più adeguato al mondo di produzione capitalista, perché segna un passaggio fondamentale grazie alla nuova determinazione del concetto di processo lavorativo. Agendo sul mezzo di lavoro, lo trasforma in macchina e poi in sistema di macchine; la conseguenza determinante consiste in questo: il principio sempre soggettivo della manifattura è rovesciato nell’organizzazione obiettiva della produzione (Marx, 1890: 428s.). Con ciò il lavoratore non è più solamente parte, ma appendice (Marx, 1890: 464s. [7]; Marx, 1863: 2015s.). Le condizioni di lavoro utilizzano il lavoratore diventato appendice; allo stesso tempo la scienza, la conoscenza delle forze naturali, l’elaborazione tecnologica diventano momenti determinanti nell’organizzazione del processo produttivo e nella creazione di ricchezza; tuttavia il potere sociale del “general intellect” appare sotto forma di capitale, separato dell’esistenza dei lavoratori; questi ultimi si oppongono alla scienza come a qualcosa di esterno (Marx, 1890: 499ss.).
Da quanto detto emerge che la forma specificamente capitalistica del modo di produrre - ossia la forma concreta che in esso assume il processo lavorativo - si caratterizza per le seguenti peculiarità: 1) carattere cooperativo interno, 2) esser parte ed 3) essere appendice del lavoratore singolo (fino alla sua tendenziale sostituzione con un automa). Queste sono le determinazioni formali del lavoro sotto il capitale [8].
4. Quella che abbiamo ricostruito nei capitoli sulla sussunzione è una “logica d’adeguamento”. Per dare un senso determinato alla “storicità” del modo di produzione capitalistico Marx deve rendere conto da un punto di vista teorico, non da un punto di vista meramente descrittivo, del “tempo interno” del capitale: il modo di produzione capitalistico deve avere per la logica sua propria un inizio, uno sviluppo ed una fine per essere storico; è con ciò necessario che la teoria dia conto delle modalità di sussunzione sotto il nuovo modo di produzione di quanto il capitale trova come “dato”. Nel suo ideale momento di nascita il modo di produzione capitalistico ha davanti a sé un mondo che non è stato da lui plasmato, che non funziona in base alla sua logica; se esiste una fase di adeguamento è allora necessario spiegare come funzioni. Questa trasformazione ha delle fasi interne e sopra abbiamo cercato di ricostruire il nesso per cui si procede dall’una all’altra: si è visto che esiste una sottesa logica interna in base alla quale è possibile poi spiegare l’effettivo verificarsi dei relativi fenomeni storici ed empirici. Ma nella quarta sezione del Capitale non si descrivono questi fenomeni, al contrario: essi possono essere spiegati solo sulla base della teoria.
Una volta che il capitale funziona a “pieno regime” (quando ha posto i propri presupposti), le tre caratteristiche sopra indicate non scompaiono, ma si ripresentano come momenti del suo processo in “figure” diverse. L’adeguamento del modo di produrre alla valorizzazione si verifica infatti sempre di nuovo nella dinamica processuale della produzione capitalistica. Se allora i capitoli dedicati alla sussunzione del lavoro sotto il capitale permettono di cogliere la logica interna - non la fatticità empirica - delle trasformazioni cui è soggetto il processo lavorativo una volta che avviene sottoforma di riproduzione capitalistica, le determinazioni formali individuate risultano momenti di un processo tendenziale che non si realizza una volta per tutte, né deve verificarsi meccanicamente in questo ordine, e che non esclude riflussi verso posizioni precedenti nel caso che la valorizzazione lo richieda. Fenomeni simili vanno studiati, infatti, nell’ambito della teoria del ciclo e della crisi; le esigenze di aumentare o ridurre la produttività si sviluppano a questo livello e si è visto prima che sono proprio problemi legati alla produttività a determinare il cambiamento del modo di produrre. Resta attiva la tendenza di fondo per cui a lungo termine essa è crescente, ma il processo non è affatto lineare o meccanico. -----
5. Per mostrare concretamente come le categorie formali di cooperazione interna, di essere-parte ed essere-appendice fino alla sostituzione con l’automa si delineino logicamente attraverso la produzione capitalistica, Marx usa come esempio le configurazioni concrete in cui questi processi si sono presentati storicamente, ossia la cooperazione semplice, la manifattura e la grande industria. Attraverso queste figure storiche, quelle forme teoriche hanno fatto il loro ingresso nella produzione capitalistica. Significa questo che le figure coincidono con le forme che rappresentano? Alla luce di quanto si è detto ciò appare una forzatura ed una semplificazione: identificando figura e forma si finisce per sostituire la seconda con la prima e si riduce la teoria del modo di produzione capitalistico alla descrizione storico-sociologica di come funzionava il capitalismo della rivoluzione industriale. Questo modo di procedere ha conseguenze decisive da un punto di vista teorico ma anche politico:
