Identità sociale e ideologia istituzionale

Filippo Viola

E’ in corso, nel nostro Paese, una ridefinizione dell’identità sociale. I soggetti vengono chiamati a mettersi in sintonia con le nuove modalità della valorizzazione ed a percepirle come percorsi della propria realizzazione esistenziale.

In questo contesto intendiamo per identità sociale la percezione che milioni di uomini e donne hanno del proprio ruolo nell’organizzazione capitalistica della società. Ora, lo sconvolgimento del sistema di ruoli sociali provocato dal nuovo modo di produrre e di scambiare ha spiazzato una identità sociale ancora legata al mondo della stabilità del lavoro e del sistema di garanzie. C’è quindi il rischio che i soggetti vivano la nuova realtà con la testa nel passato e in una condizione di forte tensione psicologica, che potrebbe tradursi in antagonismo sociale. Da qui la necessità di riallineare l’identità sociale con il nuovo sistema di produzione, in modo che i soggetti si riconoscano nella loro mutata condizione esistenziale, caratterizzata dalla precarietà.

Sulla base di questi presupposti, il sistema istituzionale non cerca più, come nel passato, di mediare fra le esigenze del capitale e gli interessi della collettività, ma si fa carico direttamente delle aspettative imprenditoriali e le traduce in pressione ideologica sulla collettività, al fine di ridisegnare i connotati dell’identità sociale. In tal senso, si sta passando dalla mediazione istituzionale alla istituzionalizzazione della ideologia capitalistica. Pertanto non è fuori luogo parlare di ideologia istituzionale.

1. I capisaldi dell’ideologia istituzionale: la competizione e la meritocrazia

L’organizzazione capitalistica della società, per potersi affermare nella collettività, si avvale dell’interiorizzazione di un sistema di valori funzionale alla legittimazione del profitto. I valori proclamati dalle istituzioni hanno dunque un carattere strumentale e funzionano come canali di trasmissione dell’ideologia capitalistica.

Capisaldi dell’ideologia istituzionale sono la competizione e la meritocrazia. Questi due valori di base hanno una forte incidenza sull’identità sociale. Ora, a prescindere da ogni considerazione di merito, la competizione è un valore contraddittorio nella prospettiva di una società avanzata, che sempre più richiede l’operare in gruppo. La pubblicità di una azienda, apparsa sui giornali, diceva: il nostro valore è il gruppo. Senonché, la dimensione di gruppo si fonda sulla coesione e sulla cooperazione, cioè su modalità dell’agire antitetiche alla competizione. Un gruppo i cui componenti competono fra di loro, invece di cooperare, è destinato alla disgregazione. La stessa produzione tecnologicamente avanzata si basa su un processo integrato, cioè sulla coordinazione e sulla compenetrazione di fattori tecnici e organizzativi. Dunque, le aziende sono in competizione fra di loro, ma riescono a stare sul mercato solo se sono strutturate su base di cooperazione. A livello di lavoro dipendente, la competizione è dunque una copertura ideologica della guerra tra sfruttati, a tutto vantaggio della valorizzazione capitalistica. Soggetti che cercano lavoro in concorrenza l’uno con l’altro sono costretti ad abbassare le loro richieste e quindi a lasciare spazio all’incremento del profitto.

Parte integrante della competizione è la meritocrazia, cioè un sistema basato sulla premiazione dei meriti. Secondo la logica meritocratica, solo un sistema che premia i più capaci riesce a indurre i soggetti a impegnarsi, perché è nella natura umana impegnarsi solo in vista di un utile. Questa tesi è semplicemente infondata. La motivazione utilitaristica dell’agire umano è un dato culturale, non naturale. Altrimenti non sarebbe spiegabile l’agire di quanti si impegnano sulla spinta di una motivazione di tipo solidaristico o ideale. In realtà, un sistema meritocratico tende a privilegiare le capacità sui bisogni. Ma chi valuta le capacità? Come è noto, addetti a tale compito sono, ai vari livelli, i funzionari dell’apparato imprenditoriale e del sistema istituzionale. La valutazione meritocratica è quindi il terreno di coltura di operazioni di potere e di appartenenza di gruppo, nel cui ambito non tutte le capacità vengono prese in considerazione, ma quelle particolari attitudini che sono funzionali alla valorizzazione del capitale ed alla gestione mafiosa della vita sociale. Deve avere di più non chi ha più bisogno, ma chi è più disposto a mettersi al servizio del progetto capitalistico e dell’apparato di potere. Si tratta dunque di una organizzazione sociale che tende ad emarginare i deboli e gli antagonisti, per dare spazio solo a chi sa sgomitare e si allinea con il sistema istituzionale.

