Immigrazione e trasformazione urbana nel meridione: due passi verso la memoria
Paolo Graziano
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“La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei
meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle
generazioni precedenti - scrive Hobsbawm - è uno dei fenomeni più tipici e
insieme più strani degli ultimi anni del Novecento” [1]. Il silenzio della memoria, che impediva ai cittadini
europei di riconoscere nella recente crisi bosniaca l’eco lunga dello sparo
sull’arciduca Francesco Ferdinando, dev’essere apparsa al vecchio storico come
la vera maledizione di fine secolo. Eppure non poteva risultargli davvero
strana: la visione marxiana della società come struttura evolutiva di successo
avrebbe dovuto suggerirgli che la rimozione di modelli, indicazioni, stili di
vita costituiva un passaggio necessario - al tempo stesso effetto e condizione -
della mobilità geografica, della trasformazione del lavoro e di tutti quei
fenomeni che Yergin e Stanislaw propongono ormai di indicare, come se si
trattasse di un processo già completato, con il termine “globalità”.
Non risparmia le “periferie dell’impero”, questa
pianificazione dell’oblio su larga scala: anzi, è proprio al loro interno che
si insinua con decisione il grimaldello della discontinuità, disseminando dei
suoi segni (McDonald’s, grattacieli) qualsiasi paesaggio tradizionale, poiché
un’organizzazione socio-economica globale non ammette una rigida suddivisione
dei ruoli tra centro e periferie, ma richiede che le aree marginali sappiano
diventare il fulcro di processi o fasi di processi necessarie allo sviluppo del
nuovo ordine mondiale.
È questo, a ben vedere, ciò che sta trasformando il
Meridione d’Italia da periferia dello sviluppo industriale in cui il fitto
reticolato produttivo del Nord si sfilacciava nelle maglie scollegate delle “cattedrali
nel deserto”, a centro deputato a compiti specifici come, ad esempio, la
transizione di manodopera a basso costo dai paesi poveri e la penetrazione di
capitali sull’altra sponda del Mediterraneo.
Questa nuova centralità determina, evidentemente, alcune
priorità per il neonato Osservatorio Meridionale di CESTES-Proteo segnalate su
queste pagine da Ernesto Rascato [2]: in
primo luogo, l’analisi della concentrazione di immigrati e della
trasformazione delle cinture metropolitane nel sud.
È ormai noto che la disponibilità di manodopera a basso
costo è la variabile decisiva per lo sviluppo delle attuali forme del
capitalismo, poiché garantisce l’aumento del profitto attraverso l’unica
possibile riduzione dei capitoli di spesa. Se questo è il principio che ha
guidato le politiche di dislocazione di parte della filiera produttiva delle
grandi multinazionali, esso è anche il motivo del massiccio impiego di
immigrati nelle imprese a carattere locale o nazionale e nelle attività
illecite, in cui al vantaggio del costo ridotto del lavoratore si aggiunge
quello costituito dalla sua mobilità, sostituibilità e minore visibilità
sociale. Da circa dieci anni il nostro meridione si sta trasformando nell’immenso
serbatoio italiano ed europeo di questa manodopera diseredata che, per diventare
utilizzabile, necessita di canali d’ingresso, punti di transito, regimi di
controllo e di organizzazione. Ai tradizionali approdi degli immigrati
clandestini, costituiti prevalentemente dalle coste pugliesi e siciliane, si
aggiungono nuove stazioni aeree e terrestri scarsamente controllate, mentre l’attività
di sbarco su alcune tratte, come quella del canale d’Otranto, si riconverte in
senso spiccatamente imprenditoriale. Secondo una ricerca del Centro Studi di
Politica Internazionale, infatti, sulla tratta Valona-Otranto operano 25/35
organizzazioni stabili di scafisti che tendono ad espandere l’attività, “dato
che le competenze relative al trasporto possono essere utilmente impiegate anche
nel trasporto di altre merci illegali”, prevedendo “forti possibilità di
sconto nel caso ad esempio che il migrante sia disponibile a partecipare al
trasporto di altri beni” [3] come la droga.
