Le Tendenze macroeconomiche del processo di ristrutturazione capitalistica
Luciano Vasapollo
Rita Martufi
Terza parte: Fattore capitale e processi di internazionalizzazione produttiva
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E’ interessante anche mostrare, per gli anni ’90, la
propensione dei vari paesi all’esportazione (rapporto percentuale tra
esportazioni di beni e servizi e PIL a prezzi costanti). Il Graf.24
mostra come l’Unione Europea realizzi valori piuttosto elevati negli anni
considerati fino ad arrivare nel 1996 al 33,5%, mentre gli Stati Uniti
mantengono una percentuale sempre vicina al 10%.
Anche per il livello di penetrazione delle importazioni l’Unione
Europea registra valori elevati. (cfr. Graf.25) che nel 1996 superano il
30%, mentre gli USA per lo stesso anno si attestano intorno al 14%.

3. Ancora sui processi di internazionalizzazione
attraverso l’analisi degli investimenti diretti esteri
Come si è già visto nel numero precedente di Proteo, in
particolare per l’assetto produttivo USA all’inizio degli anni ’70 il
processo di internazionalizzazione ha portato alla nascita anche all’estero,
di modelli nazionali di imprese in concorrenza con quelli sviluppatesi negli
Stati Uniti. Il cosiddetto “boom reganiano” che ha caratterizzato l’economia
del mondo negli anni ottanta, infatti, ha cominciato a mostrare i primi
cedimenti dal 1989 ed ha avuto una ulteriore contrazione produttiva nel 1990-91.
Anche il Giappone, la cui economia era molto legata a quella statunitense ha
risentito della crisi, ed è iniziata una lunga fase di recessione che solo nel
1996 ha cominciato in parte la ripresa. L’Europa, invece, non ha risentito
immediatamente della crisi americana, anche grazie alla riunificazione delle due
Germanie e la conseguente riunificazione monetaria (la conversione favorevole
dei marchi orientali in quelli occidentali fece aumentare la domanda di beni di
consumo con effetti favorevoli su tutta l’Europa).
La conferma di ciò si ha anche dalla tendenza crescente
della percentuale degli investimenti esteri degli USA (cfr. Graf.26)
verso l’UE.
Nel 1992 si ha l’uscita della lira e della sterlina dallo
SME; nel 1993 mentre il prodotto interno lordo degli USA saliva rapidamente (nel
1994 ha superato il 4%), in Europa si registrava un’espansione minima. Dal
1994 però si è avuta una ripresa (la crescita del PIL si è avvicinata al 3%)
che ha riportato l’Europa al fianco degli Stati Uniti. Alla fine dell’anno
1996 e all’inizio del 1997 inizia la cosiddetta “grande crisi asiatica”
che ha avuto gravi ripercussioni economiche in tutto il mondo. Si è trattato di
una serie di crisi economico-finanziarie, aziendali, politiche, valutarie e di
Borsa che, iniziate nei paesi dell’Estremo Oriente si sono poi diffuse anche
negli Stati Uniti, in Francia, in Germania e nel Regno Unito e un po’ in tutta
Europa.
Attualmente si consolida la tendenza ad una separazione fra
due grandi aree: da un lato gli Stati Uniti e l’Europa occidentale che si
caratterizzano per crescite moderate ma abbastanza continue, e dall’altro aree
più a rischio quali l’America Latina, l’Europa orientale e i paesi asiatici
che registrano tassi di crescita più elevati ma soggetti a perturbazioni
critiche molto accentuate.
Interessante , ad esempio, è il ruolo che nei processi
europei di internazionalizzazione produttiva ha assunto l’Europa dell’est. Ad
esempio, prendendo come riferimento il 1994, anno per il quale i dati sono
disponibili a livello disaggregato, distinguendo gli investimenti di tipo equity
da quelli non equity ,si nota (vedi Tab.19) il ruolo importante e diffuso
di tutti i paesi dell’est europeo che assumono rilevanza strategica nei processi
europei di internazionalizzazione. Gli IDE europei infatti, di quest’area
aumentano significativamente nel tempo, sia in entrata sia in uscita, in termini
di stock e di flussi.
