Il movimento dei lavoratori davanti ai nuovi assetti capitalistici internazionali della competizione globale
Luciano Vasapollo
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Nel corso del 2001 l’attività economica è rallentata in
misura significativa anche nell’area dell’euro. I principali indicatori
congiunturali mostrano che la fase recessiva del 2001 ha toccato il suo punto di
minimo nel novembre 2001. Nella media dell’anno il prodotto è aumentato dell’1,5%,
contro il 3,5 nel 2000. Tutti i paesi dell’area hanno registrato una
decelerazione dell’attività nel 2001. Anche per il 2002 e questi ultimi mesi
sul rallentamento dell’attività economica nei paesi dell’area hanno pesato
la brusca frenata degli investimenti e la netta decelerazione delle
esportazioni. Il netto deterioramento delle attese sull’evoluzione della
domanda estera ha inciso sull’accumulazione, che si è arrestata. Il tasso di
sviluppo dei consumi delle famiglie si è ridotto in misura significativa
rispetto all’anno precedente. Il tasso di disoccupazione, sceso di quasi un
punto percentuale nel 2000, è rimasto sostanzialmente invariato nel corso del
2001, all’8,3% per crescere poi ulteriormente. La scomposizione settoriale
mostra come il rallentamento della crescita dell’occupazione abbia riguardato
principalmente il comparto industriale. Anche la creazione di posti di lavoro
nei servizi è risultata più lenta rispetto all’anno precedente [1].
In tutti i paesi dell’area si è registrata una moderata
intensità della ripresa nel 2002, comunque inferiore a quella degli Stati
Uniti. Infatti, contrariamente alle attese di molti operatori, la produzione
industriale non ha mostrato segni di accelerazione [2]. Si
può stimare che il rallentamento dell’attività economica nell’area dell’euro
sia riconducibile per oltre la metà a quello della domanda mondiale, su cui
hanno influito i rincari del petrolio negli anni precedenti.
Le principali istituzioni internazionali prevedono inoltre
una crescita in ripresa per il biennio 2003-2004. Ciò in previsione di una
accelerazione degli investimenti, dei consumi delle famiglie e di una ripresa
delle esportazioni; il tutto probabilmente sarà possibile se si continua a
mantenere in maniera diretta e indiretta un contesto di keynesismo di guerra.
Si consideri che l’ipotesi di riforma del bilancio europeo
da effettuare per il 2006 ha scatenato gli economisti di scuola keynesiana, che
vedono la possibilità di realizzare un modello di federalismo classico in modo
da utilizzare il bilancio comunitario in funzione di stabilizzazione
anticiclica, togliendo così tali funzioni alle singole autorità nazionali. In
quest’ambito bisogna considerare ovviamente le spese della difesa e della
sicurezza che dovranno essere sussunte in un quadro generale finanziario europeo
mettendole al centro della riforma del bilancio comunitario; giustificando tutto
ciò in funzione dei mutamenti del quadro geopolitica e della nuova
caratterizzazione che si è data la NATO a partire dagli attentati dell’11
settembre del 2001. Si consideri che in un rapporto commissionato dal Governo
Federale USA si è evidenziato che i quattro maggiori paesi della UE (Gran
Bretagna, Germania, Francia e Italia) hanno avuto una bassa crescita del PIL per
la scarsa spesa della difesa. Il rapporto della RAND si conclude sottolineando
che la spesa per la difesa dei suddetti paesi dell’UE è assolutamente
insufficiente non solo per gli impegni assunti dalla UE nella NATO ma anche per
gli impegni che i paesi membri dell’UE hanno sottoscritto nell’ambito della
ESDP (European Security and Defence Policy) e della RRF (Rapid Reaction Force).
Moderazione dell’inflazione, politiche economiche
decisamente espansive a connotati militari nelle maggiori economie e la ripresa
dei profitti delle imprese maggiormente legate all’economia di guerra, sono,
quindi, i fattori principali che potrebbero consentire alle economie avanzate di
riportarsi su un sentiero di crescita nel medio termine [3].
5. Il ruolo dell’Italia nella competizione globale
Si sta completando anche in Italia una fase di
ristrutturazione e ridefinizione del modello capitalistico che aveva
caratterizzato il periodo della ricostruzione post-bellica e della corsa allo
sviluppo industriale tipica degli anni ‘60 e ‘70. Non si tratta soltanto del
passaggio dall’era taylorista alle forme di liberismo postfordista, ma anche
del diffondersi dei diversi modi di presentarsi delle attività produttive, con
i connessi mutamenti nelle dinamiche evolutive dello sviluppo e delle
soggettualità socio-economiche.
