In quest’ultimo scorcio di 2002 è il Sud che dimostra una
grande voglia di lotta e di rivendicazione. Al Nord vanno avanti gli scioperi, e
riescono. Ma è al Sud che avanzano nuove sperimentazioni sociali. Come era
prevedibile, stanco di aspettare la realizzazione di promesse che non
arriveranno mai il Sud fa da sé e prova a costruire un blocco sociale attorno a
un’ipotesi di trasformazione e di avanzamento. Non era scontato, se si pensa a
tutti i tentativi di cancellare il conflitto che sono stati fatti in questi
anni. L’ultimo, poi, il patto per l’Italia è stato letteralmente
"bruciato" già a pochissimi mesi dalla sua nascita.
Ciò che sta accadendo al Sud dal punto di vista dello
sviluppo economico, infatti, è qualcosa di molto particolare. In generale
possiamo dire che il divario con il Nord si sta chiudendo. Ma si sta chiudendo
"al ribasso". Paradossalmente ora è il Sud a fare da modello in
quanto basa la chiave del successo sulla deregulation e il lavoro a basso costo.
È quello che sta accadendo con i call center per esempio, che qualche
imprenditore "illuminato" si ostina a chiamare "servizi alle
imprese". Le aziende del Nord li stanno creando un po’ dappertuttto,
perfino a Enna. La deregulation è ciò che sta costruendo il successo di alcune
imprese come la Micro di Pistorio o la Tiscali di Soru. Anche in altri settori,
come il turismo, l’alimentare, le infrastrutture, lo schema è sempre lo stesso.
Francesco Divella, titolare dell’omonimo pastificio pone la flessibilità del
lavoro al secondo punto della gerarchia delle priorità, subito dopo le
infrastrutture. <Già c’è - dice - ma bisogna ufficializzarla e forse molti
invece di investire in Romania verrebbero al Sud>. Ancora più precisa
l’analisi di Francesco Averna incaricato di Confindustria per il Mezzogiorno.
<Il fenomeno con il quale l’Italia dovrà fare i conti nei prossimi due anni
dice - è l’allargamento dell’Europa a Est. Verso paesi con costi del lavoro
più bassi e che noi non potremo mai offrire. Mi sembra chiaro che, se vogliamo
competere, qualcosa d’altro la dobbiamo trovare. Sia per attrarre investimenti
dall’estero, sia per non far andare all’estero gli investimenti italiani>.Ma
ciò che sta prendendo corpo non è solo la lotta per i diritti che, sotto
questa etichetta è una astratta invenzione della Cgil, ma una rivolta sociale a
più sfaccettature, dalla rivendicazione di un giusto salario al salario
sociale, dalla difesa del posto di lavoro(Fiat e Blu), sia nel pubblico che nel
privato, al no alla privatizzazione dei servizi pubblici, da un nuovo modello di
welfare al bilancio partecipato. Come sempre accade nei grandi periodi di
trasformazione, e il Sud ne sta vivendo in pieno uno importante, le antenne più
sensibili stanno proprio nei fronti più esposti.
A Termini Imerese come a Cosenza, a Melfi come a Marcianise e
a Palermo sembra venire alla ribalta una nuova determinazione al conflitto: non
più e non solo dettata dalla contingenza, però; non più e non solo legata al
modello esclusivo imposto dal ceto sindacale; non più e non solo al ritmo di
fiammate sporadiche. C’è una qualità nuova delle lotte che soltanto chi non
vuole vedere si ostina a classificare come momentanee e spontanee. Sono giudizi
legati a un’idea vecchia di Sud, tutta ritagliata intorno al ribellismo. Non è
più così. E questa qualità è tanto più interessante in quanto viene fuori
immediatamente dopo la sigla del patto per l’Italia che ha tentato di fare del
Sud una sorta di simbolo mediatico delle "magnifiche sorti e
progressive" del nuovo modello di relazioni sindacali tutto fondato sulla
disarticolazione del sindacato, sull’attacco ai diritti, sulle gabbie salariali
e sulla costruzione di un blocco di dominio legato sostanzialmente alla destra.