Il 1994 presenta un totale di 4342 milioni di dollari di
flussi in uscita e 520 in entrata. Oltre l’84% delle attività è
rappresentato dagli investimenti di tipo equity, quindi da acquisizioni
azionarie al capitale sociale; gli investimenti di tipo non equity invece hanno
più successo in termini di uscita, raggiungendo l’85% del totale. L’interesse
da parte dell’Europa per quest’area ha finalità geopolitiche e geoeconomiche
per un controllo complessivo su tutti i paesi ricchi di materie prime e di
manodopera specializzata e a basso costo. Particolarmente importanti risultano,
dall’osservazione dei dati della tabella, i mercati di frontiera e di cerniera
della cosiddetta Eurasia, come la Polonia e l’Ungheria, che oltre a
posizionarsi tra i migliori investitori, rappresentano delle buone mete per
localizzare gli investimenti degli altri paesi dell’Unione Europea.
E’ in questo contesto che si sta verificando, inoltre, un’evoluzione
di nuovi sistemi di coinvolgimento estero da parte delle multinazionali ed in
genere delle imprese; si intende parlare in particolare degli investimenti
esteri diretti a partecipazione maggioritaria ed anche della vendita di licenze
e brevetti. Analizzando i flussi di investimenti diretti dall’estero, sembra
potersi confermare la teoria che esista una relazione diretta tra costo del
lavoro, produttività del lavoro e afflusso di investimenti. Infatti, laddove il
costo del lavoro è alto e la produttività del lavoro mostra tassi ridotti, i
movimenti di capitale evidenziano valori esigui, mentre nei paesi in cui la
produttività del lavoro elevata ed è accompagnata solitamente da costo del
lavoro basso, meglio se anche si tratta di lavoro a scarso contenuto di diritti
ma a medio-alta specializzazione (vedi i paesi dell’Est Europeo), i rinnovi
degli investimenti diretti dall’estero, allora, risultano considerevoli. L’Italia
si colloca in una posizione media sia per quanto riguarda la produttività del
lavoro sia per gli afflussi di investimenti, a conferma della relazione diretta
tra le i due fenomeni. Anche il regime e la pressione fiscale hanno una
rilevanza notevole sul movimento degli IDE. Se, infatti, si mette a confronto l’imposizione
fiscale media dei diversi paesi con l’afflusso medio degli investimenti
diretti esteri nello stesso periodo, si può notare in maniera evidente una
relazione inversa tra afflusso di investimenti e pressione fiscale.
Comunque, considerando i movimenti globali in tutte le aree
internazionali, si nota che gli investimenti diretti esteri sono sempre
cresciuti negli ultimi trenta anni anche se in modo discontinuo (cfr.Graf.27);
la continua ascesa ha subito una diminuzione all’inizio degli anni ’90 per
poi risalire dal 1993. I flussi di investimenti diretti all’estero hanno
raggiunto i 380 miliardi di dollari nel 1997 contro i 19 miliardi di dollari ad
inizio degli anni ’70. I flussi di investimento in entrata hanno superato i
250 miliardi di dollari sempre nel 1997, a fronte dei 16 miliardi di dollari a
inizio degli anni ’70.

La Tab.20 mostra l’evoluzione da metà degli anni ’80
nell’origine degli investimenti esteri in entrata per alcuni importanti paesi,
evidenziando significativi mutamenti nella composizione geografica.
E’ interessante mostrare quale sia la composizione
settoriale degli investimenti mondiali distinti per investimenti in entrata e
investimenti in uscita (cfr. Graff.28, 29) per evidenziare il
ruolo sempre più d’attrazione giocato dai comparti del terziario.
Gli investimenti diretti dei paesi industrializzati si è
rivolta in larga parte verso nazioni appartenenti alla stessa area (si passa dal
67% negli anni ’70 al 73,6 negli anni ‘90); la posizione degli USA come
paese investitore (si passa da circa il 50% a circa il 37%) si è molto ridotta
a favore dei paesi europei (che passano dal 29% nel 1970-75 al 38,2% nel
1990-95) e del Giappone (dallo 0,7% al 9,7%). Circa il 40% degli investimenti
diretti complessivi sono rappresentate da acquisizioni di tipo industriale
mentre sono aumentati molto gli investimenti nel settore dei servizi (nel 1995
rappresentavano circa il 50%).
In particolare per i paesi europei (Cfr.Tab.21) anche
nel 1997 si può osservare un forte scambio di flussi di IDE intereuropei.
Anche dall’analisi dei valori in stock (vedi Tab.22)
gli attori principali si confermano i Paesi Bassi, il Belgio, Francia , Germania
ed il Regno Unito.
