Rubrica
Tendenze della competizione globale

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Joseph Halevi
Articoli pubblicati
per Proteo (7)

Joseph Halevi è docente di economia all’Università di Sydney in Australia e, periodicamente, insegna in Francia alle università di Grenoble (Pierre Mendès France) e di Nizza

Argomenti correlati

Competizione globale

Europa

Germania

Poli imperialistici

Nella stessa rubrica

Sul capitalismo tedesco
Joseph Halevi

Risorse energetiche e controllo geopolitico.Il Grande Gioco nell’Asia centrale
Sergio Cararo

Perché la guerra fa bene all’economia (I)
Vladimiro Giacché

Lo scontro geoeconomico per il controllo dell’”ombelico del mondo”
Rita Martufi, Luciano Vasapollo

 

Tutti gli articoli della rubrica "Tendenze della competizione globale"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Sul capitalismo tedesco

Joseph Halevi

Formato per la stampa
Stampa

Questo marchingegno, messo in cantiere nel 1969, varato negli anni settanta e applicato con successo negli anni ottanta grazie allo SME, impedisce ogni politica keynesiana ma ciò significa che il keynesismo è una chimera riformista in cui credono, poverini, solo i sindacati ed alcuni universitari emarginati. Nelle condizioni di economie aperte ed interdipendenti come quelle europee, la ripresa tedesca fondata sull’espansione interna portò nel 1990 ad una prima riduzione del surplus con l’estero che si trasformò in deficit nel 1991 segnatamente ad un tasso di inflazione superiore a quello europeo. Era necessario quindi bloccare tutto e così avvenne immancabilmente. L’arresto dell’espansione tedesca fu effettuato attraverso l’aumento dei tassi di interesse da parte della Bundesbank comportando il crollo in due tempi - nel 1992 e nel 1993 - dello SME. Ciò condusse, volutamente, ad una rivalutazione del marco rispetto alle maggiori monete europee, ad eccezione del franco francese, che durò fino al 1996 quando la politica della Bundesbank venne bloccata dalle forze conservatrici francesi. L’idea della Bundesbank era quindi di rilanciare il marchingegno varato dai socialemocratici nel 1969 in condizioni però talmente differenti da mutare i contenuti stessi della strategia.

Anche durante l’esistenza del blocco sovietico la Germania di Bonn esercitava un’importante egemonia economica in Europa orientale ed in Jugoslavia. Dopo il 1989 la politica estera tedesca diventò apertamente espansionsita fondandosi su un pirandelliano gioco delle parti tra Mitterrand e Kohl. Il terreno di gioco non fu l’assorbimento della Germania est, un’operazione condotta in combutta con Mosca e Washington senza praticamente consultare gli altri membri della “comunità” detta europea. Il macabro banco di prova fu la Jugoslavia. In forma del tutto unilaterale Bonn si lanciò nell’operazione di smembramento del paese sostenendo a spada tratta la secessione unilaterale della Slovenia e della Croazia, paesi pronti a diventare satelliti del capitale tedesco, ben sapendo che, innescando un processo a catena, l’operazione avrebbe comportato lo scoppio della guerra civile in Bosnia la cui stabilità dipendeva dai rapporti tra la Serbia e la Croazia. Sebbene inizialmente riluttante la Francia, accompagnata con ancor maggior reticenza dalla Gran Bretagna, assecondò l’espansionismo tedesco mentre il Vaticano e quindi l’Italia lo appoggiarono pienamente. Contemporanemante il presidente francese Mitterrand, coadiuvato in maniera determinante dall’Italia e da Giulio Andreotti in particolare, manovrò per portare la Germania in un patto europeo volto in realtà a sancire una gestione franco-tedesca dell’oligopolio europeo vagheggiato dal corporativista cristiano-sociale Jacques Delors. Il patto, noto come Trattato di Maastricht, accettava tutti i criteri deflazionistici della Bundesbank, i quali andavano bene anche al resto del capitale europeo-continentale in quanto, con l’eternizzazione della disoccupazione e della precarietà occupazionale, imponevano senza mezzi termini una politica di deflazione salariale permanente.

