E’ in corso, nel nostro Paese, una ridefinizione dell’identità
sociale. I soggetti vengono chiamati a mettersi in sintonia con le nuove
modalità della valorizzazione ed a percepirle come percorsi della propria
realizzazione esistenziale.
In questo contesto intendiamo per identità sociale la
percezione che milioni di uomini e donne hanno del proprio ruolo nell’organizzazione
capitalistica della società. Ora, lo sconvolgimento del sistema di ruoli
sociali provocato dal nuovo modo di produrre e di scambiare ha spiazzato una
identità sociale ancora legata al mondo della stabilità del lavoro e del
sistema di garanzie. C’è quindi il rischio che i soggetti vivano la nuova
realtà con la testa nel passato e in una condizione di forte tensione
psicologica, che potrebbe tradursi in antagonismo sociale. Da qui la necessità
di riallineare l’identità sociale con il nuovo sistema di produzione, in modo
che i soggetti si riconoscano nella loro mutata condizione esistenziale,
caratterizzata dalla precarietà.
Sulla base di questi presupposti, il sistema istituzionale
non cerca più, come nel passato, di mediare fra le esigenze del capitale e gli
interessi della collettività, ma si fa carico direttamente delle aspettative
imprenditoriali e le traduce in pressione ideologica sulla collettività, al
fine di ridisegnare i connotati dell’identità sociale. In tal senso, si sta
passando dalla mediazione istituzionale alla istituzionalizzazione della
ideologia capitalistica. Pertanto non è fuori luogo parlare di ideologia
istituzionale.
1. I capisaldi dell’ideologia istituzionale: la
competizione e la meritocrazia
L’organizzazione capitalistica della società, per potersi
affermare nella collettività, si avvale dell’interiorizzazione di un sistema
di valori funzionale alla legittimazione del profitto. I valori proclamati dalle
istituzioni hanno dunque un carattere strumentale e funzionano come canali di
trasmissione dell’ideologia capitalistica.
Capisaldi dell’ideologia istituzionale sono la competizione
e la meritocrazia. Questi due valori di base hanno una forte incidenza sull’identità
sociale. Ora, a prescindere da ogni considerazione di merito, la competizione
è un valore contraddittorio nella prospettiva di una società avanzata, che
sempre più richiede l’operare in gruppo. La pubblicità di una azienda,
apparsa sui giornali, diceva: il nostro valore è il gruppo. Senonché, la
dimensione di gruppo si fonda sulla coesione e sulla cooperazione, cioè su
modalità dell’agire antitetiche alla competizione. Un gruppo i cui componenti
competono fra di loro, invece di cooperare, è destinato alla disgregazione. La
stessa produzione tecnologicamente avanzata si basa su un processo integrato,
cioè sulla coordinazione e sulla compenetrazione di fattori tecnici e
organizzativi. Dunque, le aziende sono in competizione fra di loro, ma
riescono a stare sul mercato solo se sono strutturate su base di cooperazione.
A livello di lavoro dipendente, la competizione è dunque una copertura
ideologica della guerra tra sfruttati, a tutto vantaggio della valorizzazione
capitalistica. Soggetti che cercano lavoro in concorrenza l’uno con l’altro
sono costretti ad abbassare le loro richieste e quindi a lasciare spazio all’incremento
del profitto.
Parte integrante della competizione è la meritocrazia,
cioè un sistema basato sulla premiazione dei meriti. Secondo la logica
meritocratica, solo un sistema che premia i più capaci riesce a indurre i
soggetti a impegnarsi, perché è nella natura umana impegnarsi solo in vista di
un utile. Questa tesi è semplicemente infondata. La motivazione utilitaristica
dell’agire umano è un dato culturale, non naturale. Altrimenti non sarebbe
spiegabile l’agire di quanti si impegnano sulla spinta di una motivazione di
tipo solidaristico o ideale. In realtà, un sistema meritocratico tende a
privilegiare le capacità sui bisogni. Ma chi valuta le capacità? Come è noto,
addetti a tale compito sono, ai vari livelli, i funzionari dell’apparato
imprenditoriale e del sistema istituzionale. La valutazione meritocratica è
quindi il terreno di coltura di operazioni di potere e di appartenenza di
gruppo, nel cui ambito non tutte le capacità vengono prese in considerazione,
ma quelle particolari attitudini che sono funzionali alla valorizzazione del
capitale ed alla gestione mafiosa della vita sociale. Deve avere di più non chi
ha più bisogno, ma chi è più disposto a mettersi al servizio del progetto
capitalistico e dell’apparato di potere. Si tratta dunque di una
organizzazione sociale che tende ad emarginare i deboli e gli antagonisti, per
dare spazio solo a chi sa sgomitare e si allinea con il sistema istituzionale.
