L’impresa europea in cui l’occupazione diminuisce
- È di proprietà di una multinazionale dell’UE
- Ha una grande forza lavoro
- È portoghese o tedesca
- Ha una forza lavoro molto sindacalizzata
L’impresa europea in cui l’occupazione è stabile
- È danese
- Opera nel settore non-profit
- Appartiene al settore del commercio
- Pratica la flessibilità funzionale
L’impresa europea in cui l’occupazione cresce
- È molto innovativa
- È una sussidiaria di una impresa non dell’UE
- È irlandese o olandese
- Pratica la flessibilità di contratto moderatamente
- Non è sindacalizzata
Si noti che l’occupazione diminuisce nelle imprese con forza
lavoro sindacalizzata e che le imprese innovative agiscono negativamente sulla
sindacalizzazione della classe operaia. Indubbiamnte ció é dovuto al tipo di
lavoro creato dalle imprese innovative che assumono sempre di piú con contratti
a termine o interinali. Secondo stime dell’Eurostat, tra il 1994 e il 2000,
la proporzione dei lavoratori con contratto a termine o con contratti interinali
sale dell’8.9% e del 15.1%.
In breve, le imprese europee sottopongono in varie misure i
loro lavoratori alla dequalificazione delle mansioni, non introducono innovazioni
(si preferisce tagliare i salari), riducono l’occupazione (un terzo di esse),
e la maggioranza dei nuovi posti lavoro creati è o part-time o a contratto temporaneo.
Questi lavori implicano una maggiore esposizione a condizioni di lavoro gravose
e malsane. Per di più in quelle imprese in cui l’occupazione cresce di più,
la forza lavoro è meno sindacalizzata. Questi sono dati su cui il movimento
sindacale dovrebbe riflettere.
(C) Discriminazione sessuale. Vi sono grandi differenze tra
gli uomini e le donne che sono impiegati nei vari settori dell’economia a livello
europeo. Ciò è importante anche a causa delle diverse remunerazioni delle diverse
occupazioni.

Degli impiegati e degli addetti alle vendite e ai servizi (occupazioni
a bassi salari) le donne sono quasi il doppio degli uomini. Tra i professionisti,
sono gli uomini che rappresentano una più alta percentuale. Tuttavia, tra i
lavoratori non qualificati vi sono più uomini che donne, anche se la differenza
non è vistosa.
I dati sulla distribuzione del reddito per sessi (Tabella 4
qui sotto) sono eloquenti. Essi rivelano che il 26% delle donne lavorano a basso
livello di reddito mentre per gli uomini la percentuale è molto minore, il 9%.
Se consideriamo il livello basso-medio, le percentuali sono del 24% e del 19%.
Per il livello medio-alto, esse sono del 17% e 22%. Infine, gli uomini con un
livello di reddito alto sono più del doppio delle donne.
È anche significativo che i lavoratori il cui diretto superiore
sia una donna siano il 28% nei paesi scandinavi e nella Gran Bretagna ma solo
il 17% in Italia, al di sotto della media europea del 19%. Sono interessanti
anche i risultati delle interviste riassunte nela tabella 5.