Alcune zone del sud Italia risultano inoltre ideali per la
gestione dell’ulteriore fase del transito e del controllo, soprattutto per la
presenza di ampi spazi sottratti alla sorveglianza dello Stato [4].
Dopo le faide degli anni ’90, la pacificazione tra mafie meridionali e
criminalità straniera si è tradotta in una spartizione di competenze: alle
organizzazioni locali il controllo sul territorio, a quelle estere il controllo
sulle persone (una prostituta africana nel casertano ha un debito di circa
50.000 euro con la mafia nigeriana e paga 300 euro al mese per l’“affitto”
del marciapiede alla camorra). Questo accordo ha consentito al litorale domitio,
in Campania, di diventare una delle principali piazze d’asta di esseri umani,
dove si possono comprare immigrati da avviare alla prostituzione o al lavoro.
La divisione del lavoro tra gli immigrati è l’ultimo
anello della catena del reclutamento di manodopera garantita dal meridione e
condiziona, naturalmente, le precedenti fasi del trasporto e del controllo. La
distribuzione delle mansioni segue rigidamente tre criteri: l’etnia, il genere
e la provenienza geografica. Questi principi, utili a garantire l’autodisciplina
e l’autoformazione degli immigrati (gli anziani controllano e istruiscono gli
ultimi arrivati con linguaggi e atteggiamenti a loro comprensibili), determinano
la creazione di nuove omogenee categorie di sfruttati: filippini nel lavoro
domestico, pakistani nel settore tessile, senegalesi nel commercio ambulante,
nella mungitura e custodia delle vacche, gli indiani “che garantiscono una
presenza continua (24 ore su 24) e senza distinzione tra giorni feriali e
festivi” [5], operai specializzati provenienti da
paesi ex-comunisti nell’industria, donne nigeriane albanesi e ucraine nella
prostituzione.
È questa specializzazione dello sfruttamento a determinare,
in buona parte, il secondo fenomeno cui si accennava sopra, cioè la
trasformazione di molte aree urbane meridionali. Alle due condizioni abitative
tipiche degli immigrati in Italia - le vecchie case popolari suburbane e i
centri storici non riqualificati [6] - si aggiunge infatti, nel sud, l’insediamento in vere e proprie
cittadelle etniche, collegate e al tempo stesso segregate dai centri urbani,
moderni “non-luoghi” [7] alla rovescia caratterizzati da
una presenza invasiva del caporalato, dall’estrema mobilità dei lavoratori e
dal controllo illecito di qualsiasi circuito economico palese o sommerso. L’ex-villaggio
turistico di Castelvolturno o l’ex-area rurale di San Nicola Varco sono
diventati enormi contenitori di manodopera straniera, in grado di alimentare
attività produttive sparse nel meridione e in tutta Italia. Come gli hobo di
Kerouac, infatti, questi immigrati alternano a periodi di lavoro nelle industrie
del nord l’impiego stagionale nelle campagne meridionali, spostandosi più
volte all’anno dalla Campania alla Puglia (aree suburbane di Foggia e Bari)
per sfruttare i tempi diversi della maturazione di frutta e ortaggi: la raccolta
dei pomodori sul Tavoliere precede di alcune settimane quella nella Piana del
Sele e lo stesso accade per le fragole.
Il circuito dello sfruttamento degli extracomunitari si
chiude con la lucrosa gestione degli affitti nelle aree urbane meridionali,
praticati senza contratto (59%) o in condizioni di libero mercato (28%), mentre
altri regimi locativi più equi risultano quasi assenti [8].
Da questi pochi rilievi credo emerga la presenza, nel
meridione, di situazioni di “disagio sociale totale”, determinate dalla
condizione di nuovi soggetti che patiscono forme di sfruttamento in ogni aspetto
della propria vita, dall’inizio alla fine della loro parabola esistenziale.
