Il dominio dei brevetti e la globalizzazione diseguale
Marcos Costa Lima
Il ritardo tecnologico e le possibilità di sviluppo in America Latina attraverso il mercosud: opportunità in scienza e tecnologia
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In uno studio del 1995 Patel rappresenta la forte evidenza
dell’affermazione del controllo tecnologico esercitato dalle multinazionali,
nell’analizzare un campione di 569 imprese nella OCDE, sull’aspetto dell’internazionalizzazione
in Ricerca e Sviluppo. Delle imprese studiate, 341 realizzavano meno del 10% dei
loro sforzi tecnologici all’estero e solo 43 realizzavano più del 50% degli
sforzi in altri paesi. Le più grandi imprese del Giappone, degli Stati Uniti,
di Francia e di Germania effettuavano più dell’85% delle loro spese in
R&S entro le loro frontiere Costa Lima, 2000).
Questi dati convergono con le tesi di Celso Furtado sulla
valutazione dell’efficacia del processo di sostituzione delle importazioni in
America latina, realizzate attraverso dei gruppi stranieri. Per l’economista,
questo processo è stato ed è limitato, in primo luogo perché le imprese
straniere rispondono ad un sistema di decisioni che sta fuori del paese. In
secondo luogo perché decentralizzano determinate attività, mentre ne
centralizzano altre, specialmente quelle di maggior valore aggiunto basate sulle
tecnologie di punta. La complessità e la rapida obsolescenza dei prodotti le
rendono dipendenti sempre di più dagli input delle case-madri. In terzo luogo,
ancora più determinante, è il loro scopo, per ciò che concerne l’integrazione
internazionale.”Che paesi come il Brasile e l’Argentina, che hanno
raggiunto un grado relativamente elevato di industrializzazione senza per nulla
riuscire a modificare la composizione delle esportazioni -che continuano a
riflettere le vecchie strutture esportatrici di materie prime- costituisce la
chiara indicazione di ciò che questo tipo di industrializzazione è, un
semplice adattamento di una nuova forma di dipendenza esteriore” (furtado,
1987: 40).
Sebbene l’America latina abbia costruito, dall’inizio
degli anni 50, una ricca e creativa produzione accademica in relazione agli ampi
temi della scienza, della tecnologia, dell’innovazione e soprattutto delle
politiche di sviluppo, quando è giunta a formare le proprie specifiche agenzie
di scienza e tecnologia, (il CNPq, in Brasile ; il Conycet in Argentina; il
Conacyt in Messico e il Conicyt in Cile nel 1965); qualunque bilancio o
valutazione del settore negli anni 90 non può essere ottimista (Soares [1], 2001).
Ci sono stati sicuramente contributi inestimabili come quello
dell’argentino Amílcar Herrera [2], che fissa la distinzione tra
le politiche tecnologiche esplicite e implicite, strumento molto utile nell’indicarci
che le decisioni in materia di politica economica e di industrializzazione sono
quelle che definiscono la dinamica tecnologica, indipendentemente dalle
strategie politiche e piani di C&T. Le strategie esplicite, quasi sempre
ispirate nell’esperienza dei paesi industrialmente avanzati, erano in generale
descritte in progetti e documenti che difficilmente uscivano dalla carta in cui
erano scritti, perché richiedevano uno Stato diverso e trasformazioni sociali
che non esistevano. Fondamentale è anche il suo contributo nel senso di
rivelare le cause del ritardo scientifico e cercare i modi per superarlo
attraverso una politica di C&T adeguata alla realtà della regione,
rivelando che le imprese dell’America latina presentavano una serie di
condizionamenti che hanno generato degli ostacoli, ad esempio la non
combinazione dei risultati in R&S delle università; i comportamenti delle
imprese; la struttura dell’industria. Indica come uno dei nostri problemi, la
dimensione delle imprese, le imprese del Nord non sono solo più grandi delle
maggiori del Sud, ma lo sono anche in numero, concentrando i loro investimenti
in ricerche sulla formazione. O ancora quando per la necessità di formulare
strategie di ricerche nelle case-madri articolate e ancorate a progetti
nazionali che facciano parte di una politica scientifica ampia (Oteiza, 1991).