Si può in conclusione sostenere che il fenomeno negli ultimi
anni ha raggiunto un’ottima dimensione e la sua evoluzione è ancora in
espansione anche se gli attori principali sono sempre gli stessi: i Paesi Bassi,
il Regno Unito, la Francia e la Germania; la maggior parte dei movimenti è
dovuta a gli investimenti di tipo equity (partecipazione azionaria al capitale
sociale) seguiti da quelli non equity ed infine troviamo gli utili reinvestiti.
Se si analizza da dove provengono e dove sono diretti principalmente gli
investimenti diretti europei si nota negli ultimi anni che una quota sempre
particolarmente rilevante, sia per gli IDE in entrata sia per quelli in uscita,
riguarda gli scambi intereuropei e quelli con gli USA.
L’analisi settoriale sui dati in stock riferiti al 1996,
evidenzia, tra i settori più dinamici il manifatturiero, in cui l’Europa
investe all’estero circa un terzo del totale europeo di IDE e riceve dall’estero
oltre un quarto del totale; il settore dell’agricoltura, invece, risulta quasi
assente, evidenziando delle percentuali in termini di attività e di passività
sempre bassissime. Negli ultimi anni il settore dei servizi sta assumendo molto
importanza nell’ambito dell’internazionalizzazione produttiva; infatti nel
1996, la quota degli investimenti diretti in questo settore raggiunge le
percentuali più alte rispetto agli altri settori; tra questi sempre più
importanza assumono gli IDE in attività finanziarie.
A causa della crisi che nel 1998 ha colpito i paesi asiatici
questi ultimi hanno dovuto effettuare delle correzioni di circa 90 miliardi di
dollari degli squilibri dei conti all’estero, ai quali è corrisposto un
incremento del disavanzo corrente degli USA di 80 miliardi di dollari e un
decremento di quasi 20 miliardi di dollari dell’attivo dei paesi dell’UE,
mentre è aumentato ancora l’avanzo del Giappone anche per un forte ribasso
della domanda interna. Sempre analizzando la "Relazione del Governatore
della Banca d’Italia all’Assemblea Generale dei Partecipanti" del 31
maggio 1999, si evince che oltre alle precedenti variazioni dei saldi del conto
corrente, nel 1998 è fortemente cambiata la composizione geografica dei flussi
internazionali dei capitali privati. Da evidenziare infatti il brusco
rallentamento dei finanziamenti netti (circa 60 miliardi di dollari nel 1998)
indirizzati ai paesi emergenti, mentre l’andamento dei corsi azionari nei
mercati finanziari dei paesi a capitalismo avanzato sono stati ovunque in
aumento ed i tassi di interesse a lungo termine sono ulteriormente diminuiti
rispetto al 1997 attestandosi ad un livello più basso del 4% medio complessivo.
La crescita sostenuta dei mercati azionari ed obbligazionari, l’andamento al
ribasso dei tassi sul mercato monetario hanno fatto sì che si è potuta
liberare una forte liquidità internazionale la quale però è stata indirizzata
soltanto verso la crescita dei paesi a capitalismo avanzato creando ulteriori
difficoltà ai paesi emergenti ed ai paesi in via di sviluppo in genere.
E’ in questo contesto che si spiega anche, e soprattutto,
economicamente la guerra della NATO contro la Jugoslavia, una guerra dal
profondo significato geoeconomico e geopolitico come scontro fra i due poli
imperialisti USA e UE.
La guerra in Jugoslavia, con le sue premesse e i suoi esiti,
attraverso l’affermazione dell’egemonia militare americana segna la fine del
sogno della diversità europea rispetto agli USA. L’Europa non può diventare un
polo di sviluppo a connotati economici e sociali che si riferiscono al modello
renano-nipponico. Lo svolgersi, anche diplomatico, e gli esiti della guerra
impongono il modello unico neoliberista, con un capitalismo sempre più
accanito, selvaggio e guerrafondaio sia nelle relazioni politiche, economiche
verso i paesi più poveri, sia verso quelli a medio livello di sviluppo, sia
nelle politiche economiche interne dei diversi paesi europei. Ciò però
significa nel contempo l’acutizzarsi dello scontro egemonico fra i due grandi
poli imperialisti. Trionfa, almeno momentaneamente, il modello imperialista
americano che ora è maggiormente in grado di unificare il tipo di politica
imperialista al modello di capitalismo anglosassone, ma ciò non significa certo
rottura della politica multipolare imperialista realizzata con atti continui di
guerra economica che assumeranno sempre più la forma di guerra guerreggiata per
l’affermazione delle gerarchie.
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