Rubrica
Tendenze della competizione globale

Copyright - Gli articoli si possono diffondere liberamente citandone la fonte e inserendo un link all'articolo

Autore/i

Joseph Halevi
Articoli pubblicati
per Proteo (7)

Joseph Halevi è docente di economia all’Università di Sydney in Australia e, periodicamente, insegna in Francia alle università di Grenoble (Pierre Mendès France) e di Nizza

Argomenti correlati

Competizione globale

Europa

Germania

Poli imperialistici

Nella stessa rubrica

Sul capitalismo tedesco
Joseph Halevi

Risorse energetiche e controllo geopolitico.Il Grande Gioco nell’Asia centrale
Sergio Cararo

Perché la guerra fa bene all’economia (I)
Vladimiro Giacché

Lo scontro geoeconomico per il controllo dell’”ombelico del mondo”
Rita Martufi, Luciano Vasapollo

 

Tutti gli articoli della rubrica "Tendenze della competizione globale"(in tutti i numeri di Proteo)


Home
Autori
Rubriche
Parole chiave

 

 

 

Sul capitalismo tedesco

Joseph Halevi

Formato per la stampa
Stampa

1. Germania: la crisi odierna

Il capitalismo tedesco, principale forza sia di aggregazione che conflitto nell’ambito del capitalismo europeo, è in una crisi di orientamento che è andata allargandosi dal 1992 in poi [1]. Caratterizzata da alterne vicende la crisi di direzione è emersa alla luce del giorno con il governo socialdemocratico-militarverde capeggiato da Schroeder. La gestione politico-economica della crisi di un processo di accumulazione ricade ancora una volta sulla socialdemocrazia, vero ago della bussola del capitale nella storia tedesca di quest’ultimi trent’anni. Ed è con la storia che conviene iniziare.

 

2. USA e Germania: il polo europeo

Alcuni storici di tutto rispetto come Alan Milward sostengono che la crescita economica europea sia stata dovuta alla mutazione della ricostruzione postbellica in un processo di ristrutturazione globale volto all’introduzione dei prodotti e sistemi di produzione di massa, metamorfizzandosi quindi in un grande boom che ha finito per riempire le case di vari aggeggi elettrici, le strade cittadine di automobili e le campagne di autostrade [2]. Non viene sostenuto che il processo fu generato da automatismi economici ma piuttosto dal fatto che il disegno integrativo europeo, a cominciare dall’accordo sul carbone e l’acciao del 1952, permetteva agli stati nazionali di programmare il loro sviluppo in termini strutturali. In questo contesto la Germania costituiva il motore della trasformazione.

A mio avviso mentre è esatto vedere nella Germania il fulcro della rinnovata crescita capitalistica europea, non è altrettanto convincente - pur essendoci del vero come testimonia l’esperienza italiana - la tesi secondo cui il processo fu dovuto principalmente ad una razionalità statalista-democristiana della dirigenza politica europea e tedesca. Recenti studi di storia mostrano che la decisione di dividere la Germania fu presa unilateralmente dagli Stati Uniti pochi mesi dopo la fine del conflitto mondiale tanto per escludere l’Unione Sovietica da ogni decisione concernente il futuro dell’Europa occidentale, quanto per costituire un polo di crescita capitalistica da funzionare in maniera parallela al polo asiatico rappresentato dal Giappone [3]. In altre parole, gli Stati Uniti avrebbero costituito il paese centrale, fonte delle importazioni di tecnologie, derrate alimentari e capitali finanziari dell’Europa e del Giappone. I teorici e gli architetti di questa strategia furono George Kennan, Averell Harriman, James Forrestal e l’ex presidente repubblicano Herbert Hoover. Gli storici hanno individuato nella crisi della bilancia dei pagamenti britannica e della Sterlina del 1947 - che comportò l’abbandono da parte di Londra dell’impegno di sostenere il governo greco e la Turchia - la svolta americana in favore della reindustrializzazione della Germania e del Giappone [4]. Tuttavia la documentazione fornita dal lavoro della signora Eisenberg fa pensare che tale orientamento fosse, almeno per la Germania, già in via di maturazione verso la fine del conflitto. Ciò chiarifica anche la rapidità con cui venne allestito il Piano Marshall il cui fulcro era la Germania dato che gli Stati Uniti non erano propensi a cancellare l’indebitamento britannico che finiva per assorbire buona parte dei soldi assegnati a Londra.