Una identità sociale figlia della logica meritocratica è
funzionale all’organizzazione capitalistica della società, basata sulla
differenziazione sociale. La meritocrazia è infatti la faccia ideologica della
stratificazione di classe. È difficile giustificare le disuguaglianze sociali,
che discendono dalla struttura classista della società capitalistica, se viene
a mancare la base ideologica della meritocrazia.
2. L’ideologia della “modernizzazione”: la flessibilità sociale
Un intervento ideologico di particolare rilievo è puntato
sulla percezione collettiva dello smantellamento del sistema di garanzie che,
nel vecchio assetto sociale, presidiava la condizione dei lavoratori e delle
lavoratrici. Tale smantellamento viene presentato come processo di “modernizzazione”.
E chi si oppone a tale operazione viene fatto apparire come “conservatore”.
Non si tratta di una semplice manipolazione terminologica. Nell’immaginario
collettivo - in particolare del popolo di sinistra, che per lunga tradizione si
autodefinisce “progressista” - ritrovarsi relegati nell’area della
conservazione provoca un certo disagio.
Una strategia ideologica molto efficace è quella di fare
apparire i diritti degli occupati come contrapposti ai diritti dei non occupati
e di additare la difesa delle garanzie per chi lavora come indifferenza alla
condizione di chi un lavoro non ce l’ha. Il teorema è chiaro: togliere agli
occupati è il presupposto per dare ai non occupati.
In fondo a questo percorso ideologico c’è l’esaltazione
della instabilità del lavoro. L’instabilità occupazionale viene presentata
non come degrado sociale, ma anzi come possibilità per i soggetti occupati di
arricchire il proprio bagaglio di esperienze lavorative e per i non occupati di
introdursi nel mondo del lavoro. Ancora una volta, una rinuncia alle garanzie di
base crea le condizioni per dare un futuro ai giovani.
In questo quadro, è gioco facile addossare agli anziani la
responsabilità della mancanza di prospettiva per le nuove generazioni. In
particolare, sulle pensioni la campagna ideologica assume connotati perfidi,
perché tende a mettere esplicitamente i figli contro i padri. Si sostiene
infatti che quanti si oppongono al taglio delle pensioni sottraggono ai propri
figli la possibilità di avere una pensione. Ora, non è difficile immaginare i
conflitti generazionali che possono nascere all’interno delle famiglie se un
ragazzo o una ragazza si convince che il padre e la madre operano contro il
futuro dei loro figli. L’indisponibilità a rinunciare ai propri diritti
acquisiti viene infatti fatta passare per dimostrazione di egoismo e di
indifferenza nei confronti della condizione giovanile, generando disagio
psicologico in chi non fa altro che chiedere ciò che è dovuto. In tale
contesto, si può dare il caso di un povero pensionato che dichiari di essere
disposto ad accettare una riduzione della sua pensione, pur di assicurare un
futuro ai propri figli.
