Altre caratteristiche del lavoro part-time possono essere sottolineate.
- Abbiamo visto che la settimana lavorativa media in Europa
è di 38.2 ore (si veda tabella 16 più sopra). Vi sono però grandi differenze
tra nazioni a causa del lavoro part-time. La media settimanale per tutti i lavoratori
(dipendenti e autonomi) è più bassa in Olanda: 32.9 ore, a causa del suo tasso
di lavoratori part-time, il più alto in Europa. Quella più alta è in Grecia
(42.4), mentre l’Italia è al di sopra della media (39 ore).
- Vi sono grandi differenze tra tipi di lavoro. I lavoratori
con contratto a termine e quelli con contratto interinale lavorano di più part-time.
- Vi sono grandi differenze tra occupazioni. La proporzione
maggiore di lavoratori part-time si trova nei settori della vendita e dei servizi
(33%) e delle occupazioni elementari (31%) mentre quella minore si trova nelle
forze armate (4%) e negli operatori di macchina (5%).
- Il 23% dei lavoratori part-time dichiara che vorrebbe lavorare
più ore e il 9% che vorrebbero lavorare meno ore. Mentre l’8% delle donne vorrebbe,
lavorare meno ore, la proporzione per gli uomini e 17%.
Abbiamo considerato un tipo di lavoro atipico, il lavoro part-time.
Un altro tipo di lavoro atipico è il lavoro interinale. La dimensione di questo
nuovo fenomeno è relativamente modesta: si stima che, nel 1999, si aggirasse
tra 1,8 milioni e 2,1 milioni. Questo è circa tra il 1.1% e il 1.3% del totale
della popolazione lavoratrice. È tuttavia un fenomeno in grande espansione (vedi
sopra, sezione 2B). Dal 1992, i lavoratori interinali sono raddoppiati in Belgio,
nel Lussemburgo, in Inghilterra, in Olanda e in Germania, mentre si sono quadruplicati
in Austria; dal 1995, si sono quadruplicati in Portogallo e quintuplicati in
Spagna. In termini assoluti, sono la Francia (623.000 e in rapida crescita)
e l’Inghilterra (557.000, raddoppiati dal 1992) che hanno il numero maggiore
di lavoratori interinali. In termini relativi lo è l’Olanda (4% dei lavoratori
dipendenti). Le nazioni in cui tale fenomeno cresce più rapidamente sono l’Italia
e la Svezia. I lavoratori interinali sono giovani (ma l’età media incomincia
a crescere), sono in prevalenza uomini e lavorano principalmente nell’edilizia
(con l’eccezione dei paesi nordici).
È chiaro che questo tipo di impiego può disturbare sia la vita
lavorativa che quella familiare. In molti paesi dell’UE, questi lavoratori non
sono difesi né dal sistema legale (con l’eccezione della Svezia) né dai contratti
collettivi. Questa è una deficienza del sindacato. Inoltre, spesso non è chiaro
chi abbia la responsabilità sulle condizioni di lavoro, della salute e dell’addestramento
(training) di questi lavoratori. Essi sono quindi in una posizione svantaggiata
in confronto ad altre categorie di contratto. Per esempio:
- Gli incidenti sul lavoro non vengono denunciati
- Le ore lavorative sono decise esclusivamente dal datore di
lavoro e i lavoratori non hanno nessuna influenza sul ritmo di lavoro
- L’addestramento sul lavoro (training) è il più basso di tutte
le categorie di tipo di contratto (23%) con l’eccezione di coloro che apprendono
un lavoro (apprendistato).
La flessibilità ha un notevole effetto sulla durata del lavoro,
un effetto certamente negativo per i lavoratori che sono costretti a organizzare
il loro tempo di lavoro, sia settimanale che giornaliero, a seconda delle esigenze
del capitale. La durata della settimana lavorativa è stabilita legalmente. Nell’UE,
vi sono tre categorie di paesi con diverse lunghezze di settimane lavorative.