Altri autori hanno dato dei grandi contributi, che non c’è
bisogno di mettere in dettaglio qui, ad esempio Oscar Varsavksy, che propone la
formazione di squadre interdisciplinari di scienziati; quello di Jorge Sábato e
il suo modello triangolare, che sottolineava la mancanza di articolazione e le
debolezze tra Governo, infrastruttura di ricerca e struttura produttiva, senza
dimenticare l’urgenza che invocava, nel trasferire i risultati della ricerca e
dell’articolazione dell’infrastruttura scientifica e tecnologica alla
struttura produttiva della società. O ancora Osvaldo Sunkel, che accentuava l’impatto
sulla periferia dei processi di transnazionalizzazione combinata con la
sostituzione di importazioni. I lavori di Jeorge Katz, che valorizzavano gli
aspetti incrementali delle fasi tecnologiche, dell’apprendistato collettivo
degli adattamenti; dei loro studi sui brevetti in America latina. Non possiamo
dimenticare “l’industrializzazione monca in America latina”, di Fernando
Fejnzylber e la scoperta delle “competitività spurie”; nemmeno della
competente produzione del nucleo “neo-schumpeteriano” di Economia
Industriale della UFRJ,Paulo Tigre, Fábio Erber, Cassiolato. Non è stata e non
è la mancanza di competenza investita e di teorizzazione originale ciò che ha
ostacolato l’indipendenza e l’avanzamento tecnologico nella regione.
L’America latina,è in extremis, una risultante
delle trasformazioni che si sono avute nel continente europeo nel suo passaggio
alla fase mercantile del capitalismo. Senza ombra di dubbio ha le sue
particolarità, i suoi processi di articolazione coloniale, di liberazione di
costruzione sovrana. Ma il carattere della dipendenza esterna e del
sottosviluppo è un tratto indelebile della sua storia. Il CEPAL ha pubblicato
recentemente un comunicato dove si legge che nel 1960 c’erano nella regione
114 milioni di poveri, che sarebbero aumentati a 196 milioni nel 1990, arrivando
al 1994 con la triste constatazione che “il numero dei latino americani e
caribegni in situazione di povertà raggiunge i 210 milioni”, per una
popolazione di 481 milioni nel 1995 (Costa Lima, 2000).
Nonostante la crescita sistematica del PIL regionale tra il
1950 e il 1980, quando raggiunse la media del 6% l’anno, e la cattiva
costruzione dello sviluppo, ha generato una serie di squilibri che oggi si
vedono aggravati, tenendo in conto gli “anni perduti del 1980”, il basso
tasso di crescita risultante dalle politiche di aggiustamento, che includono la
concentrazione di reddito e l’assenza di politiche sociali strutturali
(tabelle 1, 2 e 3).



I paesi sviluppati al contrario di ciò che ha fatto l’America
latina, aumentarono il livello di qualità dell’educazione oltre l’aumento
del numero di matricole, elevando considerevolmente le spese, per un valore
compreso tra i US$ 2000 e i US$ 4500 annui per alunno, quasi dieci volte di più
che in quella regione. Questa è una sfida che dovrà essere affrontata con
fermezza e creatività, se si vuole stabilire un sistema regionale di
innovazione degno del nome (Sainz e Calcagno, 1992).
Se consideriamo il Decennio Perduto degli anni ’80 e le
politiche di aggiustamento prevalenti nel consiglio di Washington, che
stabilirono un modello economico basato sullo stato minimo (privatizzazioni);
deregolamentazione finanziaria e lavorativa e controllo monetarista, è più
facile capire i risultati rozzi e contraddittori della regione, soprattutto dei
grandi paesi, in termini di progresso tecnologico, nonostante i grandi
investimenti diretti come risultante della vendita delle imprese statali e della
politica di apertura commerciale.
Con degli indicatori così sostenuti della concentrazione di
reddito e dello scarso investimento dispendio e in un settore così strategico
ed essenziale come l’educazione, evidenziati nelle tabelle 2 e 3, è difficile
per l’America Latina presentare risultati significativi in Scienza e
Tecnologia.
Se non bastassero gli equivoci accumulati nel tempo nella
regione, in termini di comprensione del ruolo decisivo nella globalizzazione,
nei settori significativi della società civile, benché si parli della nuova
società di informazione e di conoscenza, lo spirito che prevale è molto più
quello della subordinazione, della ricerca di imitazione o dell’importazione
diretta.
Sebbene ci sia un grande insieme di problemi comuni nella
regione, è importante segnalare le asimmetrie e le differenze in C&T
esistenti, come si può vedere nella tabella 4 sotto.
Malgrado tutto, e malgrado la forte concentrazione brasiliana
nel settore, se facessimo una comparazione con gli USA, si riscontrerebbe l’enorme
fragilità della posizione dell’America Latina.