Nelle gare dei levrieri al momento della partenza viene azionato, su una monorotaia al lato della pista, un cane meccanico altrimenti gli animali potrebbero non scattare o non terminare la corsa. In materia di decisioni di investimento i capitalisti sono più simili ai cani che alle persone. Se viene azionata la domanda senza intaccare i margini di profitto, magari perfino rafforzandoli, essi partono alla rincorsa facendo leva sull’investimento e l’accumulazione reale. Se invece l’azione meccanica non si manifesta i cani, cioè i capitalisti, possono vagare a destra e a manca annusando la sporcizia e rosicchiando qua e là. Il che significa che l’investimento stagna, le attività privilegiate diventano quelle speculative (fare soldi attraverso i soldi), dall’immobiliare, alla borsa - secondo le condizioni politiche e sociali del momento. Quest’è l’essenza dell’intuizione di Keynes, offuscata dalla vaghezza e dall’opacità della sua opera teorica ma pienamente comprensibile ogniqualvolta egli dovette esprimersi in pubblico. Ora dopo la seconda guerra mondiale la monorotaia, il suo tracciato, il cane meccanico ed il motore vennero progettati e costruiti dagli Stati Uniti tanto per l’Europa quanto per il Giappone. L’accensione stessa messa in moto del cane meccanico provenne da Washington.

 

3. La fase trainante: 1950-66

Il piano Marshall, che comportò la creazione dell’Unione europea dei pagamenti, permise l’avvio della ricostruzione del capitalismo nel vecchio continente. Il mantenimento dell’industria e segnatamente quella dei beni capitali, il cui peso in Germania era superiore rispetto agli altri Stati europei, poneva il paese in condizioni di esportare al resto del continente essendo proprio questi i settori che producevano i beni materiali più adatti alla ricostruzione. Inoltre, come ha giustamente osservato Charles Kindleberger, il piano Marshall continuò nelle vesti della Nato i cui costi furono, almeno inizialmente, sostenuti principalmente da esborsi americani. Il riarmo europeo fu un ulteriore fattore di stimolazione alla crescita dei comparti industriali dell’industria metallurgica e metalmeccanica della Repubblica Federale Tedesca. Inoltre, la Guerra di Corea, che i governanti giapponesi dell’epoca definirono ‘un dono degli dei’, indusse pure in Germania un boom della domanda di beni capitali [5].

Ne consegue che tra Piano Marshall, riarmo Nato e Guerra di Corea il cane meccanico era ben lanciato Per la Germania tutto ciò assumeva una connotazione politico istituzionale di estrema importanza in quanto ricostituiva lo spazio sociale del capitale tedesco sollevandolo da ogni preoccupazione morale e politica dall’essersi gettato anima e corpo nel nazismo. Al contrario, una volta assolti, con l’appoggio degli Stati Uniti, da ogni responsabilità politica, i gruppi tedeschi, effettuarono con successo una transizione nella continuità rispetto al regime nazista [6].

Tutti questi elementi, gerarchicamente dipendenti dalla strategia di Kennan, Forrestal e compagnia, fecero sì che la ricostruzione europea si trasformasse in un boom delle esportazioni tedesche. Quest’ultime contribuirono all’ammodernamento dell’apparato produttivo degli altri paesi alimentando tanto un processo cumulativo all’interno del continente quanto l’emarginazione della Gran Bretagna dall’intelaiatura produttiva dell’Europa. Durante gli anni cinquanta la forza trainante dell’economia tedesca si manifestò attraverso due aspetti. La Germania esibì un tasso di crescita superiore alla media europea stimolando le esportazioni da parte degli altri paesi europei e soprattutto dal nucleo che avrebbe poi dato vita al Mercato Comune Europeo nel 1957. Infatti dal 1951 al 1958 il saggio di crescita medio annuo del prodotto interno lordo tedesco era del 7,3% mentre la dinamica di quello italiano - secondo nella graduatoria europea - era del 5,8%. In quegli anni, sebbene la Germania occidentale continuasse a realizzare delle eccedenze nei conti con l’estero, tutti i paesi europei espandono notevolmente la quota delle proprie esportazioni verso la repubblica federale. L’Europa si costituisce quindi come la zona di maggiore realizzo dei profitti nelle operazioni estere delle società tedesche, mentre esportare sul mercato tedesco diventa, per le aziende degli altri paesi, la via per sviluppare le economie di scala e le strategie oligopolistiche extra nazionali.

