L’entrata di Pechino nella produzione mondiale di auto
avrà un effetto molto più dirompente del Messico. La rilocalizzazione in
questo paese è pressochè interamente manovrata dalle multinazionali Usa per
rivendere sullo stesso mercato nordamericano. In Brasile invece la crescita
della produzione automobilistica, che allo scoppio delle crisi del 1998 aveva
raggiunto un milione e settecentomila unità per poi crollare agli 1,2 milioni
attuali, si è prevalentemente orientata verso il mercato interno mentre l’espansione
delle esportazioni veniva concepita nel contesto del potenziamento dell’area
del Mercosur oggi completamente in crisi. La Cina sarà il primo paese ad alta
capacità industriale ma con redditi e costi da terzo mondo ad entrare nel
mercato globale del prodotto che costituisce l’asse portante della domanda
effettiva di beni industriali finali del mondo capitalistico. Gli effetti
saranno devastanti tanto per il Giappone quanto per l’Europa a meno che quest’ultima
non denunci gli accordi del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio).
Complessivamente quindi il settore è soggetto un’endemica capacità
produttiva eccedentaria dovuta alla stagnazione mondiale, da cui si può
liberare ricorrendo a massicce delocalizzazioni che possono effettuarsi solo se
vi si sono le condizioni politiche e strutturali adatte. La Cina le racchiude
tutte. È evidente che le rilocalizzazioni soprattutto verso un paese come la
Cina non potranno che comportare ampie dismissioni nei paesi a domanda satura la
cui dinamica presenta delle prospettive calanti ad esclusione dei 4WD. L’importanza
della Cina non deve essere sottovalutata considerando specialmente il contesto
mondiale che ha visto, oltre alla saturazione dei paesi industrializzati, la
crisi di paesi verso cui si dirigevano molte aspettative di sviluppo: Indonesia
e Brasile. La Cina si appresta quindi a diventare ad un tempo uno dei maggiori
paesi produttori ed uno dei maggiori esportatori lasciando poco respiro all’espansione
focalizzata sulle localizzazioni tradizionali, comprese quelle in Giappone. Se
ciò accadrà, l’effetto sui settori collegati all’auto sarà molto negativo
anche perchè il modello di sviluppo cinese è a due tempi: in una prima fase
importano macchinari e beni intermedi per sviluppare gli impianti in loco; in
una seconda fase esportano e riducono le importazioni in quanto hanno ormai i
mezzi per produrre gli input necessari.
La prospettiva del gioco oligopolistico e statal-competitivo
(Cina) nel settore dell’auto sul piano mondiale non è nemmeno a somma zero ma
piuttosto a somma negativa ove le perdite degli sconfitti tendono ad essere
maggiori dei guadagni dei vincitori. Per ora la grande stagnazione produttiva
nell’auto tradizionale colpisce sul piano territoriale prevalentemente gli
Usa, il Giappone, la Francia, l’Italia. Per le società americane questo non
costituisce un problema fintanto che hanno spazi per delocalizzare (in Messico
oggi e in Cina domani). Per il Giappone invece è un grande problema in quanto
rimette in discussione la coesione e la forza del capitale industriale
nipponico. In Europa il ventennio della grande stagnazione dell’auto
tradizionale ha visto movimenti contrastanti in cui gli elementi principali nel
1998 - anno di aspettative positive in termine di espansione (in Francia Jospin
parlava di rapido ritorno alla piena occupazione!) - erano, rapportati al 1979.
Stagnanti ed in calo le produzioni italiane, francesi, svedesi, belghe ed
olandesi; in espansione quelle spagnole, britanniche e tedesche. Inoltre a
partire dal 1995 è stato notevole il rilancio produttivo nei paesi dell’est
europeo soprattutto laddove sono entrate le case tedesche. Due sono gli elementi
dominanti del panorama europeo per il periodo 1979-98: la dinamica della
produzione tedesca (5milioni e 350mila unità), che nell’arco di tempo
considerato aumenta del 36%, contro il magro 19% dell’espansione mondiale,
nonchè la ripresa britannica la cui produzione d’auto mostra - con un un
milione e settecentocinquantamila auto - un incremento del 70% ritornando ai
livelli della fine degli anni sessanta.