Nella prima categoria, con una durata massima di 48 ore, questo
limite è di gran lunga maggiore della durata stabilita tramite contratti collettivi
e della durata lavorata effettivamente. Questo limite quindi opera come una
rete di sicurezza e denota un ruolo abbastanza passivo dello Stato. Invece il
massimo di 40 ore nella seconda categoria è molto più vicino alla durata effettiva
e contrattata e quindi denota un ruolo più attivo dello Stato. Ora, questi massimi
possono essere facilmente ecceduti nel contesto della flessibilizzazione. Vediamo
un paio di esempi.
- In Austria è permesso lavorare fino a 50 ore settimanali
se si mantiene una media di 40 ore per un certo periodo.
- In Olanda la giornata lavorativa può essere estesa fino a
12 ore se in media la settimana lavorativa non eccede le 60 ore per un periodo
di 4 settimane e le 48 ore per un periodo di 13 settimane.
- In Norvegia, in circostanze specifiche e previo accordo coi
sindacati, la settimana può essere di 54 ore e la giornata di 10 ore per un
massimo di 6 settimane consecutive.
- In Portogallo è permesso lavorare 50 ore alla settimana a
patto che la media di 40 ore è mantenuta per un periodo di 4 mesi.
Vi è anche un limite legale per la giornata lavorativa, come
riassunto nella seguente tabella:

Anche in questo caso, questi limiti possono essere violati
come conseguenza della flessibilizzazione. Per esempio:
- In Germania il limite può essere esteso a 10 ore se la media
di 8 ore è mantenuta per 24 settimane.
- In Olanda, come menzionato più sopra, la giornata lavorativa
può essere estesa a 12 ore se in media la settimana lavorativa non eccede le
60 ore per un periodo di 4 settimane e le 48 ore per un periodo di 13 settimane.
- In Spagna la giornata può essere allungata se la media di
9 ore è mantenuta per un certo periodo di riferimento.
È in questo contesto che bisogna porre la diminuzione delle
settimana lavorativa dal 1995 al 2000. Per i lavoratori autonomi, si passa da
47 ore a 46,1 ore mentre per i lavoratori dipendenti si passa da 38 ore a 36.7
ore. Anche la disoccupazione cala, come si vede dalla seguente tabella:

Quindi, mentre l’occupazione cresce, la settimana lavorativa
decresce. Cioè si lavora in più ma si lavora meno. Questo, è un dato positivo
per i lavoratori o no? Non lo è. Prima di tutto, a prescindere dal miglioramento
suddetto, le condizioni per certi settori della classe lavoratrice rimangono
terribili.

Come si vede, l’Italia ha il poco invidiabile primato di essere
il paese dell’UE che ha il più alto tasso di disoccupazione giovanile a lungo
termine. Il tasso è ancor maggiore per i giovani del Sud Italia e per le giovani.
La differenza tra i due gruppi di età è eclatante, come si vede nella prossima
tabella. Anche qui l’Italia ha il triste primato di essere il paese col tasso
più alto.