Il processo cumulativo suddelineato rafforzava ed affinava l’integrazione tra banca e industria tipica del capitalismo tedesco oggi, come vedremo, in via di sfilacciamento. La sostenibilità del meccanismo cumulativo fu però garantita dal funzionamento dell’Unione europea dei pagamenti che, in un contesto di monete non convertibili, permise il rapido riciclaggio delle eccedenze commerciali a tassi di interesse alquanto bassi rispetto ai profitti ottenibili attraverso l’investimento reale. Sarà stata forse una coincidenza ma l’abrogazione dell’Unione europea dei pagamenti effettuata con il ritorno delle monete europee alla convertibilità diretta nel 1958, tolse una batteria al cane meccanico rallentandolo rispetto alla corsa degli animali in carne ed ossa. In linea di principio i cani potevano ancora continuare a correre ma la garanzia che lo facessero, che non si fermassero di fronte ad un qualche ostacolo, reale o immaginario, era molto meno sicura. Nel concreto l’ostacolo apparve con l’emergere del vincolo della bilancia di pagamenti per i paesi deficitari in assenza, ormai, di un sistema istituzionale che organizzasse il riciclaggio dei surplus dei paesi eccedentari.

Il nuovo decennio vide pertanto l’attuazione a livello europeo di politiche keynesiane perverse: impedire il consolidamento della piena occupazione (maschile) provocando deliberatamente una recessione con conseguente disoccupazione industriale. L’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori avrebbe poi rallentato la dinamica salariale rispetto agli incrementi di produttvità permettendo così alle imprese di esportare a prezzi concorrenziali senza intaccare i margini di profitto. Il keynesimo perverso serviva a sormontare il vincolo di un eventuale deficit estero. Chi con maggiore (Italia, 1963-65) chi con minore intensità, le dirigenze dei paesi europei si mossero in questa direzione che avrebbe certamente invertito il processo cumulativo del precedente periodo. Se l’inversione non ci fu lo si debbe in gran parte all’evoluzione dell’economia tedesca. Dopo il 1958 il tasso di crescita della repubblica federale rallentò significativamente anche per motivi fisiologici dovuti alla piena occupazione (maschile). Continuò invece l’espansione salariale e la crescita delle importazioni. Alla metà del decennio l’eccedenza tedesca nei conti con l’estero era quasi annullata. Il cane da guardia - la Bundesbank - si svegliò imponendo restrizioni creditizie e di bilancio generando nel 1966 una recessione il cui obettivo era il rilancio massiccio delle esportazioni. Fu il primo passo verso un mutamento radicale del modello di sviluppo perseguito fino ad allora e significò la fine del ruolo trainante svolto da Bonn in Europa [7].

 

4. Stagnazione e egemonia neomercantilista: 1969-1990

L’operazione recessiva guidata dalla Bundesbank produsse, con il ritorno di forti eccedenze con l’estero, l’effetto voluto dal lato delle esportazioni ma non assicurò la disciplina sociale dei lavoratori. La crescita dei profitti grazie alle esportazioni rilanciò le rivendicazioni salariali e normative. In questo contesto il partito socialdemocratico, dopo il breve periodo di coabitazione con la democrazia cristiana dal 1966 al 1969, effettuò nel 1969 una svolta economica radicale rivalutando il marco. I settori competitivi, operanti prevalentemente nei rami dei beni di consumo, si vedevano quindi costretti a ristrutturare per far fronte alla concorrenza delle importazioni. Dal canto loro i settori ad alta concentrazione capitalistica, che erano anche la principale fonte delle esportazioni, venivano stimolati sia a ristrutturare che ad investire all’estero. Il nocciolo del nuovo modello di accumulazione era tutto qui: la trasformazione del sistema economico tedesco da esportatore di prodotti industriali ed importatore di capitali a creatore di investimenti esteri ed esportatore di tecnologie avanzate. Agli investimenti diretti all’estero spettava il compito di sostenere le esportazioni. Gli investimenti esteri di portafoglio ed in attività commerciali avrebbero dovuto ampliare la penetrazione commerciale delle esportazioni industriali, mentre gli investimenti diretti in impianti avrebbero stimolato le esportazioni tedesche in macchinari e tecnologie.