Un significato particolare assume la questione delle pensioni
d’anzianità. Qui i diritti acquisiti sono inconfutabili. E allora si sposta
il discorso sul bilancio dello Stato, che non può reggere - si dice - all’impatto
di una spesa così prolungata nel tempo, dato che le aspettative di vita sono
notevolmente aumentate e le persone vivono, in media, più a lungo. Il bilancio
dello Stato non viene però tirato in ballo per le pensioni d’oro del ceto
manageriale e politico, che vengono difese a spada tratta con la scusa che la
professionalità va retribuita in modo adeguato. Nel primo caso si mette avanti
la disponibilità di cassa, a prescindere dai diritti acquisiti. Nel secondo
caso si dà peso alla qualità professionale, a prescindere dalla disponibilità
di cassa. Dunque, la disponibilità di cassa si fa apparire come decisiva nei
confronti di alcuni cittadini e come marginale nei confronti di altri. Quando ci
sono di mezzo interessi di classe, la logica diventa un suppellettile di cui si
può benissimo fare a meno.
L’obiettivo di fondo di questa complessa e articolata
operazione ideologica è di ripulire la vita collettiva di tutte le forme di rigidità
sociale, cioè delle resistenze alle incursioni del capitale nelle
condizioni esistenziali degli uomini e delle donne in carne e ossa. E questo
obiettivo viene perseguito non con atti autoritari, che potrebbero provocare
pericolose tensioni, ma ridisegnando l’identità di massa su base di flessibilità
sociale.
Si vuole ottenere una soggettività sociale che sia
pienamente disponibile nei confronti delle esigenze della valorizzazione
capitalistica. Una soggettività pronta a rinunciare a qualsiasi garanzia
sociale che sia di intralcio al libero dispiegarsi della logica del mercato. In
breve, una soggettività che si identifichi nella organizzazione capitalistica
della società [1].
3. L’ideologia della convenienza
La favola ricorrente di ogni programma di governo è la creazione
di nuovi posti di lavoro. In realtà, si tratta di una sorta di cavallo di
Troia che da decenni viene usato per fare passare agevolazioni e finanziamenti a
favore delle forze imprenditoriali. Nei confronti di questo problema l’ideologia
istituzionale è strutturata come una sorta di catena a tre anelli: convenienze,
investimenti, nuovi posti di lavoro. Si dice: per avere investimenti, che creino
nuovi posti di lavoro, bisogna dare agli imprenditori adeguate convenienze.
Dunque, il destino di milioni di giovani, ragazzi e ragazze, viene legato dalle
pubbliche istituzioni alla convenienza di privati. In pratica, i giovani possono
avere un futuro solo se a qualcuno conviene dar loro una occupazione. È
il culmine del cinismo istituzionale, di fronte al quale occorre essere
drastici. Una società che basa la convivenza sulla ideologia della
convenienza privata si colloca fuori dalla civiltà.
4. La sintesi dell’ideologia istituzionale: la logica del mercato
Tutti gli aspetti dell’ideologia del capitale trovano la
loro sintesi nella logica del mercato. Nel modello ideologico che le
istituzioni vogliono interiorizzare nella coscienza collettiva, il mercato viene
rappresentato come l’espressione più alta della moderna razionalità. Chi non
fa i conti con questa legge suprema vive fra le nuvole. Perché il mercato è la
realtà e non ha senso metterlo in discussione.
L’identità sociale, una volta ingabbiata nella ideologia
del mercato, non ha modo di connotarsi a misura dei bisogni della collettività.
La vita sociale si riduce ad una semplice rappresentazione scenica degli alterni
umori di questo moderno Dio in terra. Fa impressione leggere su giornali
autorevoli che questo o quell’evento ha reso nervoso il mercato. Ormai
siamo alla personificazione di una entità astratta. È un messaggio allarmante.
Si vuole far passare l’idea che sulla vita sociale pende, come una spada di
Damocle, una legge superiore. E guai a mettere in campo aspettative
incompatibili con i canoni della valorizzazione capitalistica. Il mercato si
potrebbe arrabbiare. E le conseguenze ricadrebbero soprattutto su chi
vive di lavoro.
Tutti questi interventi dell’ideologia istituzionale
sfigurano e rendono irriconoscibile l’identità sociale. La prospettiva è
allarmante. Se non prende corpo nella società un movimento di massa con una
chiara identità antagonista, la figura collettiva di milioni di donne e uomini
rischia di ridursi a controfigura del capitale.
[1] F. Viola, La società astratta, Roma, Edizioni Associate, 1991
(3a ed.), p. 22.