Cioè circa il 20% dichiara di aver personale sotto la sua supervisione,
ma di questi circa 24% sono uomini e circa il 14% sono donne. Infine, gli ultimi
dati statistici disponibili sono eloquenti sia per quanto riguarda i salari
sia per ciò che concerne la disoccupazione.
(D) Salute e benessere. Quest’aspetto include sia la salute
fisica che mentale. I problemi più associati col lavoro sono di carattere muscolare
e delle ossa (muscoloskeletol). Secondo la Fondazione Europea, questi disturbi
hanno raggiunto una dimensione epidemica. “Nel 2000, il 33% dei lavoratori dichiararono
dolori di schiena, in confronto al 30% nel 1995, e il 23% dichiararono dolori
nel collo e nella schiena. È vero che queste sono dichiarazioni rilasciate dai
lavoratori stessi, però un controllo incrociato condotto nel Regno Unito nel
1995 con dottori che esercitavano la professione al fine di verificare uno studio
analogo confermò le dichiarazioni dei lavoratori.” (Fondazione Europea, 2002,
pp.14-15). Inoltre il 28% dei lavoratori dichiarano di soffrire di stress dovuto
al lavoro. La seguente tabella evidenzia una visione più dettagliata.
Le tabelle 1 e 2 più sopra hanno messo in evidenza l’aumento
dell’intensità di lavoro e, all’interno di questo contesto generale, il maggior
aumento per coloro con contratti interinali che per coloro con contratti a scadenza
fissa e ancor più di coloro con contratti a tempo indefinito. Questo dato è
importante perché numeroso studi evidenziano una correlazione tra il lavoro
interinale da una parte e condizioni di lavoro gravose e dannose condizioni
di salute dall’altra (si veda più sotto).
Questa tabella evidenzia come i lavoratori interinali siano
esposti più dei lavoratori a contratto a termine fisso e più dei lavoratori
a contratto indefinito a posizioni dolorose, a vibrazioni, e a rumore. Le differenze
tra i lavoratori con contratto a tempo indefinito e con contratto a termine
fisso sono meno grandi. Ma il dato che emerge più di tutti è la grande esposizione
a queste tra fonti di lavoro gravoso e dannoso per tutte e tre le categorie
di lavoratori.
Inoltre, vi sono problemi che anche se non sono problemi di
salute nel senso stretto, sono in ogni caso problemi di benessere che sono strettamente
correlati al lavoro, come le molestie sessuali e altre forme di violenza. Nella
Finlandia ben il 15% dei lavoratori dichiara di essere soggetto ad intimidazione,
seguita dall’Olanda e dal Regno Unito con il 14% mentre in Italia la percentuale
è solo del 4%, la più bassa assieme a quella del Portogallo (mentre la media
europea è del 9%). Ciò non vuol dire che le intimidazioni sul lavoro siano meno
in Italia e in Portogallo che nelle altre nazioni europee. Ciò significa solo
che le medie più alte si trovano in quei paesi in cui il dibattito su queste
questioni è più attivo e aperto.
Le ragioni per l’aggravarsi della salute e del benessere dei
lavoratori sono multiple. Prima di tutto, le nuove tecnologie, basate sull’uso
del computer, aumentano la pressione e il ritmo di lavoro, così come la capacità
di controllo sui lavoratori. In secondo luogo, non si sono ridotte sufficientemente
(se si sono ridotte) le cause di tali disturbi, nonostante un’ampia documentazione
sulla materia. Terzo, tali disturbi sono strettamente correlati con l’organizzazione
del lavoro, specialmente in quelle aziende in cui la norma è il lavoro ripetitivo
e stressante. Le privatizzazioni e le fusioni giocano un ruolo importante attraverso
la riduzione del personale (il che aumenta la pressione su coloro che rimangono
al loro posto di lavoro). A questo riguardo è importante sottolineare che un
terzo dei lavoratori dichiara di non aver nessun controllo su come il loro lavoro
e i loro compiti sono organizzati. Il 40% dichiara altresì di dover fare lavori
e movimenti ripetitivi. L’analisi mette in luce la stretta correlazione tra
lavoro ripetitivo e disturbi muscolari e delle ossa, una correlazione che diventa
sempre più stretta se l’intensità del lavoro e il carico di lavoro aumentano.
Infine, anche le nuove forme di organizzazione del lavoro - basate su una maggiore
responsabilità, sulla multicapacità, e su un tipo di lavoro che domanda e richiede
maggiori qualificazioni - necessitano allo stesso tempo un maggior impegno e
dispendio di energie. Ciò, a sua volta, conduce ad un maggiore stress, a disordini
muscolari e delle ossa, e ad incidenti sul lavoro. Questa intensità del lavoro,
definita dalla European Foundation come ‘una delle tendenze più significative
degli ultimi anni’, è aumentata costantemente nell’ultimo decennio, come si
può vedere dalla tabella piú sopra.
Questa intensificazione colpisce tutti i paesi della Unione
Europea, tutti i settori dell’industria e tutte le categorie occupazionali,
anche se in varia misura. L’intensificazione del lavoro è direttamente collegata
allo stress, ai disordini muscolari e delle ossa. Vi è anche una correlazione
con fenomeni di violenza e molestie sessuali (European Foundation, 2002, p.17).
Gli effetti sulla salute del dover lavorare ad alta velocità emergono chiaramente
dalla tabella seguente, dove il confronto è fatto con coloro che non devono
fare mai lavori sotto pressione.