È una qualità nuova che si tempra, esattamente come
accadeva fino a qualche tempo fa nel Nord, nel durissimo confronto con la grande
impresa (la Fiat) e si allarga immediatamente agli altri ceti sociali
riproponendo in questo una modalità che il Nord ha superato da decenni, quella
dell’estensione politica del conflitto. Al Nord, quello che è accaduto ce
l’abbiamo sotto gli occhi tutti: una sterile compartimentazione se non
addirittura una vera e propria parcellizzazione dei comportamenti sociali. Da
questo punto di vista ciò che sta accadendo in Sicilia è un vero e proprio
laboratorio sociale che mostra i segni di una forte istanza di cambiamento. Una
linea di alleanze sociali che parte dal mondo del lavoro dipendente, che vede
aggrediti i propri diritti, si allaccia ai settori più marginalii, precari e
Lsu e viene rilanciata verso quei ceti medi prossimi alla rovina sociale sotto i
colpi di un capitalismo senza più regole e non più alla ricerca di referenti.
A questa istanza manca ovviamente il programma. Però c’è un
dato interessante: in una sola fase il movimento è riuscito da una parte a
creare un sistema di alleanze, un fronte di lotta, attorno a un unico obiettivo
e, dall’altra, a superare le consuete mediazioni, sia politiche che sindacali,
offerte dal "mercato del consenso".
È una qualità nuova di lotte facilmente rintracciabile,
innanzitutto, in quel magnifico prodursi di soggetti giovani, come è accaduto a
Cosenza. Non è tanto il valore universale della solidarietà che ha messo le
radici, qui e in tutto il Sud. Si è radicata, piuttosto, la convinzione che
"cambiare si può". Ha agito, quindi, come un "sol uomo",
quell’effetto generalizzante che possiedono ancora alcuni eventi sociali
importanti come la difesa del posto di lavoro e del reddito. Si può ricreare
quel clima di partecipazione e di spinta che da una parte è in grado di
elaborare contenuti propri e, dall’altro, rompe i modelli istituzionali e
consolidati del confronto sociale.Vale la pena notare, poi, che l’immissione di
gruppi sociali tradizionalmente ai margini non è solo legata alla
contaminazione agita dalla solidarietà ma a un preciso processo sociale che
vede l’azzeramento dei ceti medi in tutto il paese. E questo si manifesta al Sud
in quanto proprio qui mancano, da sempre, quei meccanismi di ricomprensione e di
mediazione che in altre epoche hanno garantito la pace sociale pur in una
situazione esplosiva. In questo il Sud dimostra una sorta di "insuperabile
modernità". Nel momento in cui si vuole fare di questo territorio la
riserva indiana del lavoro a basso costo e si vuole, attaccando frontalmente il
ceto medio, radere al suolo qualsiasi struttura consolidata in nome del
"prato verde" e dello sfruttamento. Anche questa nuova fase di
sviluppo legata all’imprenditoria giovanile in realtà è tutta basata su un
processo che potremmo chiamare di "accumulazione primaria" facendo
leva su una forza lavoro a basso costo e decisamente flessibile. Insomma,
l’assoluta mancanza di un progetto sociale degno di questo nome costringe il
capitale a chiudere qualsiasi spazio di mediazione possibile e quindi
l’armamentario storico utilizzato fin qui nel Meridione composto di
"prebende e donazioni" per tutti coloro che accettano di farsi
classe-cuscinetto atta a garantire la stabilità sociale non può essere più
utilizzato. Non è possibile stabilire se a questa nuova fase di riapertura del
conflitto corrisponde un nuovo soggetto sociale egemone, in quanto per il
momento l’ambito di generazione della coscienza è tutto alle linee interne
della politica. Un terzo elemento che sembra profilarsi ci indica come la nuova
fase del conflitto non sembra attestarsi su una rivendicazione esclusivamente
sindacale interna a questa o a quella categoria o a questo o quel territorio; o
meglio, nell’ambito delle cosiddette compatibilità sindacali; per quanto
dilatate, infatti, sembrano del tutto estranee alla lotta delle donne del
comitato di Termini Imerese. Non solo, sempre da Termini Imerese ci arriva una
precisa indicazione di lotta sui tempi e sulle condizioni di lavoro: nessuna
bestia alla catena. È uno slogan sono andati a ripetere a Melfi, facendo
irrompere il conflitto in quel "prato verde" chiamato Sata-Fiat.