Per la Germania però la situazione stava mutando radicalmente. Nella sostanza il crollo del muro di sostegno ad est trasformava l’egemonia economica in aperta spinta neoimperialista. In altri termini si apriva la possibilità di formare una periferia, costituita dalle suddette ex repubbliche jugoslave, dall’Ungheria, dalla repubblica ceca e slovacca, dalla Polonia e dai paesi baltici, funzionalmente legata alla Germania. Questa zona periferica avrebbe ricevuto capitale tedesco i cui investimenti le avrebbero poi permesso di esportare prodotti più a buon mercato e tecnologicamente inferiori a quelli delle Germania. Viceversa la maggioranza delle importazioni ad alto valore aggiunto sarebbero venute dalla Germania stessa. Al capitale tedesco, in quanto forza egemone, si delineavano ulteriori spazi di intervento in Ucraina e perfino nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia. In quest’ultimo caso i rapporti preferenziali curati da lungo tempo con la Turchia promettevano la possibilità di sfruttare i legami che Ankara andava stabilendo con le repubbliche sovietiche di matrice turcomanna. Alla dinamica neoimperialista esplosa dopo la caduta del muro di sostegno sovietico si aggiungeva la necessità di espandere gli investimenti in Asia orientale (Cina, Indonesia, Thailandia) per ottenere delle eccedenze nette nelle esportazioni per controbilanciare il crescente deficit nei confronti del Giappone. L’appetito espansivo arrivò al punto che verso la metà dello scorso decennio enti governativi e gruppi privati parlarono di grandi progetti di sviluppo tra i quali la costruzione di assi ferroviari che collegassero la Turchia all’Iran e quest’ultimo alle ex repubbliche asiatiche dell’Urss per sfociare poi in Cina alla stregua dell’antica via della seta.

Per l’attuazione di tutte queste ambizioni e soprattutto della concretissima spinta all’est ci vogliono soldi, nel senso che bisogna prima spendere e poi attendere un bel po’ di tempo per incassare i profitti. Fintanto che il sistema tedesco, garantito ad est dal muro di cinta, generava eccedenze con l’estero, il finanziamento delle attività internazionali delle società tedesche poteva effettuarsi senza inficiare la posizione internazionale del marco. Tuttavia le nuove ambizioni coincidevano con il declino e la perdita, nel 1992, dell’attivo nella bilancia dei pagamenti corrente ponendo alle autorità di Bonn il problema di riaffermare la centralità del marco schiacciando l’inflazione e la ripresa economica interna. La scelta di aumentare i tassi di interesse significava non solo reimporre la deflazione salariale e la pressione sulle imprese affinchè si ristrutturassero ulteriormente per rilanciare le esportazioni ma anche attingere al sistema bancario e finanziario internazionale. In questo contesto, se la crisi dello SME ha estinto il progetto di Delors di una gestione paritetica dell’oligopolio europeo, la strada intrapresa dalle autorità di Bonn non ha però reinnescato il processo di accumulazione. Anzi i risultati sono stati piuttosto deludenti ripercuotendosi negativamente sulla compatezza del sistema economico nazionale.

Dopo la seconda crisi monetaria europea del 1993 si aprirono due fasi. La prima, che durò fino al 1996, è caratterizzata dal perseverare da parte della Bundesbank di una politica di alti tassi di interesse e quindi di un alto valore del marco. In questa fase la vulnerabilità dell’economia tedesca nei confronti delle importazioni aumenta e si aggrava il deficit complessivo nei conti con l’estero malgrado il rinnovato sforzo effettuato nel campo delle esportazioni industriali. Le difficoltà sono asscrivibili soprattutto alla stagnazione europea iniziata già nel 1991. Benchè dal 1992 in poi la dinamica tedesca piombasse ad un livello inferiore a quella del resto dell’Unione Europea, la minore crescita non ribalta il quadro complessivo della bilancia dei pagamenti. Inoltre luogo la lenta ripresa americana accompagnata da un dollaro debole non facilita le cose. Dal 1993 al 1996 incluso la formazione di capitale fisso è negativa, confermando così la severità della recessione europea e nazionale ed il prezzo esatto dagli alti tassi di interesse. La seconda fase inizia nel 1996 con il riallineamento di alcune monete europee - come la lira italiana - sul marco fino alla fissazione del tasso di cambio in base al quale verrà poi realizzato il passaggio ai tassi Euro nel 1999. L’accelerazione della crescita USA, questa volta accompagnata da una rivalutazione del dollaro, nonché la riduzione dei tassi di interesse europei e la rivalutazione di alcune monete europee permise una certa ripresa degli investimenti interni e delle esportazioni nette.