Una identità sociale figlia della logica meritocratica è funzionale all’organizzazione capitalistica della società, basata sulla differenziazione sociale. La meritocrazia è infatti la faccia ideologica della stratificazione di classe. È difficile giustificare le disuguaglianze sociali, che discendono dalla struttura classista della società capitalistica, se viene a mancare la base ideologica della meritocrazia.

2. L’ideologia della “modernizzazione”: la flessibilità sociale

Un intervento ideologico di particolare rilievo è puntato sulla percezione collettiva dello smantellamento del sistema di garanzie che, nel vecchio assetto sociale, presidiava la condizione dei lavoratori e delle lavoratrici. Tale smantellamento viene presentato come processo di “modernizzazione”. E chi si oppone a tale operazione viene fatto apparire come “conservatore”. Non si tratta di una semplice manipolazione terminologica. Nell’immaginario collettivo - in particolare del popolo di sinistra, che per lunga tradizione si autodefinisce “progressista” - ritrovarsi relegati nell’area della conservazione provoca un certo disagio.

Una strategia ideologica molto efficace è quella di fare apparire i diritti degli occupati come contrapposti ai diritti dei non occupati e di additare la difesa delle garanzie per chi lavora come indifferenza alla condizione di chi un lavoro non ce l’ha. Il teorema è chiaro: togliere agli occupati è il presupposto per dare ai non occupati.

In fondo a questo percorso ideologico c’è l’esaltazione della instabilità del lavoro. L’instabilità occupazionale viene presentata non come degrado sociale, ma anzi come possibilità per i soggetti occupati di arricchire il proprio bagaglio di esperienze lavorative e per i non occupati di introdursi nel mondo del lavoro. Ancora una volta, una rinuncia alle garanzie di base crea le condizioni per dare un futuro ai giovani.

In questo quadro, è gioco facile addossare agli anziani la responsabilità della mancanza di prospettiva per le nuove generazioni. In particolare, sulle pensioni la campagna ideologica assume connotati perfidi, perché tende a mettere esplicitamente i figli contro i padri. Si sostiene infatti che quanti si oppongono al taglio delle pensioni sottraggono ai propri figli la possibilità di avere una pensione. Ora, non è difficile immaginare i conflitti generazionali che possono nascere all’interno delle famiglie se un ragazzo o una ragazza si convince che il padre e la madre operano contro il futuro dei loro figli. L’indisponibilità a rinunciare ai propri diritti acquisiti viene infatti fatta passare per dimostrazione di egoismo e di indifferenza nei confronti della condizione giovanile, generando disagio psicologico in chi non fa altro che chiedere ciò che è dovuto. In tale contesto, si può dare il caso di un povero pensionato che dichiari di essere disposto ad accettare una riduzione della sua pensione, pur di assicurare un futuro ai propri figli.