Questi due dati racchiudono le strategia globale dei gruppi
tedeschi e - in Europa - di quelli giapponesi. Tra i grandi paesi
industrialmente maturi la Germania è l’unico ove la produzione non sia
rimasta stagnante. Un altro caso è il Canada ove però la maturazione
industriale e la riduzione della sua dipendenza dalle esportazioni di materie
prime è stata guidata proprio dalla produzione automobilistica. La stessa
formidabile espansione spagnola, è imputabile in misura non secondaria alla
strategia della Volkswagen dopo l’assorbimento della SEAT già di proprietà
FIAT. I gruppi tedeschi espandono la produzione compresa quella estera, nonchè
le esportazioni anche dagli stabilimenti esteri . Sul piano nazionale l’occupazione
diretta ed indiretta generata dal settore rimane elevata esibendo anche una
crescita. La Gran Bretagna, oltre ad essere il terreno di acquisti da parte di
società tedesche (Rover), è diventata la base principale degli investimenti
delle case nipponiche in Europa. I gruppi giapponesi erano fino al 1999 in
costante espansione ricoprendo oltre un terzo della produzione del Regno Unito.
Tuttavia a conferma che il boom del biennio 1999-2000 è stato prevalentemente
sostenuto dalle produzioni periferiche scaturite da strategie di
ristrutturazione a scapito delle localizzazioni centrali anche la dinamica
tedesca ha subito un arresto ed un calo. Lo stesso dicasi per la Gran Bretagna
(ma a partire dal 2000), per la Spagna e ovviamente per l’Italia. Diversa è
la situazione per ciò che riguarda la Francia. Pur non raggiungendo il livello
del 1979 la produzione nazionale francese è in espansione da alcuni anni.
Contemporaneamente è andata aumentando la produzione estera delle case d’oltralpe.
A conclusione di questa rassegna quantitativa possiamo dire
che non si è alterato il quadro altamente stazionistico del settore che in
realtà riflette la dinamica della crescita reale. Anzi è possibile afermare
che l’espansione del biennio 1999-2000 si è arrestata ed alla stagnazione si
è aggiunta la recessione che ora colpisce anche i 4WD. In tale quadro emergono
i gruppi multinazionali di tre paesi: USA, Giappone, Germania. I gruppi
americani, soprattutto i due principali - essendo il terzo, la Chrysler legata
alla Daimler-Mitsubishi in una fusione disastrosa - operano a tutto campo. Negli
Stati uniti non hanno esitato a massacrare la forza lavoro degli stabilimenti
tradizionali prima spostandosi verso il sud del paese ed appoggiandosi anche sul
Canada trasformando poi il Messico in un’importante base produttiva mettendo
così in concorrenza permanente i lavoratori messicani contro quelli americani.
Infatti qualsiasi convergenza dei salari messicani verso i livelli USA è
invalidata dal teorema contenuto nel proverbio “campa cavallo che l’erba
cresce”. Il ruolo del Messico è destinato ad accentuarsi, compreso nel campo
dei 4WD, e sta probabilmente ponendo termine alla funzione trainante assunta dal
settore dell’auto nella neoindustrializzazione del Canada. I gruppi USA
benchè anch’essi oberati di capacità eccedentarie sono riusciti, tra
delocalizzazioni, repressione salariale e normativa in patria e sviluppo dei 4WD
ad imbastire una buona difesa dei margini di profitto. Le case giapponesi invece
appaiono alquanto vulnerabili. Sul piano interno esse sono imbrigliate da un’acuta
stagnazione. Il loro combattimento, imperniato sulle trasformazioni tecnologiche
della produzione e del prodotto, consiste ad evitare che la stagnazione si
trasformi in una crisi profonda. Data la grande quantità di auto esportate i
loro margini margini di profitto sono stati costantemente rimessi in discussione
dalla rivalutazione dello yen. Dal 1995 al 1998 le case nipponiche hanno
beneficiato dell’impennata del dollaro dopodichè è rapparso lo spettro della
rivalutazione dello yen. Dalla fine del 2000 le autorità di Tokyo hanno cercato
periodicamente di svalutare la moneta nazionale ma con l’esplosione della
bolla speculativa di Wall Street, la recessione americana e la pressione al
ribasso del dollaro tale via di uscita è stata più o meno bloccata. I
giapponesi si sono insediati bene nella zona del Nafta ed hanno beneficiato del
regime a-sociale britannico per sviluppare la produzione europea. Tuttavia la
loro posizione non è così stabile come nell’America settentrionale. Negli
ultimi due anni le vendite europee delle marche nipponiche sono calate
sensibilmente. Tuttavia le case nipponiche rimangono delle società molto
potenti grazie all’indefessa focalizzazione sulla dimensione tecnico
innovativa. Nell’insieme le case tedesche se la sono passata meglio. Pur non
salvandosi dall’eccesso di capacità, esse hanno incamerato profitti
combinando le trasformazioni tecnologiche e nel prodotto all’aumentato volume
mondiale delle loro vendite.