Tuttavia non è emersa alcuna tendenza forte, il sistema gravita verso la stagnazione sulle cui sabbie sembra arenarsi nel 1999 per disincagliarsi momentaneamente nel 2000 riapprodandovi infine nella prima metà 2001. Nella sostanza il paese si installa nella stagnazione senza contropartite positive sull’estero. Il saldo della bilancia dei pagamenti permane negativo e soprattutto gli introiti netti da investimenti all’estero, che il sistema finanziario e delle imprese del paese venivano accumulando dal 1982, si trasformano in passivi (esborsi) netti. Il tutto accade malgrado la tendenza al rialzo dei margini unitari di profitto causata dalla diminuzione del costo del lavoro e dalla riduzione dei prezzi all’importazione che apportano anche un miglioramente nelle ragioni di scambio. La situazione si cristallizza dunque in un quadro prettamente oligopolistico-recessivo in cui la deflazione salariale e la conseguente riduzione del costo del lavoro non riaccendono il processo di accumulazione produttiva. Esse aggravano semmai il contesto stagnazionistico indebolendo la domanda interna. Eureka! eureka! Perché non fare soldi attraverso i soldi? Certo bisognerà mettere le mani sulla struttura organizzativa del capitalismo industriale tedesco che lo stesso Kohl era molto reticente a ritoccare. Ma c’è pur sempre la SPD con il suo controllo sui sindacati.

 

6. Confusione e chimere

Nel capitalismo oligopolistico l’aumento dei margini di profitto non conduce necessariamente ad un maggiore investimento, può invece aggravare la stagnazione. Al tempo stesso le imprese sosno sollecitate rafforzare ulteriormente i margini di profitto quando subentrano considerazioni di natura finanziaria legate al pagamento di dividendo e/o all’ottenimento di prestiti dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la finanziarizzazione dei processi decisionali implica la trasformazione di attività in passività finanziarie future. Per esempio se, come accade in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, una società si impegna comunque a pagare dei dividendi, l’emissione azionaria considerata come un attivo dal lato finanziario si trasforma in un esborso e quindi in passività. Se invece la società conserva la libertà effettiva di non distribuire dividendi, sottomettendo tale possibilità alla propria strategia di sviluppo, la traslazione di attività in passività non avviene automaticamente. Negli Stati Uniti il crescente ricorso ad istituzioni finanziarie extra bancarie obbliga vieppiù le imprese ad onorare l’impegno di erogare dividendi. Inoltre l’intercompenetrazione tra ‘mercati finanziari’ e fondi di investimento impone decisamente alle imprese di seguire una doppia linea che poco ha a che fare con l’investimento reale di lungo periodo. Da un lato esse devono garantire i pagamenti ai detentori di pacchetti di azioni, in larga parte in mano a società finanziarie. Dall’altro lato le imprese devono assicurare che le azioni esibiscano valori tendenzialmente crescenti. La dinamica della capitalizzazione borsistica diventa così un elemento essenziale nella capacità di ottenere prestiti e di emettere strumenti di indebitamento come le obbligazioni. La consistenza del valore dei dividendi e delle azioni è valutata in termini reali, viene cioè paragonata all’andamento dell’inflazione e del saggio di interesse. In tal modo le imprese devono endogeneizzare il comportamento anti-inflazionistico. Dati quindi i prezzi, vi è un solo modo per conseguire un saggio di rendimento monetario coerente con le valutazioni generate dai ‘mercati finanziari’: aumentare i margini di profitto. Proprio perché i prezzi sono dati, ciò implica la riduzione del costo del lavoro (salario) unitario. In teoria la riduzione dei costi di produzione può effettuarsi tramite gli investimenti produttivi. Quest’ultimi però dipendono principalmente dalla domanda ed hanno perciò un orizzonte temporale molto diverso dall’immediatezza richiesta dai ‘mercati finanziari’. Ne consegue che la pressione principale viene esercitata sul salario stesso.