Si è visto più sopra che il tasso di disoccupazione è maggiore
anche per quanto riguarda le donne rispetto agli uomini (tabella 7) e i lavoratori
non qualificati relativamente a quelli qualificati (tabella 14). Quindi, chi
paga di più per la disoccupazione sono i giovani, le donne e gli operai non
specializzati. Vi è stato evidentemente uno scambio, il capitale ha diminuito
la settimana lavorativa e la disoccupazione in cambio di un aumento della flessibilità,
del ritmo di lavoro, ecc., cioè di tutti quei fenomeni che sono stati analizzati
nella prima sezione, mentre la disoccupazione per gli strati più indifesi della
popolazione lavorativa (giovani, le donne e gli operai non specializzati) rimane
catastrofica.
Secondo, prescindendo da queste caratteristiche negative, consideriamo
gli effetti della diminuzione della settimana lavorativa sui salari. Vediamo
prima di tutto la posizione ufficiale. Non a caso, la ‘moderazione’ salariale
è la raccomandazione costante sia della Commissione Europea che del Consiglio
Europeo le cui direttive (guidelines) per la politica economica dei paesi membri
raccomandano che “nessuna riduzione del tempo di lavoro globale conduca ad un
aumento dei costi unitari di lavoro”. Ciò sembrerebbe significare che una diminuzione
del tempo di lavoro non debba essere compensata da un aumento dei costi di lavoro
reali, della proporzione del PIL che va al monte salari. In altre parole, ciò
sembrerebbe significare che si parli di un aumento assoluto del monte salari.
In effetti non si tratta di un aumento assoluto ma di un aumento relativo alle
ore lavorate. Se le ore lavorate diventa il termine di paragone, affinchè “nessuna
riduzione del tempo di lavoro globale conduca ad un aumento dei costi unitari
di lavoro”, la diminuzione del tempo di lavoro deve essere accompagnata da una
uguale riduzione del costo del lavoro. [1] Vediamo come stanno le cose a livello europeo.
Incominciamo dai salari nominali. Il loro tasso di crescita
aumenta dal 1960 alla metà del 1970. Questo tasso era di circa il 9% alla fine
degli anni ‘60 e aveva raggiunto il massimo, il 19%, nel 1975. Ciò è dovuto
alla crescente forza del movimento operaio in quel periodo. Con la sconfitta
del movimento, il tasso di crescita diminuisce costantemente fino a raggiungere
il 3% alla fine degli anni ‘90.
Come si vede, in Europa i salari nominali cadono, i prezzi
pure, ma siccome i salari cadono più dei prezzi, la crescita dei salari reali
cade dal 4.7% annuale nel 1961-70 a circa l’1% del ventennio 1980-2000. i salari
reali crescono ma ad un ritmo sempre minore. La crescita dei salari reali in
Italia è al di sopra della media europea fino all’ultimo decennio per poi precipitare
al di sotto di essa nel periodo 1991-2000.
L’aumento dei salari reali deve essere rapportato all’incremento
della produttività del lavoro. Se i salari reali crescono ad una percentuale
maggiore della produttività del lavoro, vi è una ridistribuzione del reddito
a favore del lavoro e a sfavore del capitale. L’opposto vale per un incremento
della produttività del lavoro maggiore di quello dei salari reali. A livello
europeo, mentre nel decennio 1961-70 i due indici crescono più o meno allo stesso
tempo, cioè l’incremento della produttività è diviso più o meno ugualmente tra
capitale e lavoro, nel decennio successivo, la fetta al lavoro aumenta leggermente
per poi cadere precipitosamente nel ventennio 1981-200, in cui la fetta maggiore
va al capitale. [2]

La situazione in Italia si contraddistingue per la sua differenza
con la media europea. Nel decennio passato, praticamente tutto l’aumento della
produttività è andata al capitale, una distribuzione molto più sfavorevole di
quella a livello europeo.
La relazione tra aumenti dei salari reali e aumenti della produttività
si riflette sulla fetta di reddito nazionale che va al lavoro. Più aumentano
i salari reali relativamente all’aumento della produttività, più aumenta la
fetta di reddito che va al lavoro. Ciò può essere visto nella seguente tabella:

Mentre negli ultimi vent’anni la quota del lavoro è costantemente
diminuita, di 3.9 punti percentuali, in Italia la diminuzione è stata ancor
maggiore, di 5 punti percentuali.
In breve, negli ultimi 20 anni del secolo scorso si nota un
declino del tasso di crescita dei salari nominali e di quelli reali. I salari
reali aumentano meno dell’aumento della produttività. Vi è quindi una ridistribuzione
a favore del capitale.
4. Il sindacato
Uno delle implicazioni della vittoria del pensiero neo-liberista
per il sindacalismo è l’idea, comunemente accettata, che la concertazione a
livello di impresa “può dare ai lavoratori dipendenti un maggior controllo sul
loro lavoro attraverso il coinvolgimento degli attivisti sindacali nello sviluppo
di nuove forme organizzative di lavoro e attraverso la creazione di posti di
lavoro ad alta prestazione” (A.Danford, M.Richardson, M.Upchurch, 2002, p.2).
I dati presentati in questo articolo sono una confutazione netta di tale posizione.
Due conlusioni seguono. Prima di tutto, la concertazione non paga a livello
europeo e paga ancor di meno a livello italiano. Quindi,ogni posizione che
continui la linea compartecipativa non può che peggiorare tali condizioni, diminuire
la combattività, e indebolire i sindacati e le organizzazioni della classe operaia.
Siccome l’attacco viene sferrato prima di tutto contro le categorie più deboli,
è necessario avanzare domande per un miglioramento delle condizioni di lavoro
dei precari, per una riduzione del divario sia nelle mansioni che nel reddito
tra uomini e donne, ecc.
Secondo, l’attacco alle condizioni di vita e di lavoro dei
lavoratori non è un fenomeno isolato ma è un’attacco a livello internazionale.
Quindi la risposta deve essere data a livello internazionale. Cosa significa
ciò concretamente? Prima di tutto dobbiamo essere coscienti che l’attacco padronale
è globale, anche se si manifesta in forme talvolta estremamente diverse in vari
paesi, e che quindi il movimento sindacale deve dare una risposta globale a
quest’attacco. Secondo, bisogna essere coscienti delle ragioni e conseguenze
internazionali dei problemi locali. Terzo, è necessario divulgare le violazioni
dei diritti sindacali non solo in Italia ma anche all’estero. Quarto, bisogna
evidenziare che tali violazioni hanno una radice specifica nella internazionalizzazione
del capitale. Quinto bisogna supportare lotte sindacali all’estero attraverso
informazione, coordinazione di proteste, messaggi di solidarietà, partecipazione
in campagne internazionali, pressioni sul governo, boicottaggi, se possibile
supporti finanziari, pressioni per l’abolizione di leggi anti-sindacali, provvedere
assistenza a sindacati e membri sindacali, ecc.
Creare contatti permanenti con sindacati e centrali sindacali
estere al fine di scambiarsi esperienze, ecc. Sesto, bisogna indagare sugli
investimenti esteri in Italia e le loro conseguenze per il movimento sindacale
e fare lo stesso per investimenti italiani all’estero, specialmente in paesi
a regime totalitario e fascista. Settimo, bisogna essere coscienti che ogniqualvolta
gli interessi nazionali, compresi gli interessi della classe operaia nazionale,
vengono contrapposti alla solidarietà internazionale, sono gli interessi del
capitale che vengono favoriti, non quelli della classe operaia. Ottavo, essere
coscienti che, anche se la solidarietà internazionale non è un sostituto della
forza sindacale nelle fabbriche, negli uffici, ecc. essa può tuttavia rafforzare
la forza sindacale locale.
In breve, bisogna fare in modo che la solidarietà internazionale
diventi parte integrale della vita sindacale nazionale, bisogna essere coscienti
della sua funzione positiva per il sindacato nazionale, ed essere coscienti
che questa è l’unica risposta all’attacco padronale su piano internazionale.
Questo è il nuovo compito del sindacato nell’era della ‘globalizzazione’.
BIBLIOGRAFIA
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Pisa
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in Bellofiore (1998)
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Wage Policy and EMU
Eurostat, Economic portrait of the European Union 2001,
[1] Per di più, il capitale reagirebbe
ad un aumento assoluto del monte salari tentando di aumentare la intensità del
lavoro.
[2] I salari reali sono definiti come l’incremento percentuale
annuo dei salari nominali corretti per l’inflazione. La produttività del lavoro
è definita come l’incremento percentuale annuo del PIL ai prezzi di mercato
del 1995.