1) considerare il “capitalismo odierno” qualcosa di diverso da quello descritto da Marx. Se invece guardiamo alle determinazioni di forma abbiamo immediatamente la percezione di come le categorie elaborate da Marx non siano poi così estranee all’oggi, anzi di come esse indicassero allora delle linee di tendenza che oggi molto più di allora si sono realizzate su larga scala;
2) considerare lo “operaio massa” l’unico soggetto storico possibile. Se resta vero alla luce di quanto detto che in una configurazione particolare, in una fase della storia del capitalismo, l’operaio massa sia stato effettivamente la figura più rappresentativa della forma, ciò non significa che essa non possa avere altre figurazioni, anche più sviluppate. Ciò che conta - e che vale la pena sottolineare ancora una volta - è che col venir meno di una figura non necessariamente viene meno la forma. In realtà Marx parla di “lavoratore complessivo” (Marx, 1890: 555ss.), che è appunto cooperazione, parcellizzazione ed automazione progressiva del lavoro necessario, sussunzione sotto uno scopo transindividuale; è questo il nuovo “contenuto materiale” che si instaura grazie al modo di produzione capitalistico e come tale non è legato alla “fabbrica” più di quanto non lo sia qualunque altro tipo di attività che rispetti le determinazioni formali indicate. Che invece di lavorare al tornio ci si trovi davanti ad un monitor con una cuffia alla bocca non fa differenza da questo punto di vista.
6. Il lavoratore complessivo si delinea quindi come categoria molto più ampia e complessa di quanto non fosse la figura dell’operaio di fabbrica e può essere interpretato sia intensivamente che estensivamente; se da una parte lo si può leggere come singola unità produttiva, dall’altra, in senso estensivo, vi si può cogliere, nella misura in cui la connessione capitalistica della produzione si realizza su scala sempre più vasta, l’insorgere di un’umanità integrata, di un lavoratore complessivo mondiale [9]. D’altronde è una delle tendenze di fondo del capitale ridurre al minimo il lavoro necessario; il suo limite - che nella crisi si manifesta - consiste nel vincolare comunque la riproduzione sociale all’estrazione di plusvalore a dispetto della grande produttività disponibile. Ma l’insorto contenuto materiale ha proprio nel superamento del lavoro necessario - non nella sua scomparsa assoluta (si bloccherebbe altrimenti la riproduzione sociale) ma nella scomparsa dal processo meccanico di uomini che lo realizzino per recuperarli nel lavoro universale della scienza - uno dei suoi punti di forza epocali; ciò inizia a realizzarsi in forme contraddittorie già sotto il capitale. Stando così le cose la cosiddetta “scomparsa del lavoro” non solo non contraddice la teoria marxiana, ma ne conferma la capacità di previsione.
Se questa è la dinamica epocale in cui giocano le forme individuate anche grazie all’analisi della sussunzione, resta uno dei compiti dello studioso contemporaneo capire quali siano le nuove figure in cui tali forme si realizzino, in che rapporto esse stiano con i capitalismi empirici nazionali e transnazionali, con le circostanze particolari in cui sono calate. Ma confondere le figure con le forme significa far torto alla capacità teorica di Marx, oltre che privarsi di strumenti teorici fondamentali per la comprensione dell’oggi e quindi per la sua trasformazione.
Bibliografia
Backhaus, H.G., 1997. Dialektik der Wertform. Untersuchungen zur Marxschen Ökonomiekritik, Friburgo, ça ira.
Badaloni, N., 1971. Per il comunismo. Questioni di teoria, Torino, Einaudi.
- 1980. Dialettica del capitale, Roma, Editori Riuniti
Cazzaniga, G.M., 1981. Funzione e conflitto. Forme e classi nella teoria marxiana dello sviluppo, Napoli, Liguori.
Fineschi, R., 2001. Ripartire da Marx. Processo storico ed economia politica nella teoria del “capitale”, Napoli, La Città del Sole - Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Marx, K., 1857-58. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, 2 voll., Firenze, La Nuova Italia 1968.