Quanto descritto corrisponde al comportamento dell’economia americana negli ultimi due decenni che ha comportato una crisi senza ritorno nel salario della grande massa dei lavoratori statunitensi [1]. Questo tipo di accumulazione finanziaria si risolve in un grande numero di persone allo sbando, anche se formalmente occupate, per le quali l’accesso ai servizi ed alle prestazioni pubbliche di natura sociale è vieppiù subordinato al principio dell’obbligo reciproco. Ancora alla fine degli anni ottanta la Germania era lontana anni-luce da questa visione della società, possibile solo in un’economia totalmente spanata, disarticolata ed autoritaria come quella americana. In Germania la stessa deflazione salariale era concepita in termini produttivistici: ristrutturare tecnologicamente - non finanziariamente - per aumentare la produttività rispetto al salario. Se i risultati erano positivi in termini di profitto i sindacati cercavano di far scattare la contrattazione aziendale che poi diventava un elemento nella contrattazione di categoria. È su questa base che, nella sostanza, i sindacati hanno accettato la strategia neomercantilista varata dai socialdemocratici nel 1969 e continuata da Kohl nel 1983, le cui conseguenze stagnazionistiche e altamente negative in termini occupazionali per la Germania e l’insieme dell’Europa sono già state discusse. Una forza lavoro occupata allo sbando è inconcepibile in Germania, ma è proprio questo che Schroeder vuole sradicare dalla testa della popolazione [2].

Sul finire degli anni ottanta il tentativo della Pirelli di assorbire la Continental mostrò la compattezza del sistema banca-industria vigente in Germania. L’operazione fallì perché attraverso il meccanismo di partecipazioni incrociate alla base del suddetto sistema, la Pirelli avrebbe finito per acquistare una fetta dell’economia tedesca. Il caso venne addirittura preso come esempio della differenza tra il modello angloamercano e quello renano. Tuttavia l’espansione delle attività dei fondi di pensione americani contribuiva ad alimentare i venti di guerra i quali si fecero sentire alcuni anni dopo quando la Germania era già in crisi ed aspirava ad attingere copiosamente ai mercati finanziari internazionali. Nel 1992 un fondo di pensioni Usa, il California Public Employees Retirement System, con partecipazione nella società RWE attaccò i criteri di votazione dell’assemblea degli azionisti. L’attacco era diretto al meccanismo che in base ad una legge del 1924 conferiva diritti di voto multipli ai rappresentanti degli enti locali sul cui territorio si situano gli impianti della società. La manovra pur non avendo successo, dimostrò però la natura del rimescolamento di carte in atto. Spinte verso una maggiore autonomia finanziaria, grazie alla crescita speculativa dei mercati borsistici, venivano dalle stesse società oligopolistiche. Importante, in questo contesto, è il passaggio effettuato da grandi aziende al sistema di contabilità americano che, contrariamente ai metodi allora in vigore in Germania, valorizza la redditività monetaria delle azioni e la diversificazione dei prodotti cartacei. Questi mutamenti venivano introdotti anche con l’obiettivo di iscriversi al listino della borsa di New York.

La stagnazione economica e degli investimenti - motore principale dei profitti tramite la produzione - allenta i legami di coordinazione tra banca e industria e spinge sia la prima che la seconda a ricercare ricchezza nel campo finanziario. Di conseguenza la tendenza all’aumento dei margini di profitto durante lo scorso decennio ha corrisposto alla volontà di sostenere il rendimento per azione piuttosto che a rilanciare la dinamica produttiva. Ma la concretizzazione di tali tendenze e desideri in orientamenti di fondo richiede l’intervento della politica ed il Governo di Kohl era frenato dal suo stesso conservatorismo. Con l’arrivo della coalizione social-verde nel 1997 i mutamenti ora accennati diventano la linea principale della politica governativa.

Innanzitutto la strategia lanciata da Schroeder nota come alleanza per l’occupazione si basa sull’idea che gli aumenti salariali sono un ostacolo al riassorbimento della disoccupazione. Ovviamente questa spiegazione, tra l’altro errata sul piano concettuale, non è che un pretesto. Dal patto produttivistico orientato verso le esportazioni dei decenni settanta-ottanta, che comunque si è fondato su uno spostamento della distribuzione del reddito in favore del capitale e dei profitti senza tuttavia rilanciare il tasso di crescita reale, il governo social-verde di Schroeder è passato alla subordinazione dei sindacati ad una politica che pone le rendite azionarie - e quindi la valutazione proveniente dai mercati finanziari - al primo piano [3]. Inoltre e coerentemente con tale scelta, il Governo ha lanciato una riforma fiscale e dell’azionariato, la cui entrata in vigore è prevista quest’anno (2002), volta a facilitare le transazioni di pacchetti azionari e le stesse scalate ‘ostili’. Commentando tali misure l’International Herald Tribune ha giustamente osservato che esse aprivano la strada a radicali ristrutturazioni occupazionali destinate ad alterare profondamente il panorama sociale del paese e quindi dell’Europa. Infine la coalizione social-verde si sta battendo per spostare il sistema pensionistico verso i fondi di pensione proponendo finanziamenti pubblici agli schemi privatistici.