Anche riconoscendo l’eterogeneità della situazione, in
S&T in America Latina, possiamo sintetizzare i punti nevralgici del ritardo
tecnologico della regione, senza dimenticare che la stessa natura delle crisi e
le instabilità politico-economiche, da ciò decorrenti, stanno alla radice del
problema:
• Assenza di una politica industriale coerente ed
autonoma, capace di dare una direzione agli investimenti nel settore;
• Debole relazione con le necessità di sviluppo,
soprattutto per il lungo progetto della ISI (Industrializzazione Sostituzione
di Importazioni), più importatrice che creatrice;
• Mancanza di convergenza dei piani in C&T con le
strategie di sviluppo economico sociale e politico;
• Modello sbagliato di C&T, che privilegia il breve
termine, senza continuità e disarticolato;
• Scienza e la Tecnologia non effettivamente considerate
come attività strategiche e prioritarie per lo sviluppo nazionale;
• Scarsa partecipazione del settore privato nella
produzione di C&T, dimostrata dal numero dei ricercatori ed ingegneri che
stanno nelle imprese localizzate nel paese;
• Estrema dipendenza dai “pacchetti tecnologici”
esogeni;
• Basso livello di aiuto in C&T alle piccole e medie
imprese;
• La capacità in risorse umane, contraddittoriamente
formata dallo Stato, non ha risorse sufficienti per un miglior disimpegno;
• Concentrazione regionale degli investimenti nel
settore;
• Isolamento della comunità scientifica, malgrado il
protagonismo centrale che esercita, rispetto alle richieste del settore
industriale
• Forma autoritaria di conduzione delle politiche in
C&T, con ridotta partecipazione della comunità scientifica nelle
decisioni su proposte e assegnazioni di risorse;
• Inesistenza o blando controllo dello stato in relazione
alle importazioni realizzate dalle grandi corporazioni multinazionali;
• Assenza di responsabilizzazione del grande capitale
internazionale sul rapporto tra lucratività e sviluppo sostenibile dei paesi
della regione.
3.1 C&T in Brasile negli anni ’90
Per l’economista Maria da Conceição Tavares, in un saggio
brillante e pessimista, l’economia brasiliana è sempre cresciuta “verso l’interno”
e allo stesso tempo è sempre stata inserita in forma periferica e dipendente
dall’ordine economico mondiale. Malgrado non possa contare sulla generazione
di progresso tecnologico proprio, neanche con valuta convertibile sul mercato
mondiale, è stata una delle economie che, per più di 100 anni, ha avuto uno
dei maggiori tassi di crescita del mondo capitalista (Tavares, 1999: 456).
Il Brasile ha sempre funzionato come una piattaforma di
espansione del capitale industriale (1950) e, soprattutto, finanziario (dal XIX
secolo) internazionale. In pieno XXI secolo, gli interessi degli Stati Uniti per
il Brasile sono di mantenere la vocazione agro-esportatrice (i nostri “vantaggi
corporativi”), di preferenza all’interno delle proprie regole di libero
commercio, delle quali essi stessi sono autori (Costa Lima, 2000).
Avevo segnalato in un altro articolo le trappole di un
modello di sviluppo senza creatività, senza forza endogena, strutturato in
maniera che la leadership delle sue industrie venisse esercitata attraverso
filiali di imprese e i cui centri di gravità erano localizzati in altri paesi,
e l’approfondimento di questo modello difficilmente svilupperà un processo
creativo interno, perché questo non è l’obiettivo di chi comanda il processo
(Costa Lima, 2000).
Lo stesso con la creazione, nel 1951, del Consiglio Nazionale
di Ricerche -CNPq, non si può affermare di fatto che il paese all’epoca
avesse una politica deliberata di C&T. Solo a partire dagli anni ’70 si
pensa di sviluppare meccanismi finanziari specifici e di costruire un
infrastruttura istituzionale capace di stabilire un progetto di autonomia e
tecnologica per il paese. Negli anni ’80 fu fondamentale la creazione di
organi pubblici che dessero supporto finanziario perché le imprese potessero
investire in C&T, ad esempio l’Istituto Nazionale di Proprietà
Industriale (INPI), per la registrazione dei brevetti e l’acquisto di
tecnologie; l’Istituto Nazionale di Metrologia, Normalizzazione e Qualità
Industriale -INMETRO, per norme tecniche e certificazioni di qualità, e il
FINEP, una specie di banca nazionale per lo sviluppo di C&T.