È stata documentata ampiamente anche la correlazione tra problemi
di salute e l’aumento delle ore di lavoro. Anche il lavoro a turni e il lavoro
notturno possono avere effetti deleteri per la salute. Vi è anche, come già
detto più sopra, una correlazione tra forme di lavoro precario e salute. Questo
è stato documentato da un vasto corpo di ricerca. Le donne sono meno esposte
ai rischi ‘tradizionali’ sul lavoro ma più esposte alla discriminazione, intimidazione
e molestie sessuali. Infine, a differenze della situazione precedente, maggiori
probabilità di danni alla salute esistono non solo nei settori ‘tradizionali’
come l’edilizia e la manifattura, ma anche in ‘nuovi’ settori come i trasporti
e il catering.
Un’analisi per settore rivela le quattro le categorie che sonno
soggette a rumore, a vibrazioni, a fumi e vapori, che devono lavorare in posizioni
che causano dolore o stanchezza, o che devono portare pesi pesanti: esse sono
i lavoratori agricoli, gli artigiani, gli operatori di macchine (machine operators)
e coloro che hanno occupazioni elementari (European Foundation, 2001b, pp. 10-11).
(E) Qualità del lavoro. La qualità del lavoro dipende dalla
possibilità che il lavoro offre di sviluppare le potenzialità dei lavoratori
favorendo così la creazione di lavoratori qualificati (ma non necessariamente
specializzati). Vi sono ovviamente varie misure della qualità del lavoro. La
tabella 11 si basa su quattro indicatori.

Alcuni dati balzano subito all’occhio. La percentuale di coloro
che lavorano durante il fine settimana aumenta se si passa dai lavoratori dipendenti
con contratto permanente, ai lavoratori dipendenti con contratto temporaneo,
e ai lavoratori indipendenti. Ben più della metà dei lavoratori indipendenti
che lavorano a tempo pieno lavorano durante il fine settimana (56.8%) in confronto
al 21% dei dipendenti permanenti a tempo pieno. La percentuale è minore per
i lavoratori indipendenti part-time (35.6%) ma è maggiore di quella delle altre
categorie di lavoratori. Ciò richiama alla memoria la caratterizzazione data
da Marx dei lavoratori indipendenti come coloro che si ‘auto-sfruttano’ più
di quanto siano sfruttati i lavoratori dipendenti. Il fatto che tra l’85% e
il 90% di tali lavoratori possano controllare il loro tempo di lavoro indica
non una maggiore libertà e una migliore qualità del lavoro ma semplicemente
la condizione di doversi auto-sfruttare al massimo. Tale tendenza al massimo
auto-sfruttamento è dovuta alla minaccia insita nel fatto che per molti di tali
lavoratori l’unica alternativa è la disoccupazione. In questa categoria, si
trova anche la maggior proporzione di lavoratori che non hanno ricevuto una
formazione professionale sul lavoro nell’ultimo anno. La tabella che segue dà
informazioni più dettagliate sulla mancanza di tale formazione per categoria
di contratto. Si evince che i lavoratori più svantaggiati sono gli interinali,
seguiti dai lavoratori con contratto temporaneo e infine da quelli con contratto
permanente.

Infine, per quanto riguarda le specializzazioni, la maggior
proporzione dei lavoratori non specializzati si trovano prima nei lavoratori
dipendenti con contratto temporaneo part-time, poi nei lavoratori indipendenti
con contratto part-time, e infine nei lavoratori dipendenti con contratto permanente
ma part-time. In altre parole, in ciascuna di queste categorie il lavoro part-time
ha maggiori probabilità di essere un lavoro non qualificato. Ovviamente, come
aumenta il part-time, aumenta anche la precarietà del lavoro.
Un’altra misura della qualità del lavoro è data dalla tabella
che segue. Essa permette un confronto tra il 1995 e il 2000. Purtroppo, però,
su si basa su sei categorie diverse da quelle della tabella precedente.