In Italia, così come nel resto dei paesi a capitalismo
maturo, si è davanti, oltre che ad alcuni processi di deindustrializzazione e
ad una delle tante crisi del capitalismo, anche ad una sua importante
trasformazione in chiave economico-sociale che investe l’intera società.
Cioè dei processi di modificazione economico-produttiva che creano nuovi
bisogni senza soddisfarli, con una concezione della crescita economica, dello
stesso modo di essere della vita che induce a diversi comportamenti
socio-economici della collettività imposti e coercizzati dalla cultura d’impresa;
imposti, cioè, dalla flessibilità dell’impresa diffusa nel tessuto sociale.
Si superano, così, molte rigidità della società industrialista basata sulla
centralità di fabbrica in un contesto di crescita quantitativa senza qualità
dello sviluppo nelle aree centrali e di completa miseria assoluta senza
mediazioni nelle aree del Sud e più periferiche.
Ciò spiega ancor meglio i connotati anche qualitativi, oltre
che quantitativi, della ristrutturazione del capitale, la sua ridefinizione
sociale e come essa assuma sempre più un ruolo fondamentale per comprendere il
conflitto di classe delle nuove forme che andrà assumendo.
L’evoluzione del quadro economico internazionale si ripercuote, quindi,
necessariamente anche sull’economia italiana. È evidente un rallentamento
dell’attività produttiva. Le ultime stime indicano che anche il 2003 sarà un
anno in cui difficilmente potrà aversi una ripresa economica. Tale
decelerazione è stata causata da un indebolimento molto rapido della domanda
aggregata, e ciò attraverso una contrazione dei consumi totali e degli stessi
investimenti. È chiaro il legame con il mutamento delle condizioni dell’economia
internazionale, in primo luogo del rallentamento della domanda mondiale.
Infatti, l’unica componente che ha contribuito a sostenere la crescita, pur
modesta, della domanda aggregata (consumi, investimenti, esportazioni) è stata
quella interna a carattere derivato e riconducibile comunque soprattutto all’industria
connessa alla produzione di tipo militare. Se comunque si nota una piccola
ripresa degli investimenti, dovuta soprattutto al settore delle costruzioni e
alle infrastrutture, si evidenzia un trend assolutamente negativo per quanto
riguarda i consumi. E sembra veramente incredibile la ricetta del governo
italiano sul rafforzamento della dotazione di infrastrutture nel Paese e sull’equazione
meno tasse e contributi (ovviamente in particolare per le imprese) uguale a più
sviluppo. L’incredibilità nasce dal fatto che proprio in questo momento si
evidenzia una fase molto critica per la finanza pubblica, e che gli unici
provvedimenti per aumentare le entrate fiscali sembrano le privatizzazioni, le
cartolarizzazioni e i concordati fiscali. Non si pensa assolutamente invece a
ridare slancio al PIL attraverso interventi che rafforzino la struttura
produttiva italiana rilanciando l’occupazione. Si pensi al caso del gruppo
FIAT che insieme al suo indotto pesa sul PIL per circa lo 0,5% ed è il
produttore che ha subito sul mercato europeo la maggiore contrazione delle
vendite mentre ai primi anni ‘90 era il secondo gruppo in Europa con una quota
del 15%. Sembrerebbe quindi opportuno un rilancio degli investimenti e dell’occupazione
e non le manovre ridicole sui condoni e le finte diminuzioni delle tasse.
Il contributo delle attività economiche all’incremento
annuo del PIL è stato piuttosto differenziato: positivo ed elevato quello delle
attività dei servizi e delle costruzioni, quasi nullo quello delle attività
industriali in senso stretto.
Tra il 1995 e il 2001 il PIL è aumentato in Italia in media
dell’1,9% ogni anno. Alla base della debole crescita della nostra economia si
ritrova una perdita di competitività sia sul mercato internazionale sia su
quello interno. Il volume delle esportazioni italiane è aumentato tra il 1995 e
il 2001 del 25%. Nello stesso periodo lo sviluppo del commercio mondiale è
stato del 45%. La quota percentuale di prodotti italiani nel commercio mondiale,
valutata a prezzi costanti, è diminuita tra il 1995 e il 2001 dal 4,6 al 3,7%.