C’è una lunga polemica in Brasile sulle statistiche che si riferiscono a
C&T e, soprattutto, quanto alla forma di verifica di queste spese da parte
del settore privato. Ciò nonostante è evidente che c’è stato un processo di
ristrutturazione nell’industria brasiliana negli anni ’90, che segue in
maniera mimetica la tendenza alla globalizzazione e all’apertura del mercato,
dando come risultati un rinnovamento tecnologico selettivo e incrementale in
diversi settori. Secondo il bilancio stabilito da Paulo Tigre ed altri per gli
anni ’90, il settore produttivo brasiliano aveva incrementato la sua
partecipazione nelle spese in C&T, dal 22% al 31% degli investimenti totali.
Esistono questioni preoccupanti, per quanto riguarda l’aumento delle
importazioni, che ha deteriorato sistematicamente la Bilancia dei Pagamenti, da
un surplus di US$ 16 miliardi nel 1992 ad un deficit di US$ 9 miliardi nel 1997.
Le importazioni triplicarono dal 1992-1997, balzando da US$ 20 miliardi a US$ 60
miliardi, poiché le esportazioni crebbero solo del 7,6% l’anno, nello stesso
periodo (Tigre e altri, 1999; 217).
La forte entrata di capitale internazionale, attraverso gli
IDE, configurandosi nell’acquisizione di imprese statali, principalmente in
servizi di telefonia, energia e banche, non genera esportazioni. Allo stesso
tempo vedono aumentare sensibilmente il coefficiente di importazione, che solo
nel settore dell’elettronica, nel 2000 è stato più di US$ 6 miliardi, senza
menzionare l’aumento delle rimesse in valuta all’estero (tabella7). Pertanto
la mancanza di una politica aggressiva di esportazione che va a pesare sul
deficit pubblico, come l’assenza di una politica industriale attiva nei
settori ad alta intensità di conoscenza, finiscono per accelerare il grado di
dipendenza tecnologica.


L’aumento delle importazioni delle forniture e dei
contratti tecnologici evidenzia che non stiamo camminando verso una posizione
miglior sul mercato internazionale, se continuiamo scegliendo, con rare
eccezioni, le esportazioni dei cosiddetti “vantaggi comparativi naturali”.
Nonostante l’attuale governo abbia stabilito nell’anno passato dieci “fondi
settoriali” di sviluppo scientifico e tecnologico, che probabilmente andranno
a generare una cospicua fetta di più di un miliardo all’anno in C&T, ad
esempio dei fondi di petrolio, di gas, di telefonia, di energia elettrica,
trasporti terrestri, risorse idriche e minerali, attività spaziali, oltre al
fondo “verde giallo” (università-imprese), che ancora non ci garantisce che
queste risorse verranno utilizzate nel modo migliore, né che saranno capaci di
istituire un effettivo sistema nazionale di innovazione, come afferma Fabio
Erber “in contesti dove predomina l’investimento minimo per in organismi
di C&T, il concetto sembra essere quello di una bassa applicazione”
(op. cit.: 186).
Il fondo “verde giallo” è l’unico a creare nuovi
contributi e che non è destinato ad un settore industriale o di servizi
specifico. Per alimentare il programma Università-Impresa, che è il suo
obiettivo, deve essere pagato un contributo del 10% per persona giuridica che
detenga una licenza di uso della conoscenza tecnologica e per chi avessi
contratti con l’esterno che implichino trasferimenti di tecnologia,
sfruttamento di brevetti, uso di marchi, fornitura di tecnologia e prestazione
di assistenza tecnica (Bittar, 2000).
Secondo il professor Roberto Nicolsky, della UFRJ, la
formattazione dei fondi settoriali non permetterà che si instaurino le
innovazioni tecnologiche necessarie, soprattutto perché tiene il mito che “è
nell’università che si fa ricerca ed innovazione tecnologica, contrariamente
alle tendenze mondiali e nei paesi di punta in tecnologia, dove il 75% delle
ricerche sono dirette all’innovazione tecnologica e realizzate nel settore
produttivo, pur garantendo un ruolo sostanziale alle università in questo
processo” (Nicolsky, 2000).
Tuttavia il rigido controllo delle spese pubbliche da parte
della FMI ha significato esattamente il contrario, a misura che il governo passa
a restringere le risorse per l’educazione superiore, rottamando lentamente l’insegnamento
pubblico, sia attraverso l’appiattimento salariale del settore, sia attraverso
i tagli alle risorse per la ricerca, tra gli altri.
[1] Susanna
Arosa Soares traccia un quadro, sintesi della storia della formazione dei
sistemi nazionali di C&T nel Mercosud e nel Cile.
[2] È un’opera indispensabile: Herrera
Amílcar (1971), Ciência e Política na America Latina. México: Siglo XXI.
Herrera contribuì anche in maniera decisiva al consolidamento di un nucleo di
C&T nella Unicamp, in Campinas, São Paulo.