In Europa solo la Germania era in condizioni di attuare una strategia in cui la rivalutazione doveva, in ultima analisi, sospingere le esportazioni. La vasta e continua rstrutturazione che tale strategia richiedeva dipendeva crucialmente dall’esistenza di una coerente e completa industria dei macchinari e delle nuove tecnologie, cioè dalla presenza di quei settori che il capitalismo tedesco, non sempre di sua spontanea volontà, aveva storicamente prediletto. Il rilancio neomercantlistico delle esportazioni, prima con metodi tradizionali poi con la rivalutazione, non implicò un cappio stagnazionsitico al collo della Cee e della Germania. Il motivo principale di ciò va individuato nella grande ondata di aumenti salariali del periodo 1968-73 cui corrispose in tutta l’Europa, perfino nella lenta Gran Bretagna, un forte rilancio della domanda e quindi della crescita. Come motivo secondario va considerato il fatto che alla rivalutazione del 1969 corrispose nel breve periodo un declino del surplus tedesco. Tuttavia sul finire del 1972 le eccedenze estere di Bonn erano in netta ripresa per raggiungere nel 1974 l’apice del decennio nonostante ulteriori rivalutazioni della moneta nazionale. Tanto più avanzava la stagnazione europea e mondiale tanto più si consolidava il successo della strategia tedesca consistente a garantirsi delle eccedenze estere per finanziare gli investimenti internazionali compatibilmente con la politica di selezione creditizia della Bundesbank e la dinamica delle esportazioni. Tra il 1974-79, anni in cui il vincolo estero di molto paesi si aggrva a causa del rincaro petrolifero, La Germania genera un’eccedenza commerciale pari al 2, 2% del prodotto interno lordo ed una capacità di finanziamento estero pari all’8% del PIL. Nello stesso periodo il surplus commerciale del Giappone tocca appena lo 0,4% del PIL e lo 0,3% in termini di capacità di finanziamento estero.


[1] Come emerge dai titoli delle sezioni in cui è suddiviso quest’intervento.

[2] Alan Milward: The Reconstruction of Western Europe, 1945-51, London: Methuen 1984; nonché, dello stesso autore, The European Rescue of the Nation State, London: Routledge, 1992. Per l’Italia, senza però l’ipoteca pianificante di Milward, consiglio assolutamente la lettura dell’eccezionale lavoro di Guido Crainz Storia del miracolo italiano, Roma: Donzelli, 1994.

[3] La politica della divisione unilaterale è documentata in Carolyn Eisenberg, Drawing the Line: the American Decision to Divide Germany, 1944-1949, Cambridge: Cambridge University Press.

[4] Michael Schaller, The American Occupation of Japan. The Origins of the Cold War in Asia, New York: Oxford University Press, 1985.

[5] Tuttavia per poter trasformare in profitti capitalistici il frutto di una guerra che stava causando, principalmente per via dei bombardamenti aerei americani, oltre un milione di morti tra la popolazione civile coreana fu necessario, nel caso tedesco, sormontare le difficoltà nella bilancia dei pagamenti causate dal’impennata nei prezzi delle materie provocata dalla guerra stessa. L’ostacolo venne aggirato grazie ad un ulteriore regalo di 500 milioni di dollari da parte di Washington all’Unione europea dei pagamenti. Questo versamento - a tutti gli effetti gratis - permise soprattutto alla Germania di affrontare produttivamente l’accresciuta domanda reale di beni strumentali senza passare per il collo di bottiglia della carenza di dollari con cui comperare materie prime e pagare il deficit con gli USA.

[6] Simon Reich, The Fruits of Fascism, Ithaca, N.Y.: Cornell University Press, 1990.

[7] Si veda l’ancora validissmo volume curato da Vittorio Valli: L’economia tedesca: la Germania federale verso l’egemonia economica in Europa, Milano: Etas Libri, 1981.