È su questa emergenza che s’innesta il compito di recupero
della memoria, enunciato da Rascato al terzo punto del suo programma per l’Osservatorio
Meridionale di CESTES-Proteo. Costruire il dialogo tra l’esperienza dei
cittadini meridionali emarginati dal ciclo produttivo (disoccupati,
cassintegrati, LSU) e quella degli immigrati, collegare il problema dell’abitazione
e del lavoro di questi ultimi alle trascorse lotte dei braccianti calabresi e
all’occupazione delle case di Salerno (ricordate? una delle prime, dopo quelle
milanesi): sono questi i sentieri da percorrere per realizzare un’osservazione
significativa delle trasformazioni del meridione che sia, al tempo stesso, un
contributo al cambiamento. Non solo la tradizione delle lotte degli anni ’60
necessita di essere recuperata, ma anche il ricordo di eventi recenti come l’incendio
del ghetto nero di Villa Literno o la nascita delle prime associazioni di
extracomunitari, rapidamente rimossi dalla memoria collettiva.
È l’anestesia della memoria, infatti, la più preziosa
alleata di una globalizzazione che rischia di fare del meridione una nuova
centrale di reclutamento e sfruttamento dei poveri del mondo.
NOTE
* Insegnante, giornalista
1
2
3
4
5
6
7
8
Paolo Graziano*
Immigrazione e trasformazione urbana nel meridione: due passi verso la
memoria
“La distruzione del passato, o meglio la distruzione dei
meccanismi sociali che connettono l’esperienza dei contemporanei a quella delle
generazioni precedenti - scrive Hobsbawm - è uno dei fenomeni più tipici e
insieme più strani degli ultimi anni del Novecento” [9]. Il silenzio della memoria, che impediva ai cittadini
europei di riconoscere nella recente crisi bosniaca l’eco lunga dello sparo
sull’arciduca Francesco Ferdinando, dev’essere apparsa al vecchio storico come
la vera maledizione di fine secolo. Eppure non poteva risultargli davvero
strana: la visione marxiana della società come struttura evolutiva di successo
avrebbe dovuto suggerirgli che la rimozione di modelli, indicazioni, stili di
vita costituiva un passaggio necessario - al tempo stesso effetto e condizione -
della mobilità geografica, della trasformazione del lavoro e di tutti quei
fenomeni che Yergin e Stanislaw propongono ormai di indicare, come se si
trattasse di un processo già completato, con il termine “globalità”.
Non risparmia le “periferie dell’impero”, questa
pianificazione dell’oblio su larga scala: anzi, è proprio al loro interno che
si insinua con decisione il grimaldello della discontinuità, disseminando dei
suoi segni (McDonald’s, grattacieli) qualsiasi paesaggio tradizionale, poiché
un’organizzazione socio-economica globale non ammette una rigida suddivisione
dei ruoli tra centro e periferie, ma richiede che le aree marginali sappiano
diventare il fulcro di processi o fasi di processi necessarie allo sviluppo del
nuovo ordine mondiale.
È questo, a ben vedere, ciò che sta trasformando il
Meridione d’Italia da periferia dello sviluppo industriale in cui il fitto
reticolato produttivo del Nord si sfilacciava nelle maglie scollegate delle “cattedrali
nel deserto”, a centro deputato a compiti specifici come, ad esempio, la
transizione di manodopera a basso costo dai paesi poveri e la penetrazione di
capitali sull’altra sponda del Mediterraneo.
Questa nuova centralità determina, evidentemente, alcune
priorità per il neonato Osservatorio Meridionale di CESTES-Proteo segnalate su
queste pagine da Ernesto Rascato [10]: in
primo luogo, l’analisi della concentrazione di immigrati e della
trasformazione delle cinture metropolitane nel sud.