3. La FIAT
La stagnazione e la crisi dell’auto crea quindi un’accentuata
cesura tra i gruppi dei tre grandi paesi ed il resto del mondo. Dato che ormai l’auto
è un prodotto mondiale la concorrenza e lo scontro tra le case marginali per
racimolare quote di domanda comprenderà la Francia, la Corea e l’Italia.
Quest’ultima, la cui produzione si identifica totalmente con un unico gruppo,
la FIAT, è la più debole e fragile. Del resto il comportamento della direzione
aziendale non solo durante la crisi in corso ma nell’arco di tutto il
trascorso decennio mostra che ad ogni diffcoltà managers e proprietà si
ritirano dalla battaglia produttiva. Le stesse ristrutturazioni ed espulsioni di
lavoratori, effettuati anche dalle case di altri paesi (meno però in Germania),
vengono in Italia concepite per recuperare profitti rispetto alle perdite in un
quadro però di abbandono del settore. All’azienda dell’auto italiana si
possono muovere le stesse critiche che vennero indirizzate alle società
americane negli anni settanta quando gli Usa subirono l’impatto della
concorrenza nipponica. Le osservazioni più fondate riguardavano la
trasformazione in senso finanziario dei ceti dirigenziali e manageriali delle
società americane. Per molti aspetti la FIAT in questo campo è andata oltre i
traguardi americani usando la tecnologia per spremere plusvalore da trasferire
altrove. Sul piano tecnico e stilistico la storia dell’automobile italiana non
è per nulla quella di un paese in via di sviluppo o in fase di
industrializzazione, come sono invece le storie dell’auto giapponese e
coreana. Nata appena venne concepita l’automobile nella zona del triangolo
industriale l’auto italiana è stata tra i pionieri del settore nè è mai
stata inferiore alle produzioni straniere in materia di qualità, funzionalità
ed aspetti meccanici. Il declino del comparto in Italia sembra corrispondere
alla fagocitazione di tutta la produzione automobilistica nazionale da parte
della FIAT. Il problema risiede quindi nella strategia monopolistica e di fuga
dalla produzione perseguita dal gruppo soprattutto da quando è terminata la
sistematica espansione della domanda mondiale dell’auto. In questo quadro i
pubblici poteri devono essere messi sotto accusa non perchè hanno sussidiato e
trasferito soldi all’azienda ma per averlo fatto con la volontà di
assecondare e facilitare la strategia del gruppo.
Qui mi permetto di aprire una breve parentesi. Considero una
manifestazione di ritardo culturale quella di definire il capitalismo italiano
come un capitalismo assistenziale - così me l’ha definito Lucio Magri, l’anno
scorso non trent’anni fa, parlando appunto del Giappone - in contrapposizione
all’autonomo ed endogeno produttivismo nipponico ed alla razionalità tecnica
dei tedeschi. Tutti i capitalismi sono e sono stati profondamente assistiti.
Quello giapponese oggi non si terrebbe in piedi senza il denaro a fondo perduto
proveniente dal governo mentre queste stesse operazioni nel passato l’hanno
rimesso in piedi permettendogli di correre più degli altri, come del resto è
successo anche all’Italia. Negli USA il capitalismo è iper-assistito al punto
che funziona veramente solo intorno al comparto militar-industriale ove si
concentra l’assistenza. Il resto va più o meno a rotoli [1]. Ma anche nel settore militar-industriale, controllato da
un pugno di grandi aziende, le società fanno quello che vogliono: dalla
fissazione dei prezzi alla produzione di materiale difettoso. Come documentato
da Markusen e Judken le aziende istituzionalmente monopolistiche del complesso
militar-industriale ricevono sussidi, aiuti per le esportazioni (spesso e
volentieri pagate dallo stesso governo USA con trasferimenti ai paesi
satelliti), vengono inoltre regolarmente salvate dalle crisi finanziarie [2]. Esattamente così la Fiat ha fatto con lo Stato
italiano con la differenza che ha anche dovuto scontrarsi con le altre società
produttrici perdendo in un contesto di domanda globale stagnante.