La prima categoria, “far fronte agli standars di qualità” è
vaga e probabilmente riflette più la percezione degli intervistati della propria
posizione sociale che la qualitá del loro lavoro. Si nota in ogni caso un leggero
peggioramento dal 1995 al 2000. Lo stesso si può dire della seconda categoria
“valutazione della qualità” che riguarda la valutazione da parte dei lavoratori
stessi della qualità del loro lavoro. A questo riguardo bisogna dire che l’autovalutazione
può essere un metodo estremamente efficace di controllo da parte dell’azienda.
Da una parte costringe il lavoratore ad immedesimarsi nei fini e negli obiettivi
dell’azienda, dall’altra, se tale autovalutazione non è soddisfacente, scatta
un meccanismo di auto-supervisione e auto-controllo. Infine, tale autovalutazione
è immancabilmente collegata alla richiesta da parte dell’azienda di suggerimenti,
che devono essere proposti dai lavoratori stessi, su come migliorare la qualità
del proprio lavoro anche se la (auto)valutazione è stata positiva. Quindi questo
secondo criterio è più un criterio per il controllo sul lavoro che sulla qualità
del lavoro (nel senso indicato più sopra).
La capacità, o possibilità durante il lavoro, di risolvere
problemi non previsti rimane immutata. Essa, come l’altro criterio, lo svolgere
lavoro che implica compiti complessi, potrebbe essere una misura di un lavoro
vario e gratificante. In effetti, questo non è il caso. Lo svolgere lavori complessi
e il risolvere problemi possono essere una manifestazione sia di una dequalificazione
delle mansioni sia di una loro riqualificazione. L’aggiungere compiti dequalificati
ad altri e l’affrontare i problemi che ne possono derivare, lungi dall’essere
un segno di un miglioramento delle condizioni di lavoro, indica una maggiore
flessibilità funzionale ai fini, e vantaggiosa per l’azienda. [1] È in questa luce che i dati sulla monotonia del lavoro devono essere
visti. Maggiori compiti possono diminuire la monotonia del lavoro ma possono
altresì aumentare la flessibilità (disponibilità) e l’intensità del lavoro.
Non a caso, a questa minore monotonia si accompagna una diminuita opportunità
di apprendimento. Mentre il 92% dei professionisti gode di tali opportunità,
la percentuale è del 38% per le occupazioni elementari e del 63% per i lavoratori
nei servizi. In queste due categorie vi è anche una diminuzione di tali opportunità
del 10% dal 1995 al 2000. Questo handicap si riflette anche sul piano della
disoccupazione.
Questi dati, assieme a quanto detto più sopra sulla grande
incidenza del lavoro part-time, e quindi della precarietà del lavoro, conduce
ad un’unica conclusione: che il processo di globalizzazione è stato accompagnato
da un deterioramento della qualità del lavoro, soprattutto per gli strati più
deboli. Un’altra conclusione è altrettanto ovvia: che il sindacato dovrebbe
enfatizzare la qualità del lavoro nell’elaborare la propria strategia.
3. I mutamenti nel tempo di lavoro e il pluslavoro. [2]
Negli anni ‘80 e ‘90 vi sono stati mutamenti importanti nelle
relazioni tra lavoratori e datori di lavoro. Mentre i lavoratori a tempo pieno
sono ancora la maggioranza della popolazione lavoratrice, si è visto negli ultimi
anni il sorgere e l’espandersi di altre forme di contratto di lavoro, quali
il lavoro non fisso e il lavoro part-time. I dati sono come segue:

Come si vede, oggigiorno coloro che hanno un contratto a tempo
pieno e a tempo indeterminato (cioè con la maggior garanzia di un reddito regolare)
sono stati ridotti a poco più della metà della popolazione lavoratrice: 55%
per la UE and 57% per l’Italia. I contratti sono diventati flessibili (vedi
sopra) e le condizioni di lavoro precarie. L’Italia si contraddistingue per
la maggior proporzione dei piccoli imprenditori e dei lavoratori autonomi, due
categorie che spesso sono un serbatoio di disoccupazione nascosta.
Per quanto riguarda la durata del lavoro settimanale in Europa
essa è di 38,2 ore per tutti i lavoratori. Vi è però una grande differenze tra
lavoratori autonomi e lavoratori dipendenti, come si vede dalla seguente tabella.

Per quanto riguarda i lavoratori dipendenti, la seguente tabella
analizza le grandi differenze per tipo di contratto.

La tabella che segue dimostra che vi è un aumento del lavoro part-time dal
1995 al 2000 è che tale lavoro è ancora e sempre di più un fenomeno che riguarda
i lavoratori di sesso femminile.

Coloro che lavorano meno di 30 ore settimanali (part-time)
aumentano dal 15% al 16% dei lavoratori, però dato che essi sono per il 30%
donne (contro il 6% degli uomini) e dato che le donne si trovano nei livelli
salariali più bassi (vedi tabella 4, più sopra), un aumento del lavoro part-time
si riflette in una diminuzione del monte salari per tali lavoratori.
[1] A.Danford, M.Richardson,
M.Upchurch, (2002), sostengono che l’intensificazione del processo lavorativo
avviene “non solo aumentando il ritmo del lavoro ma anche catalizzando una ricomposizione
del lavoro attraverso un processo di compiti multipli, o di mix di abilità”
(p.15)
[2] Anche in questa sezione
i dati provengono per la maggior parte dalle pubblicazioni della European Foundation
for the Improvement of Living and Working Conditions citate nel testo. I commenti
e le conclusioni sono ovviamente di responsabilità dell’autore.