È solo con tali caratterizzazioni macroeconomiche che si
può pensare ad una ripresa della crescita del PIL e della domanda interna, cui
si dovrebbero aggiungere una dinamica favorevole della redditività di impresa e
la riduzione della pressione fiscale, mantenendo alta la domanda di
investimenti, che nel 2004 registrerebbero un tasso medio-alto di crescita. Le
esportazioni dovrebbero rimanere stabili risentendo della brusca frenata
registrata negli ultimi anni.
Il calo della competitività di tutto il sistema economico è
dovuto maggiormente ai risultati delle imprese più grandi, in cui si notano
ormai da anni difficoltà nel diffondere gli avanzamenti tecnologici, per
stimolare la ricerca, per formare capacità gestionali.
In questa direzione spingono sia il peggioramento delle
prospettive di ripresa dell’economia internazionale sia la perdita di
competitività di prezzo delle nostre esportazioni sui mercati extra-europei.
Nel 2003 e 2004 il PIL italiano, traendo stimolo dalla domanda interna sia dal
lato dei consumi delle famiglie che degli investimenti, dovrebbe riprendere a
crescere più o meno in linea con l’area dell’euro [4].
Il passaggio ormai è chiaro. Il terziario sempre più
abbandona il carattere residuale-assistenziale diventando, attraverso i processi
di flessibilità e precarizzazione imposti dalla nuova fase capitalista,
elemento di mantenimento e accelerazione della crescita quantitativa, fattore
trainante di un modello capitalistico che si è allontanato dalla centralità
industriale di fabbrica. Un terziario implicito ed esplicito capace di
rispondere in termini quantitativi, ma soprattutto qualitativi, alle continue
trasformazioni ed evoluzioni della domanda, promuovendo e realizzando di pari
passo processi innovativi per i fattori dell’offerta, imponendo all’intero
corpo sociale, alle nuove figure del lavoro, del non lavoro e del lavoro negato
un adattamento attivo al nuovo ciclo capitalistico basato sull’accumulazione
flessibile.
Il modello del capitalismo italiano assume come risorsa
principale ancora soprattutto le nuove forme del distretto industriale allargato
attraverso la struttura e le dinamiche delle filiere internazionali. Un modello
caratterizzato da specializzazione delle strutture e della forza lavoro all’interno
di reti di imprese in continua trasformazione, con multilocalizzazione delle
attività in presenza di strutture dinamiche e continuamente mutevoli. Al
contempo si realizza un massiccio ricorso alla flessibilità salariale, all’intensificazione
dei ritmi, all’elevata divisione del lavoro che spinge alla precarizzazione e
alla diffusione della negazione dei diritti sindacali.
La competitività della nostra industria ha risentito della
frammentazione dell’attività in un numero elevatissimo di imprese piccole.
Dimensioni aziendali ridotte conferiscono elasticità al sistema, ma rendono
più difficile lo sviluppo di prodotti e tecniche innovative, limitano l’efficienza
e puntando fortemente sul continuo processo di flessibilizzazione e
precarizzazione del mercato del lavoro.

Il 95% delle nostre imprese ha meno di 10 addetti. Il
contributo che le piccole imprese hanno fornito negli ultimi decenni allo
sviluppo della nostra economia è stato determinante, ma la frammentazione
rischia ora di incidere negativamente sulle capacità di crescita.
Il decentramento produttivo, la delocalizzazione, i processi
di esternalizzazione messi in essere dalle piccole, ma anche dalle grandi
aziende, riduce sempre più la quota di raggruppamenti di imprese all’interno
dei quali le condizioni di lavoro sfuggono ad una regolamentazione, il rapporto
con il lavoratore è sempre più a carattere individuale, privo di garanzie. A
ciò si aggiunge l’estendersi del fenomeno di miniaturizzazione dell’impresa
sino alla forma dell’impresa individuale, con il conseguente allargamento del
settore del lavoro autonomo di ultima generazione di strati crescenti di
lavoratori espulsi dall’impresa madre, costretti ad un precario lavoro
deregolamentato, nei fatti ancora più subordinato di quello che avevano in
precedenza.
La flessibilità è il nuovo paradigma per realizzare
sicuramente i diversi obiettivi del moderno progetto della società del
capitale: primo fra tutti un attacco deliberato ai diritti acquisiti dai
lavoratori (si pensi all’art.18 e in genere all’attacco all’intero Statuto
dei Lavoratori fino allo diritto di sciopero, alla deregolamentazione degli
orari di lavoro, alle condizioni del lavoro e ai livelli di reddito). Attraverso
la flessibilità si effettua poi una frammentazione della classe lavoratrice e
di conseguenza della sua possibilità di associazione (è chiaro che se in un’impresa
i lavoratori cambiano continuamente per sottostare ai principi di flessibilità
è molto più difficile che si organizzino).
