1. Globalizzazione o Internazionalizzazione?
Le mutate condizioni internazionali entro cui si muove il sindacato
oggigiorno sono spesso riassunte in una parola: globalizzazione. [1] In genere si pone l’accento su alcuni
aspetti che caratterizzerebbero la globalizzazione: il ruolo dominante delle
multinazionali, la grande mobilità di immense quantità di capitale sui mercati
finanziari, il crollo dell’Unione Sovietica, la costante introduzione delle
nuove tecnologie, specialmente l’informatica. Tutti questi sono elementi di
una nuova realtà. Tuttavia la nozione che li colloca in un unico quadro teorico,
la globalizzazione, è altamente ideologica. Infatti essa percepisce tutti questi
elementi come aspetti di un sistema che, avendo sconfitto il nemico mortale,
il comunismo, mette fine alla storia e apre le porte ad una generalizzata abbondanza
e alla democrazia globale. In breve il termine globalizzazione celebra la vittoria
del bene contro il male, del capitalismo e della libertà contro il comunismo
e la schiavitù. È vero, si ammette con un po’ di imbarazzo che, a più di un
decennio dalla scomparsa dell’impero del male, la disoccupazione, la povertà,
le guerre, i disastri ecologici, ecc. non sono scomparsi, ma tutto ciò è visto
come un residuo del passato che sarà eliminato dalla marcia trionfale del capitalismo
globale. In breve se il capitale fosse una persona, questo sarebbe il suo sogno
più roseo. Però esso sarebbe solo un sogno, ben distante dalla realtà.
Prima di tutto si pone l’accento sulla grande mobilità del
capitale finanziario. Ogni giorno non meno di 1.500 miliardi di dollari si muovono
per i mercati finanziari alla ricerca continua di profitti, generalmente da
speculazione. Ciò è visto come un’espressione dell’efficienza del sistema capitalistico,
anche se ormai da tempo si levano voci che vorrebbero limitare queste onde di
trasferimenti di capitale. Infatti questa quantità gigantesca causa la volatilità
dei tassi di cambio, è un catalizzatore (anche se non ne è la causa) di crisi
finanziarie, e influenza, e talvolta detta, le politiche nazionali specialmente
del terzo mondo. Di fronte a questi effetti dirompenti, il movimento per la
Tobin Tax sembra diventare sempre più vasto.
Ora, l’origine di queste immense quantità di capitale e il
loro scorrazzare per i mercati finanziari internazionali alla ricerca di profitti
non hanno nulla a che vedere con la caduta del blocco sovietico e con maggiori
possibilità di investimenti finanziari e speculativi in quell’area (una delle
tesi della globalizzazione). L’origine di queste enormi masse di capitale finanziario
risiede nel fatto che quel capitale non riesce a trovare uno sbocco vantaggioso
nella sfera della produzione e che quindi tenta la sua fortuna in operazioni
finanziarie e speculative. Da questo punto di vista, la grandezza dei capitali
finanziari in cerca di profitti, lungi dall’essere un’espressione della maggiore
libertà del capitale di esprimere la sua razionalità in territori precedentemente
“condannati alla irrazionalità economica”, è un indicatore della gravità della
crisi economica attuale.
Il secondo pilastro su cui si basa l’ideologia della globalizzazione
è che, con la fine dell’Unione Sovietica, il capitale può penetrare in tutti
e quattro gli angoli del mondo portando con sé la democrazia. Naturalmente ci
si riferisce ad una forma specifica di democrazia, quella rappresentativa e
più in generale quella funzionale alla riproduzione del capitalismo. Ora, è
ormai chiaro a tutti che l’asserzione secondo cui la democrazia si è estesa
anche alle cosiddette economie emergenti è ovviamente falsa. Questi paesi sono
sprofondati in una crisi economica senza precedenti allo stesso tempo sostituendo
il loro precedente apparato burocratico con una nuova classe politica fortemente
capitalista e basata apertamente sulla corruzione.
Il terzo fattore che caratterizza il contenuto ideologico del
concetto di globalizzazione è che essa si basa su, e rafforza ulteriormente,
la dottrina neoliberista. Anche su questo punto ci sarebbe molto da dire. Le
politiche neoliberiste non esprimono una razionalità economica astratta, esprimono
e teorizzano gli interessi del grande capitale come se essi fossero l’espressione
di una non meglio identificata razionalità insita negli essere umani. La dottrina
neoliberista si basa su grossolani errori teorici ma, né gli accademici né i
politici, sembrano volersene accorgere data la funzionalità di tale dottrina
per le politiche neoliberiste, cioè per il perseguimento degli interessi del
grande capitale. È in questa luce che le privatizzazioni, i tagli di bilancio,
gli attacchi padronali al salario e al lavoro, eccetera, dovrebbero essere visti.