È ormai noto che la disponibilità di manodopera a basso
costo è la variabile decisiva per lo sviluppo delle attuali forme del
capitalismo, poiché garantisce l’aumento del profitto attraverso l’unica
possibile riduzione dei capitoli di spesa. Se questo è il principio che ha
guidato le politiche di dislocazione di parte della filiera produttiva delle
grandi multinazionali, esso è anche il motivo del massiccio impiego di
immigrati nelle imprese a carattere locale o nazionale e nelle attività
illecite, in cui al vantaggio del costo ridotto del lavoratore si aggiunge
quello costituito dalla sua mobilità, sostituibilità e minore visibilità
sociale. Da circa dieci anni il nostro meridione si sta trasformando nell’immenso
serbatoio italiano ed europeo di questa manodopera diseredata che, per diventare
utilizzabile, necessita di canali d’ingresso, punti di transito, regimi di
controllo e di organizzazione. Ai tradizionali approdi degli immigrati
clandestini, costituiti prevalentemente dalle coste pugliesi e siciliane, si
aggiungono nuove stazioni aeree e terrestri scarsamente controllate, mentre l’attività
di sbarco su alcune tratte, come quella del canale d’Otranto, si riconverte in
senso spiccatamente imprenditoriale. Secondo una ricerca del Centro Studi di
Politica Internazionale, infatti, sulla tratta Valona-Otranto operano 25/35
organizzazioni stabili di scafisti che tendono ad espandere l’attività, “dato
che le competenze relative al trasporto possono essere utilmente impiegate anche
nel trasporto di altre merci illegali”, prevedendo “forti possibilità di
sconto nel caso ad esempio che il migrante sia disponibile a partecipare al
trasporto di altri beni” [11] come la droga.
Alcune zone del sud Italia risultano inoltre ideali per la
gestione dell’ulteriore fase del transito e del controllo, soprattutto per la
presenza di ampi spazi sottratti alla sorveglianza dello Stato [12].
Dopo le faide degli anni ’90, la pacificazione tra mafie meridionali e
criminalità straniera si è tradotta in una spartizione di competenze: alle
organizzazioni locali il controllo sul territorio, a quelle estere il controllo
sulle persone (una prostituta africana nel casertano ha un debito di circa
50.000 euro con la mafia nigeriana e paga 300 euro al mese per l’“affitto”
del marciapiede alla camorra). Questo accordo ha consentito al litorale domitio,
in Campania, di diventare una delle principali piazze d’asta di esseri umani,
dove si possono comprare immigrati da avviare alla prostituzione o al lavoro.
La divisione del lavoro tra gli immigrati è l’ultimo
anello della catena del reclutamento di manodopera garantita dal meridione e
condiziona, naturalmente, le precedenti fasi del trasporto e del controllo. La
distribuzione delle mansioni segue rigidamente tre criteri: l’etnia, il genere
e la provenienza geografica. Questi principi, utili a garantire l’autodisciplina
e l’autoformazione degli immigrati (gli anziani controllano e istruiscono gli
ultimi arrivati con linguaggi e atteggiamenti a loro comprensibili), determinano
la creazione di nuove omogenee categorie di sfruttati: filippini nel lavoro
domestico, pakistani nel settore tessile, senegalesi nel commercio ambulante,
nella mungitura e custodia delle vacche, gli indiani “che garantiscono una
presenza continua (24 ore su 24) e senza distinzione tra giorni feriali e
festivi” [13], operai specializzati provenienti da
paesi ex-comunisti nell’industria, donne nigeriane albanesi e ucraine nella
prostituzione.