- 1861. Manoscritti del 1861-63, Roma, Editori Riuniti, 1980 (traduzione di MEGA2, II/3.1).
- 1863. Manuskripte 1861-63. Teil 6, in: MEGA2 (seconda sezione, terzo volume, sesto tomo: II/3.6), Berlino, Dietz, 1982.
- 1890. Il capitale, vol. I, Roma, Ed. Riuniti, 19645.
Mazzone, A., 1981. Questioni di teoria dell’ideologia, Messina, La Libra.
- 2002. (a cura di) MEGA2: Marx ritrovato, Roma, Mediaprint (Laboratorio per la Critica Sociale - Collana Sapere Critico n. 2).
Reichelt, H., 1970. La struttura logica del concetto di capitale di Marx, Bari, De Donato, 1973.
[1] Per tutte le informazioni sull’edizione v. Mazzone, 2002.
[2] Tutti questi numerosi materiali sono stati pubblicati per la prima volta nella seconda sezione della MEGA. Ciò dà quanto meno un’idea delle importanti novità che essa porta nell’esegesi marxiana; tutte le fasi di elaborazione della teoria del capitale, bozze, manoscritti, appunti, stesure provvisorie e via dicendo sono disponibili agli studiosi per la prima volta nella storia della critica.
[3] Ciò non avrebbe rappresentato d’altra parte che la continuazione della successione “cronologica” avviata nei primi tre capitoli con la cosiddetta “produzione mercantile semplice”, categoria in verità del tutto assente dai testi marxiani ed inventata da Engels (poi largamente diffusa nei vari marxismi). Contro di essa ormai definitive le critiche. Vedi Backhaus, 1997 e Reichelt, 1970. Sulla questione vedi anche i contributi di Fineschi e Hecker nel citato Mazzone, 2002.
[4] Per un’esposizione analitica delle tesi sostenute mi permetto di rimandare a Fineschi, 2001: capp. I e IV. Sulla sussunzione vedi anche l’importante Badaloni 1980, in cui si tiene ampio conto della MEGA2.
[5] “Questa definizione del lavoro produttivo come risulta dal punto di vista del processo lavorativo semplice, non è affatto sufficiente per il processo di produzione capitalistico” (Marx, 1890: 215).
[6] Marx, 1861: 291s.: “per il lavoratore stesso non ha luogo alcuna combinazione delle attività. La combinazione è piuttosto una combinazione delle funzioni unilaterali sotto le quali è sussunto ciascun lavoratore, ciascun numero di lavoratori o di gruppi. La sua funzione è unilaterale, astratta, parte. Insieme che si viene a formare e si basa proprio su questa sua pura esistenza di parte e su questo suo isolamento della singola funzione. È dunque una combinazione della quale egli costituisce una parte, combinazione che riposa sul fatto che il suo lavoro non è combinato. I lavoratori furono dei mattoni di questa combinazione. Ma la combinazione non è un rapporto che appartenga loro stessi che sia da essi sussunto in quanto uniti”.
[7] In rapporto al macchinario “il lavoratore complessivo combinato ossia il corpo lavorativo sociale appare come soggetto dominante, l’auto meccanico appare come oggetto; nell’altra [sistema di macchine] l’automa stesso è il soggetto e i lavoratori sono soltanto coordinati ai suoi organi incoscienti quali organi coscienti e insieme a quelli sono subordinati alla forza motrice centrale”.
[8] Se andiamo a vedere i lavori preparatori al Capitale (e qui torniamo al discorso fatto in apertura), mancando lì la copiosa esemplificazione storica ed empirica che abbiamo invece nell’opera a stampa, emerge chiaramente come il fulcro dell’attenzione di Marx consista nell’individuare le leggi teoriche di movimento nella figurazione che egli ha di fronte. Poi di esse si cerca conferma in una grande messe di prove empiriche, di dati di fatto a conferma. Questa è tuttavia una seconda fase, quella della figura storica. La prima, quella della forma, logicamente la precede e le dà il senso.
[9] Fra gli anni settanta e ottanta verso quest’interpretazione del “lavoratore complessivo” si sono mossi alcuni studiosi italiani provenienti da diverse prospettive. Cfr. Badaloni, 1971: 185ss., Cazzaniga, 1981: 250ss., Mazzone, 1981:263.