Questa rivendicazione, non a caso, ha prodotto una frattura tale nel sindacato
che occorreranno mesi per ricomporla.
Quarto, ma non certo ultimo, quasi contemporaneamente gli
stessi soggetti precari, i lavoratori socialmente utili, tanto per fare un
esempio, escono dalla vicenda degli addetti alle pulizie nella scuola, che vede
distribuiti al Sud la stragrande maggioranza dei soggetti interessati (85%),
decisamente rafforzati. Hanno vinto una battaglia per la loro esistenza, non
c’è dubbio. Ed ora possono guardare con maggiori speranze alla loro crescita.
In generale, quello che sta venendo fuori è che man mano che
si apre uno squarcio in ogni singola lotta questa si salda con altre e via via
si viene a costruire una rete difficilmente penetrabile dalla cosiddetta
mediazione politica. Magari sarà pure un meccanismo spontaneo, ma c’è da dire
che poggia su una precisa crisi strutturale. La rete si chiuderà prima o poi. E
non lascerà entrare altri soggetti che pretenderanno di mettersi alla testa del
movimento tentando di ricondurlo al cosiddetto quadro delle compatibiltà. E
allora si noterà tutto il ritardo del sindacalismo confederale che ha pensato
in questi anni di poter agire nel Sud al di là di qualsiasi autentica
impostazione quantomeno vertenziale: trattando cioè questo pezzo di realtà
sociale italiana, e i frammenti che lo compongono, con una impostazione
liquidazionista e centralista. Quando il liquidazionismo non è stato
sufficiente allora si è proceduto a costruire una sorta di cordone sanitario,
come nel caso della Puglia, interessante fucina di lotte che non hanno mai avuto
uno sbocco al di là dei ristretti confini regionali. Non si dimentichi, poi,
che una delle poche proposte che ha visto Cgil, Cisl e Uil muoversi a livello
unitario è stata quella di superare la crisi Fiat a Termini Imerese attraverso
lo strumento della programmazione negoziata, che poi vuol dire la stessa cosa di
Melfi (bassi salari e contratti inferiori in un regime di concertazione
permanente). Il sindacalismo confederale, quindi, non solo è in vistoso ritardo
rispetto ai processi reali ma agisce in un ambito programmatico che ben poco ha
a che vedere con i soggetti sociali nuovi. Oggi si ritrova con ben due armi
spuntate: da una parte il patto per l’Italia e dall’altra la concertazione. La
"doppia crisi" salariale e occupazionale, infatti, sta finendo di
togliere qualsiasi alibi a quel metodo di relazioni sindacali che tanti danni
sociali ha prodotto nel paese. Per uscire dal doppio ricatto
Salario/Occupazione, infatti, non ci sono tante soluzioni: o si ha nel cappello
una proposta politica complessiva iperconcertativa in grado di mettere d’accordo
tutti oppure bisogna mettere mano a un programma generale che unifichi il fronte
di lotta. Il Sud, paradossalmente, rispetto ai cicli precedenti, parte con una
marcia in più in quanto ha già superato sul terreno del conflitto la fase
della omogenizzazione dei vari ceti sociali. Al Nord proprio a causa della
parcellizzazione questa fase è ancora al di là da venire.