È questa specializzazione dello sfruttamento a determinare,
in buona parte, il secondo fenomeno cui si accennava sopra, cioè la
trasformazione di molte aree urbane meridionali. Alle due condizioni abitative
tipiche degli immigrati in Italia - le vecchie case popolari suburbane e i
centri storici non riqualificati [14] - si aggiunge infatti, nel sud, l’insediamento in vere e proprie
cittadelle etniche, collegate e al tempo stesso segregate dai centri urbani,
moderni “non-luoghi” [15] alla rovescia caratterizzati da
una presenza invasiva del caporalato, dall’estrema mobilità dei lavoratori e
dal controllo illecito di qualsiasi circuito economico palese o sommerso. L’ex-villaggio
turistico di Castelvolturno o l’ex-area rurale di San Nicola Varco sono
diventati enormi contenitori di manodopera straniera, in grado di alimentare
attività produttive sparse nel meridione e in tutta Italia. Come gli hobo di
Kerouac, infatti, questi immigrati alternano a periodi di lavoro nelle industrie
del nord l’impiego stagionale nelle campagne meridionali, spostandosi più
volte all’anno dalla Campania alla Puglia (aree suburbane di Foggia e Bari)
per sfruttare i tempi diversi della maturazione di frutta e ortaggi: la raccolta
dei pomodori sul Tavoliere precede di alcune settimane quella nella Piana del
Sele e lo stesso accade per le fragole.
Il circuito dello sfruttamento degli extracomunitari si
chiude con la lucrosa gestione degli affitti nelle aree urbane meridionali,
praticati senza contratto (59%) o in condizioni di libero mercato (28%), mentre
altri regimi locativi più equi risultano quasi assenti [16].
Da questi pochi rilievi credo emerga la presenza, nel
meridione, di situazioni di “disagio sociale totale”, determinate dalla
condizione di nuovi soggetti che patiscono forme di sfruttamento in ogni aspetto
della propria vita, dall’inizio alla fine della loro parabola esistenziale.
È su questa emergenza che s’innesta il compito di recupero
della memoria, enunciato da Rascato al terzo punto del suo programma per l’Osservatorio
Meridionale di CESTES-Proteo. Costruire il dialogo tra l’esperienza dei
cittadini meridionali emarginati dal ciclo produttivo (disoccupati,
cassintegrati, LSU) e quella degli immigrati, collegare il problema dell’abitazione
e del lavoro di questi ultimi alle trascorse lotte dei braccianti calabresi e
all’occupazione delle case di Salerno (ricordate? una delle prime, dopo quelle
milanesi): sono questi i sentieri da percorrere per realizzare un’osservazione
significativa delle trasformazioni del meridione che sia, al tempo stesso, un
contributo al cambiamento. Non solo la tradizione delle lotte degli anni ’60
necessita di essere recuperata, ma anche il ricordo di eventi recenti come l’incendio
del ghetto nero di Villa Literno o la nascita delle prime associazioni di
extracomunitari, rapidamente rimossi dalla memoria collettiva.
È l’anestesia della memoria, infatti, la più preziosa
alleata di una globalizzazione che rischia di fare del meridione una nuova
centrale di reclutamento e sfruttamento dei poveri del mondo.
[1] E. Hobsbawm, Il secolo
breve, 2000, p.14.
[2] Cfr. E. Rascato, “Nasce l’Osservatorio
Meridionale di CESTES-Proteo”, Proteo n. 2, maggio-agosto 2002, pp. 3-5.
[3] F. Pastore - P. Romani - G. Sciortino, L’Italia
nel sistema internazionale del traffico di persone. Risultanze investigative,
ipotesi interpretative, strategie di risposta, Centro Studi di Politica
Internazionale e Commissione per le Politiche di Integrazione degli Immigrati,
2000, pp. 18-19.
[4] Sulla convivenza
di spazi anarchici e spazi regolati nel meridione e sul relativo ripensamento di
categorie come Gemeinschaft (comunità) e Geselleschaft (società) si veda P. A.
Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino, 1974.
[5] M. Strozzi, Immigrazione straniera ed economia irregolare: rassegna
dei principali contributi relativi ai nuovi paesi europei di accoglimento,
Commissione per le politiche d’integrazione degli immigrati, Roma, 2000, p.