Data la natura altamente organizzata del capitalismo tedesco, i mutamenti vengono concepiti gradualmente. Nel frattempo i socialdemocratici cercano di organizzare il consenso intorno alla chimera finanziaria. “Il principio è nuovo” ha dichiarato con approvazione Erich Standfest, specialista di politica sociale del sindacato confederale DGB, aggiungendo: ”il fondo permetterà di allargare le possibilità dei piazzamenti facendo in particolare maggiormente appello ai mercati borsistici” [4]. La chimera risiede nel fatto che si spera di accrescere il patrimonio pensionistico riducendo, al contempo, i contributi sociali erogati dalle aziende. Lo sgonfiamento della bolla di Wall Street e l’ulteriore aggravamento della stagnazione stanno riaprendo la contraddizioni inerenti a tali strategie. I socialdemocratici non cambieranno però strada per cui la soluzione vettoriale delle contraddizioni avverrà sul terreno sociale, o in termini di scontro oppure in termini di accettazione passiva. Per salvare la loro strategia privatistico finanziaria - che è poi quella del capitale nella sua totalità - i governanti di Bonn, ora trasferitisi a Berlino, cercheranno di rafforzare l’Euro come moneta della deflazione salariale e del potere della ricchezza astratta, ossia di quella finanziaria. Su questo terreno troveranno l’appoggio delle classi capitalistiche europee ma non necessariamente del capitale americano.

Dal punto di vista del lavoro dipendente, cioè di classe, è assolutamente importante convincersi che con questi obiettivi non vi è nulla da spartire. Bisogna quindi guardare alla creazione dell’Euro come un elemento delle strategie del capitale monopolistico europeo il quale lungi dall’essere omeogeneo si esprime in maniera coerente solo nella lotta che conduce indefessamente contro il salario e la spesa pubblica produttiva e sociale. Invece, purtroppo, la sinistra partitica italiana è corresponsabile dell’accettazione dell’ideologia metapolitica insista nei discorsi sull’ “Europa” e sull’ Euro. Questa ideologia disarticola ed indebolisce la resistenza e la capacità di autonomia politica delle classi e degli strati la cui vita dipende unicamente dai redditi da lavoro e dal funzionamento ed ampliamento dei servizi sociali pubblici.


[1] Per gli Usa segnalo l’ottimo libro di James Galbraith: Created Unequal. The Crisis in American Pay (Creati disuguali: la crisi della paga in America), New York: Free Press, 1998.

[2] Pochissimi anni fa centinaia di migliaia di assicuratori autonomi entrarono in lotta per farsi assumere come dipendenti dalle società da cui percepivano le commissioni. Essi sostenevano giustamente che andare in giro aprendo polizze per la società assicuratrici era puro lavoro salariato. Il pagamento sotto forma di commissioni non era che un modo di scaricare gli oneri sociali sui lavoratori dipendenti facendoli apparire come formalmente autonomi. Purtroppo non posso riferire sull’esito di questa lotta, rapidamente scomparsa dai notiziari radio-televisivi tedeschi ritrasmessi in Australia dalla rete radio-televisiva pubblica multiculturale SBS. A mio avviso questa è stata una lotta importante perché, data la sua dimensione di massa, smonta le ideologie che vedono nell’autonomo una specie di emancipazione individualistica del e dal capitalismo.

[3] Christian Berndt, “Corporate Germany at the Crossroads?”, ESRC Centre for Business Research, University of Cambridge, Working Paper No. 98, June, 1998. Lo stesso è successo in Francia ove il Governo Jospin ha spinto privatizzazione e finanziarizzazione a livelli inimmaginabili offrendo ai sindacati il contentino trappola delle 35 ore domandando però un’ulteriore flessibilità del lavoro. In Italia la sinistra di matrice Pci (Rossanda-Rivista magriana-Rifondazione) ha subito cantato ‘laudatur Jospinistus’ sdoganandolo persino dall’aggressione alla Jugoslavia ove i bombardamenti francesi sono stati secondi solo a quelli effettuati dagli Stati Uniti.

[4] Philippe Ricard, “les fonds de pension volent au secours des prestations versées par les entreprises”, in Le Monde Economie, 20 marzo 2001.