Un significato particolare assume la questione delle pensioni d’anzianità. Qui i diritti acquisiti sono inconfutabili. E allora si sposta il discorso sul bilancio dello Stato, che non può reggere - si dice - all’impatto di una spesa così prolungata nel tempo, dato che le aspettative di vita sono notevolmente aumentate e le persone vivono, in media, più a lungo. Il bilancio dello Stato non viene però tirato in ballo per le pensioni d’oro del ceto manageriale e politico, che vengono difese a spada tratta con la scusa che la professionalità va retribuita in modo adeguato. Nel primo caso si mette avanti la disponibilità di cassa, a prescindere dai diritti acquisiti. Nel secondo caso si dà peso alla qualità professionale, a prescindere dalla disponibilità di cassa. Dunque, la disponibilità di cassa si fa apparire come decisiva nei confronti di alcuni cittadini e come marginale nei confronti di altri. Quando ci sono di mezzo interessi di classe, la logica diventa un suppellettile di cui si può benissimo fare a meno.

L’obiettivo di fondo di questa complessa e articolata operazione ideologica è di ripulire la vita collettiva di tutte le forme di rigidità sociale, cioè delle resistenze alle incursioni del capitale nelle condizioni esistenziali degli uomini e delle donne in carne e ossa. E questo obiettivo viene perseguito non con atti autoritari, che potrebbero provocare pericolose tensioni, ma ridisegnando l’identità di massa su base di flessibilità sociale.

Si vuole ottenere una soggettività sociale che sia pienamente disponibile nei confronti delle esigenze della valorizzazione capitalistica. Una soggettività pronta a rinunciare a qualsiasi garanzia sociale che sia di intralcio al libero dispiegarsi della logica del mercato. In breve, una soggettività che si identifichi nella organizzazione capitalistica della società [1].

3. L’ideologia della convenienza

La favola ricorrente di ogni programma di governo è la creazione di nuovi posti di lavoro. In realtà, si tratta di una sorta di cavallo di Troia che da decenni viene usato per fare passare agevolazioni e finanziamenti a favore delle forze imprenditoriali. Nei confronti di questo problema l’ideologia istituzionale è strutturata come una sorta di catena a tre anelli: convenienze, investimenti, nuovi posti di lavoro. Si dice: per avere investimenti, che creino nuovi posti di lavoro, bisogna dare agli imprenditori adeguate convenienze. Dunque, il destino di milioni di giovani, ragazzi e ragazze, viene legato dalle pubbliche istituzioni alla convenienza di privati. In pratica, i giovani possono avere un futuro solo se a qualcuno conviene dar loro una occupazione. È il culmine del cinismo istituzionale, di fronte al quale occorre essere drastici. Una società che basa la convivenza sulla ideologia della convenienza privata si colloca fuori dalla civiltà.

4. La sintesi dell’ideologia istituzionale: la logica del mercato

Tutti gli aspetti dell’ideologia del capitale trovano la loro sintesi nella logica del mercato. Nel modello ideologico che le istituzioni vogliono interiorizzare nella coscienza collettiva, il mercato viene rappresentato come l’espressione più alta della moderna razionalità. Chi non fa i conti con questa legge suprema vive fra le nuvole. Perché il mercato è la realtà e non ha senso metterlo in discussione.

L’identità sociale, una volta ingabbiata nella ideologia del mercato, non ha modo di connotarsi a misura dei bisogni della collettività. La vita sociale si riduce ad una semplice rappresentazione scenica degli alterni umori di questo moderno Dio in terra. Fa impressione leggere su giornali autorevoli che questo o quell’evento ha reso nervoso il mercato. Ormai siamo alla personificazione di una entità astratta. È un messaggio allarmante. Si vuole far passare l’idea che sulla vita sociale pende, come una spada di Damocle, una legge superiore. E guai a mettere in campo aspettative incompatibili con i canoni della valorizzazione capitalistica. Il mercato si potrebbe arrabbiare. E le conseguenze ricadrebbero soprattutto su chi vive di lavoro.

Tutti questi interventi dell’ideologia istituzionale sfigurano e rendono irriconoscibile l’identità sociale. La prospettiva è allarmante. Se non prende corpo nella società un movimento di massa con una chiara identità antagonista, la figura collettiva di milioni di donne e uomini rischia di ridursi a controfigura del capitale.


[1] F. Viola, La società astratta, Roma, Edizioni Associate, 1991 (3a ed.), p. 22.