26. Si consideri al proposito la quasi inesistenza di materie connesse alla
condizione dei lavoratori immigrati nei contratti di categoria: soltanto 30
contratti su 350 (8%) e 8 accordi aziendali su 850 (0,94%) prevedono clausole
relative alla situazione dei lavoratori stranieri. Ciò potrebbe essere
interpretato come un segno della normalizzazione del lavoro degli immigrati,
equiparato pienamente a quello degli italiani. Le persistenti differenze di
fatto, però, inducono a pensare che si tratti piuttosto di una difficoltà del
sindacato ad offrire tutele agli extracomunitari, accentuata dal loro impiego in
settori ostici per l’azione sindacale. Per i dati cfr. il Secondo rapporto
sull’immigrazione, IRES-CGIL, 2002.
[6] Cfr. A. Lanzani, “Modelli insediativi, forme
di coabitazione e mutamento dei luoghi urbani”, Urbanistica n. 111, 1998, pp.
32-40.
[7] Per Marc Augé i “non-luoghi” sono aree in cui la
normale eterogeneità della composizione sociale e delle funzioni del territorio
è artificiosamente annullata, come avviene ad esempio nei parchi-vacanze. Cfr.
M. Augé, Nonluoghi, Elèuthera, Milano, 1993.
[8] Cfr. Condizioni
abitative degli immigrati in Italia, Ricerca SUNIA ANCAB-LEGACOOP, disponibile
su http://www.sunia.it/files/home1.html
[9] E. Hobsbawm, Il secolo
breve, 2000, p.14.
[10] Cfr. E. Rascato, “Nasce l’Osservatorio
Meridionale di CESTES-Proteo”, Proteo n. 2, maggio-agosto 2002, pp. 3-5.
[11] F. Pastore - P. Romani - G. Sciortino, L’Italia
nel sistema internazionale del traffico di persone. Risultanze investigative,
ipotesi interpretative, strategie di risposta, Centro Studi di Politica
Internazionale e Commissione per le Politiche di Integrazione degli Immigrati,
2000, pp. 18-19.
[12] Sulla convivenza
di spazi anarchici e spazi regolati nel meridione e sul relativo ripensamento di
categorie come Gemeinschaft (comunità) e Geselleschaft (società) si veda P. A.
Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino, 1974.
[13] M. Strozzi, Immigrazione straniera ed economia irregolare: rassegna
dei principali contributi relativi ai nuovi paesi europei di accoglimento,
Commissione per le politiche d’integrazione degli immigrati, Roma, 2000, p.
26. Si consideri al proposito la quasi inesistenza di materie connesse alla
condizione dei lavoratori immigrati nei contratti di categoria: soltanto 30
contratti su 350 (8%) e 8 accordi aziendali su 850 (0,94%) prevedono clausole
relative alla situazione dei lavoratori stranieri. Ciò potrebbe essere
interpretato come un segno della normalizzazione del lavoro degli immigrati,
equiparato pienamente a quello degli italiani. Le persistenti differenze di
fatto, però, inducono a pensare che si tratti piuttosto di una difficoltà del
sindacato ad offrire tutele agli extracomunitari, accentuata dal loro impiego in
settori ostici per l’azione sindacale. Per i dati cfr. il Secondo rapporto
sull’immigrazione, IRES-CGIL, 2002.
[14] Cfr. A. Lanzani, “Modelli insediativi, forme
di coabitazione e mutamento dei luoghi urbani”, Urbanistica n. 111, 1998, pp.
32-40.
[15] Per Marc Augé i “non-luoghi” sono aree in cui la
normale eterogeneità della composizione sociale e delle funzioni del territorio
è artificiosamente annullata, come avviene ad esempio nei parchi-vacanze. Cfr.
M. Augé, Nonluoghi, Elèuthera, Milano, 1993.
[16] Cfr. Condizioni
abitative degli immigrati in Italia, Ricerca SUNIA ANCAB-LEGACOOP, disponibile
su http://www.sunia.it/files/home1.html