Allo stato attuale ed in un clima mondiale di recessione sono
poche le probabilità di un rilancio dell’auto italiana. La cultura FIAT
impedisce perfino la ricerca di una tale possibilità. Vale però la pena
mettere in guardia contro la tentazione di stabilire delle correlazioni che
possono apparire confortevoli ma che in realtà sono ingannevoli. È fuorviante
sostenere, come è stato affermato in ambienti sindacali e politici di sinistra,
che la FIAT ha fallito perchè invece di cooperare con i lavoratori ed i
sindacati ha scelto la via della repressione pagando ora il prezzo della
vittoria del 1980. Invece sostengo che la FIAT ha condotto molto bene la sua
lotta di classe vincendo. Forte dell’appoggio dello Stato e completamente
guidata da criteri di un conglemerato finanziario, il gruppo ha usato il settore
dell’auto come fonte di cash flow finanziario. La sconfitta produttiva della
FIAT scaturisce dallo scontro sul piano mondiale tra i capitali del settore
segnatamente al vincolo rappresentatao dalla domanda. Non è quindi il prodotto
dello scontro specifico tra l’azienda ed i lavoratori. L’unica relazione che
si può stabilire tra la gestione manageriale e la lotta di classe condotta dal’azienda
è ipotetica e dipende dall’accettazione o meno del modello svedese classico.
Si potrebbe infatti dire che un’eventuale vittoria dei lavoratori nel 1980
avrebbe aperto la via ad una costante e sistematica pressione sociale sui
margini di profitto tale da obbligare la direzione ad investire in nuovi modelli
ed in nuove tecnologie per allentare tale pressione che si sarebbe manifestata
nuovamente con l’aumento della produttività indotto dalle innovazioni. Il
modello svedese classico si basava su una pressione istituzionalizzata dei
margini di profitto attraverso l’azione sindacale. In Svezia il modello non
esiste più e veniva abbandonato più o meno mentre la FIAT emergeva vittoriosa
nel 1980.

Se è inapplicabile il modello svedese è applicabile alla
storia italiana il modello Volkswagen? Anche su questo punto nutro molti dubbi,
il primo concerne la natura mitica dell’accordo VW. Ma non conosco la storia
aziendale nei dettagli per esprimermi. Mi sembra però che lo schema VW sia nato
quando in Germania ancora vigeva tra il governo, i sindacati ed il padronato il
totale consenso sulla strategia delle esportazioni per uscire dalla
disoccupazione e dalla crisi dal deficit della bilancia dei pagamenti
sopravvenuto dopo l’assorbimento della Germania orientale. Bisogna vedere
quale è lo stato attuale dello schema in una situazione in cui la produzione di
auto in Germania sta flettendo. Il modello svedese è defunto, quello VW è
completamente specifico alla Germania. Non vi sono modelli applicabili. È
difficile che l’attuale forma proprietaria sia in grado di affrontare
concorrenti come le società francesi e coreane. Nel caso coreano l’auto è
considerata, assieme alla cantieristica ed all’elettronica, il settore che
permetterà al paese di lasciarsi alle spalle definitivamente i ricordi della
crisi asiatica. I coreani, che oggi producono 2,6 milioni di automobli, sono
consapapevoli del rischio di essere colti tra i colossi nipponici e l’eventuale
dinamica cinese. La loro soluzione è la concorrenza mondiale su gamme medie ed
alte in conflitto con i giapponesi.

La crisi della FIAT sembra quindi definire l’inizio di una
grande fase di deindustrializzazione del paese, di una sua profonda
marginalizzazione nell’ambito dell’economia mondiale. La via di uscita dalla
crisi non si può trovare all’interno dell’attuale assetto proprietario nè
nei tradizionali sussidi pubblici. La questione FIAT è un problema generale che
coinvolge molti settori, intere aree comunali ed urbane e può pertanto essere
affrontata solo con programma di pianificazione e di controllo sociale sul
gruppo mediante la nazionalizzazione. Questa misura però deve essere vista non
come un fine ma come uno strumento per socializzare la FIAT. È la dimensione
macroeconomica e multisettoriale ad imporla come mezzo di programmazione in
alternativa alla deindustrializzazione ed alla devastazione sociale.

[1] Seymour Melman. “From
Private to State Capitalism: How the Permanent War Economy Transformed the
Institutions of American Capitalism”, Journal of Economic Issues. Vol. 31 (2).
p 311-30. June 199.
[2] Ann
Markusen and Joel Yudken, Dismantling the Cold War Economy, New York: Harper
Collins, Basic Books, 1992.