Infine vi è un quarto punto, le nuove tecnologie, specialmente
l’informatica. Nel lungo periodo, queste tecnologie dovrebbero mettere fine
al lavoro umano (e quindi alla classe lavoratrice) dando finalmente l’opportunità
agli uomini e alle donne di diventare arbitri del loro destino. Nel corto periodo
queste tecnologie dovrebbero aumentare i livelli di occupazione, diminuire il
tempo di lavoro, alleggerirne il carico, renderlo più soddisfacente e meglio
remunerato. Il resto di quest’articolo effettuerà una critica dettagliata di
queste asserzioni e più in generale una valutazione degli effetti sul lavoro
non solo dell’introduzione di tali tecnologie ma degli aspetti discussi brevemente
qui sopra. La dimensione sarà quella europea, cioè dell’Unione Europea dei quindici,
a meno che non si indichi diversamente.
2. I mutamenti nell’organizzazione lavoro
Le conseguenze dei cambiamenti sopracitati per il lavoro possono
essere raggruppate sotto diverse voci. Esaminiamone alcune. [2]
(A) Intensità del lavoro. Questo è un elemento di grande interesse
perché è, forse, l’indice più importante dei rapporti di forza tra i lavoratori
e i capitalisti all’interno del posto di lavoro. La ragione è semplice, è qui
che si gioca principalmente la partita sull’estrazione di plusvalore. Per quanto
riguarda l’intensità del lavoro, si possono usare vari indicatori. I primi due
sono riportati nella tabella 1 e sono le percentuali (a) di coloro che lavorano
a ritmo elevato [3] e (b) di coloro che devono rispettare scadenze strette.

Già nel 1990 circa la metà degli intervistati dovevano lavorare
a queste condizioni ma le percentuali sono aumentate costantemente tra il 1990
e il 2000 e sono ora attorno al 60%. Dati ulteriori indicano che, se si confrontano
le varie professioni, per quanto riguarda il ritmo di lavoro, sono i tecnici
che subiscono l’aumento più rilevante (8% in più per coloro che lavorano a ritmo
elevato per almeno un quarto del loro tempo e 3% in più per coloro che lavorano
a ritmo elevato per tutto il tempo); per quanto riguarda il dover lavorare rispettando
scadenze strette, sono di nuovo i tecnici a subire un aumento con approssimativamente
le stesse percentuali. Vi è invece una diminuzione di coloro che lavorano a
ritmo elevato e a scadenze strette per la categoria dei managers e altre figure
simili.
La tabella 2 si basa su altri quattro indicatori: le percentuali
di coloro che devono lavorare a ritmo elevato continuamente, coloro che devono
fare movimenti ripetitivi continuamente, e coloro che non hanno controllo sul
loro ritmo di lavoro e coloro che non hanno avuto una formazione professionale.
Così si può vedere in che misura una maggiore proporzione dei lavoratori con
contratto interinale debbono lavorare continuamente ad alta velocità, devono
fare continuamente movimenti ripetitivi e non hanno nessun controllo sul ritmo
del lavoro più dei lavoratori con contratto a termine fisso e ancor più dei
lavoratori con contratto a termine indefinito. Allo stesso tempo, la proporzione
dei lavoratori interinali che riceve una formazione professionale è minore di
quella delle altre due categorie di lavoratori.

Anche queste percentuali sono alte. Per di più, per quanto
riguarda i primi tre indici, esse crescono nella misura in cui si passa da lavoratori
con contratto indefinito, a lavoratori con contratto a tempo determinato, e
a lavoratori con contratto interinale. Esse diminuiscono per il quarto (le percentuali
di coloro che non hanno una formazione professionale). Qui si può aggiungere
un’ulteriore informazione per nazione su coloro che devono lavorare costantemente
ad alte velocità. La percentuale maggiore si trova nella Danimarca (58%) quella
minore nella Spagna, (30%), la media è del 45%, mentre l’Italia è attorno alla
media col 43%.