Quindi, volenti o nolenti la vicenda di Termini Imerese sta
diventando un modello. Non da sola, certo. C’è stato l’irrompere del movimento
no-global, che proprio al Sud ha uno dei suoi punti di forza e che ha scelto fin
dal primo momento di affiancare le tute blu della Fiat, guarda caso con maggior
forza proprio a Palermo. C’è stato il cambiamento di segno della vicenda dei
lavoratori socialmente utili nel settore degli addetti alle pulizie.
Sono tutti elementi di un quadro, per tornare al sindacato,
che Cgil Cisl e Uil "fanno fatica a ricomporre". Insomma, proprio nel
momento in cui si rimette in moto un fluido sociale di una certa consistenza il
sindacato tutto quello che riesce a fare è insterilire la propria azione
rivendicativa in un ambito istituzionale rivendicando l’intervento dello Stato
al Sud nell’ambito della cosiddetta "Programmazione Negoziata". È
paradossale come il sindacato, proprio su questo punto, continui a rimuovere il
fallimento del patto per l’Italia e della concertazione. Il Sud viene
manifestamente utilizzato per altri scopi, come il tentativo di tenere in piedi
uno straccio di unità sindacale, per esempio. A nessuno passa per l’anticamera
del cervello che è proprio da quelle forze nuove che si stanno affacciando al
conflitto sociale che bisogna ricominciare a tessere la tela. Il limite è
chiaro: questo non può avvenire avendo in testa il punto di vista, misero e
ristretto, della politica: vuoi quella dei partiti, vuoi quella del sindacato.
Occorre rintracciare gli elementi per una piattaforma sociale di ampio respiro.
Il sindacato sembra sbagliare tempi, contenuti e metodi. Solo costruendo una
piattaforma complessiva si può togliere il Sud da quel sistema complessivo dei
ricatti che qualcuno si ostina a chiamare "vertenza".
Torniamo alla vicenda di Termini Imerese perché ancora una
volta è indicativa di un percorso e può chiarire meglio questo concetto. A
Termini Imerese ciò che rivendicano i lavoratori e le lavoratrici, ciò che ha
scritto la società civile sui manifesti è la rivendicazione di un welfare
totale: dal lavoro ai servizi. Vogliono il lavoro e non un posto di lavoro.
Pretendono che in mancanza di reddito qualcuno si occupi di pagare il mutuo. È
un processo che sfugge a una impostazione vertenziale. È un processo che,
addirittura, (cosa che in Italia non accadeva dai tempi del ciclo di lotte ‘68-’77),
sta formando dei nuovi leader. E sta trasformando, provare per credere, un
gruppo di casalinghe in attiviste del movimento. Si sbaglia a pensare che dietro
ci sono solo interessi elettorali di uno schieramento politico, quello di
centrodestra, che ha fatto man bassa nei distretti della regione. C’è un
protagonismo delle lotte e dei soggetti che hanno avuto la capacità di
inseguire la politica e imporgli precise responsabilità. La cosa ancora più
stupefacente è stata che questo vero e proprio processo di critica sociale ha
dato luogo alla formazione di un "soggetto sociale ribelle" che è
passato, sempre nello spazio di quei due fatidici due mesi, da un atteggiamento
di delega totale alla politica a una critica radicale. È chiaro che per fermare
questo processo Cgil, Cisl e Uil possono solo tornare indietro. Tornare, cioè,
alla concertazione.Ognuno di noi, chiuso nei suoi conticini politici, ancora non
ha nemmeno ipotizzato l’esistenza di un fluido sociale di questo genere.
Nessuno, forse, ha voglia di scoprirlo fino in fondo. A cominciare dal
sindacato, ovviamente. Certo, bisogna dare atto al sindacalismo di base di aver
portato avanti alcune linee di rivendicazione contro tutto e contro tutti, come
nel caso della lotta dei lavoratori socialmente utili, e non solo. Ma oggi la
lezione che arriva da Termini Imerese vale per tutti, indistintamente: ritornare
nei processi sociali senza pretendere di spiegarli a priori.