Si va approfondendo così il solco fra un Paese ricco e
settori sempre più vasti di popolazione esclusa, precarizzata, vicino alla
soglia di povertà; masse sociali spesso rese da tali processi di
precarizzazione talmente emarginate e povere da essere considerate fra i “nuovi
miserabili” nella società dell’opulenza. Si giunge così alla
determinazione di nuove soggettualità locali del lavoro e del lavoro negato,
spesso ai margini del sistema produttivo ufficiale, che svolgono attività
sottopagate, lavoro nero, lavoratori che pur di avere garantito un minimo
reddito sono costrette ad accettare condizioni qualitative di lavoro tipiche
dell’inizio del secolo.
Si hanno, inoltre, dinamiche da economia marginale, come ad
esempio, le relazioni che tutte le strutture dell’economia stabiliscono con la
realtà produttiva meridionale. Relazioni che mutano nel tempo ma che continuano
a configurare rapporti funzionali da sottosviluppo, realizzati in maniera
specifica per l’evoluzione del sistema in altre aree dell’Italia, per la
riproduzione e l’espansione della struttura centrale dell’economia.
È con tale approccio che vanno letti i processi di
trasformazione. Si capisce così, ad esempio, come viene utilizzata l’industria
tradizionale (produzione standardizzata) nelle aree periferiche a basso costo
del lavoro e bassa conflittualità, innalzando i livelli di precarietà sociale;
mentre, invece, si mantiene l’industria innovativa (produzioni creative) nelle
aree centrali con mercato del lavoro altamente specializzato andando a
determinare una sorta di aristocrazia salariata e rendendo marginali ed
emarginati gli altri soggetti economici del lavoro. Si pensi ai lavoratori del
pubblico impiego, agli artigiani, ai piccoli commercianti, ai lavoratori
precari, ai sottoccupati, alle sempre più folte masse di disoccupazione palese
o più o meno occulta, fino a giungere alle aree sempre più fitte del lavoro
negato, di espulsione e completa emarginazione produttiva, reddituale e sociale.
Questa situazione ha portato alla nascita di una forma di
lavoro nuovo, alternativo chiamato anche “lavoro atipico o informale”. La
mancanza di protezioni legislative e sindacali fa sì che questi lavoratori non
siano garantiti in alcun modo e si trovino, quindi, ad operare in condizioni di
lavoro inaccettabili.
Nonostante il rallentamento dell’attività produttiva,
nella media l’occupazione, secondo la rilevazione delle forze di lavoro, è
aumentata. Ma la corretta lettura di questo dato deve tener conto della
precarizzazione del mercato del lavoro, della componente nelle sue diverse forme
della quota di occupati di carattere temporaneo; il numero di quelli dipendenti
permanenti a tempo pieno ha continuato a crescere anche grazie a specifiche
politiche di incentivazione. Questo è dovuto principalmente ad un nuovo sistema
economico, che produce quote sempre più elevate di ricchezza con quote sempre
più basse di lavoro; ai processi di informatizzazione che producono un grande
risparmio di forza lavoro, permettendo così la diminuzione dell’organico dei
lavoratori permanenti a tutto vantaggio di coloro che lavorano in modo precario
e a tempo parziale e creando un esercito di lavoratori di riserva in pianta
stabile. La disoccupazione, la flessibilità e la precarizzazione di salari e
delle forme di lavoro diventano così fenomeni strutturali. La maggiore
occupazione si è concentrata nel settore terziario. È ancora aumentato il
numero degli occupati nel settore delle costruzioni. Sono invece diminuiti gli
addetti all’industria manifatturiera [5].
[1] Cfr.
Ministero dell’Economia e delle Finanze “Relazione Generale...”, op. già
citata.
[2] Cfr. Confindustria,
Previsioni Macroeconomiche “La politica economica....”, op.citata.
[3] Cfr. Confindustria,
Previsioni Macroeconomiche “La politica economica...”, op. già citata.
[4] Cfr. Confindustria,
Previsioni Macroeconomiche “La politica economica...”, op. già citata.
[5] Cfr. Banca d’Italia “Assemblea
generale ordinaria dei partecipanti”, tenuta in Roma il 31/05/02. Anno 2001,
centottesimo esercizio.