Un altro indice riguarda la possibilità di fare pause durante
il tempo di lavoro. Questa possibilità diminuisce tra il 1995 (63%) e il 2000
(61%). Si noti che questo significa che quasi il 40% degli intervistati non
ha assolutamente nessuna possibilità di decidere quando fare una pausa. Siccome
gli intervistati appartengono sia ai lavoratori che agli imprenditori che ad
altre classi, la percentuale dei lavoratori che non hanno questa possibilità
è in effetti ben più alta. Vi sono anche grandi differenze tra lavoratori autonomi
(86%) e alle dipendenze (56%). Per quanto riguarda le occupazioni, la situazione
si deteriora nel campo dei servizi.
Un ulteriore indice è la possibilità di scegliere le ore di
lavoro. Nella media, il 56% degli intervistati non ha questa libertà. Anche
qui vi sono grandi differenze tra i lavoratori autonomi (16%) e i lavoratori
dipendenti (64%); tra uomini (53%) e donne (59%); e tra lavoratori con contratti
permanenti (62%), con contratto a termine (71%), e interinale (77%).
L’ultimo indicatore riguarda il tempo per fare il proprio lavoro.
Dei lavoratori dipendenti, il 24% dichiarano che il tempo loro destinato non
è sufficiente. Anche qui vi sono differenze tra i lavoratori con tipi diversi
di contratto. Per coloro che hanno un contratto permanente la percentuale è
del 30%, mentre è del 23% per i contratti a termine fisso e del 29% per i contratti
interinali.
Quali sono i fattori che influenzano il ritmo e l’intensità
del lavoro? La European Foundation (2001b) menziona i seguenti fattori. Prima
di tutto vi è stato un notevole aumento del ritmo e intensità indotti dai colleghi
di lavoro. Questo è un dato comune a tutti i paesi e a tutte le occupazioni
(con l’eccezione dell’agricoltura e delle occupazioni elementari). Questo dato,
ovviamente, deve essere interpretato. Il fatto che un lavoratore si senta spronato
a lavorare più intensamente dal collega, e che lo stesso valga per il collega,
si può spiegare solo in un modo e cioè che è l’organizzazione stessa del lavoro
(e quindi coloro che l’hanno disegnata in quel modo) che fa in modo che i lavoratori
si spronino a vicenda. È ovvio che ci debba essere qualcuno, gli imprenditori,
che trae vantaggio da tale situazione. Una seconda ragione sembra essere il
ritmo indotto dalle domande dei clienti, passeggeri, allievi, pazienti, ecc.
Anche qui vi è un aumento dal 67% nel 1995 al 69% nel 2000. Anche qui, a questa
domanda esterna può essere permesso di (o é facilitato) porre maggiormente sotto
pressione i lavoratori solo per il modo in cui il lavoro è organizzato. Le stesse
considerazioni valgono anche per gli aumenti indotti dal ritmo delle macchine
(una diminuzione dal 22% nel 1995 al 20% nel 2000) e ancor più chiaramente dal
ritmo indotto dal controllo gerarchico diretto (con una caduta dal 34% al 32%).
(B) Flessibilità. Contrariamente alla visione apologetica sulla
flessibilità, secondo cui la flessibilità renderebbe il mercato del lavoro più
fluido aumentando quindi la disponibilità degli imprenditori a assumere lavoratori,
uno studio recente raggiunge risultati opposti (European Foundation, 2001a).
Questi risultati si basano su uno studio di 5.800 imprese in dieci paesi membri
della UE. [4] Essi supportano scientificamente
per una buona fetta dell’UE ciò che molti lavoratori già sanno anche se solo
intuitivamente: e cioè che la flessibilità fa bene ai profitti ma non all’occupazione.
Vediamo perché.
Si possono distinguere diversi tipi di flessibilità. Vi è la
cosidetta flessibilità funzionale, che è la forzata mobilità del lavoratore
da una mansione all’altra. Essa in genere comporta un abbassamento delle qualifiche
e quindi un peggioramento salariale. Vi è anche la cosidetta flessibilità numerica,
che null’altro è che la riduzione del personale, o licenziamenti. Un primo punto
di grande importanza è che, a livello europeo, questi due tipi di flessibilità
non si escludono a vicenda. Anzi, la maggior parte delle imprese ricorre ad
entrambe le opzioni. La flessibilità funzionale serve al massimo a ridurre il
numero di coloro che perdono il loro lavoro, non a creare nuovi posti di lavoro.
A livello di impresa, l’aumento dell’occupazione è legato alle innovazioni tecnologiche
e non alla flessibilità funzionale. [5] Secondo, dei nuovi posti di
lavoro creati, la maggior parte sono lavori part-time e a contratti temporanei.
Questa è chiamata flessibilità di contratto. In terzo luogo, sempre a livello
di impresa, vi sono più probabilità di crescita per quelle imprese che praticano
la flessibilità di contratto e allo stesso tempo riducono moderatamente la loro
forza lavoro (flessibilità numerica).
Consideriamo ora alcuni aspetti più specifici delle tre forme
di flessibilità. Incominciamo dalla flessibilità funzionale. Circa il 6% delle
imprese pratica molto questo tipo di flessibilità e il 36% in misura più moderata.
Nelle altre non si ricorre ad essa. Ciò vuol dire che in quattro imprese su
dieci nei paesi studiati si pratica in qualche forma la dequalificazione delle
mansioni. Per quanto riguarda la flessibilità numerica, il 30% delle imprese
la pratica, cioè riduce il proprio personale. Infine la flessibilità di contratto.
Il 7% delle imprese usa alti livelli di flessibilità di contratto (ma non dimentichiamoci
che la maggior parte dei nuovi posti di lavoro sono soggetti a questo tipo di
flessibilità) mentre essa è applicata in qualche misura dal 18%.
Se l’impatto della ‘globalizzazione’ sul lavoro è negativo,
non sarebbe questo il prezzo che si deve pagare per stimolare le imprese ad
impiegare il capitale risparmiato sui salari per investirlo in innovazioni,
come vorrebbe farci credere la ‘scienza’ economica ufficiale? La risposta è
che solo una percentuale minima, il 3% delle imprese, introduce in maniera intensiva
innovazioni e che in ben il 66% non vi sono innovazioni o, se vi sono, sono
minime.
Da questo studio emerge un’importante tipologia in termini
dei tipi d’imprese in cui l’occupazione diminuisce, è stabile, o cresce.
[1] Questa prima
sezione è basata su Carchedi, 1998.
[2] Questa sezione
si basa su alcune parti delle pubblicazioni della European Foundation for the
Improvement of Living and Working Conditions citate nel testo. I commenti e
le conclusioni sono ovviamente di responsabilità dell’autore.
I dati che più interessano sono sulle classi e cioè su come le mutate condizioni
del lavoro, compresa l’organizzazione del lavoro, influiscono sulle diverse
classi. Questi, purtroppo, non sono i dati forniti dalle pubblicazioni consultate
in quest’articolo. Le diverse occupazioni non corrispondono alle diverse classi
ma, in mancanza di meglio, potrebbero servire come un’indicazione, anche se
molto vaga e imprecisa. Tuttavia i dati non sono neanche per occupazione ma
per tipo di contratto di lavoro. Quindi gli intervistati appartengono sia ai
lavoratori che agli imprenditori che ad altre classi. Per esempio, “employees”
equivale a lavoratori dipendenti, che quindi comprendono anche managers, supervisori,
ecc. Ciononostante, questi dati evidenziano importanti elementi di analisi e
di riflessione.
I dati nelle indagini della European Foundation sono basati su interviste condotte
in tutti i paesi della UE. Quelli della Terza Survey (2001b) sono basati su
21.703 interviste che dovrebbero essere un campione rappresentativo della popolazione
attiva, cioè di coloro che, quando furono intervistati, erano sia lavoratori
autonomi o dipendenti e che, nella settimana di riferimento, avevano lavorato
per salari/stipendi o per profitti. Coloro che erano temporaneamente assenti
dalla loro attività economica erano inclusi mentre i pensionati, i disoccupati,
le casalinghe e gli studenti erano esclusi.
[3] I dati nella tabella seguente si riferiscono a coloro che devono
lavorare a ritmo elevato per almeno un quarto dei loro tempo. La percentuale
per coloro che devono lavorare a ritmo elevato sempre o quasi sempre è per il
2000 del 24%.
[4] Essi sono: Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Italia, Olanda,
Portogallo, Spagna, Svezia, Inghilterra.
[5] In genere le innovazioni tecnologiche
rimpiazzano operai e impiegati con mezzi di produzione, come macchine ecc. Quindi
l’impresa innovatrice riduce l’occupazione per unitá di capitale investito.
Peró, se la domanda cresce sufficentemente, piú capitale é investito e l’occupazione
totale cresce per quelle imprese innovatrici.