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VENT’ANNI di caccia allo straniero.
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VENT’ANNI di caccia allo straniero.

RAFFAELE DE CHIARA

Come si costruisce un percorso d’intolleranza

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1. Jerry Masslo e l’incendio del ghetto

Ci sono storie che non si vorrebbe mai raccontare, episodi che si vorrebbe fossero soltanto brutti incubi da scacciare al risveglio, semplici brutture da relegare nei meandri oscuri delle nostre coscienze, si vorrebbe, ma non si può. Napoli e Caserta da vent’anni vivono il fenomeno dell’immigrazione, specie quella africana, in maniera ambivalente. Da un lato la considerazione del diverso come merce da usare e sfruttare. Dall’altro una pacifica tolleranza, fatta di indifferenza e cordialità. Correva l’anno 1989 e un giovane sudafricano Jerry Masslo ebbe a dichiarare: «Pensavo di trovare in Italia uno spazio di vita, una ventata di civiltà, invece sono deluso. Avere la pelle nera - continuava - è un limite alla convivenza civile. Noi del terzo mondo - chiosava - stiamo contribuendo allo sviluppo del vostro Paese ma sembra che ciò non abbia alcun peso. Prima o poi qualcuno di noi verrà ammazzato e solo allora ci si accorgerà che esistiamo». Quel ragazzo, di lì a qualche giorno, morirà nelle campagne di Villa Literno sotto i colpi di alcuni balordi del posto: volevano rapinarlo di tutti i suoi risparmi e alla sua opposizione non esitarono a sparare al ventre. Masslo aveva solo 29 anni e fuggiva dall’apartheid, in Italia credeva di trovare la libertà ma ad attenderlo ci fu solo la schiavitù dei campi di pomodoro di Villa Literno. L’Italia intera, dopo la sua morte, si mobilitò; il Sud in particolare da culla dell’intolleranza sembrava essere divenuto finalmente l’epicentro del rinnovamento, ministri e sottosegretari fecero a gara nel promettere sviluppo e occupazione, condicio sine qua non - dicevano - per l’integrazione di tutti i rifugiati provenienti da ogni parte del mondo. Allo sdegno generale seguì addirittura una legge, quella presentata dal ministro guardasigilli di allora, Claudio Martelli: primo tentativo di regolamentare in maniera sistematica il fenomeno dell’immigrazione. Passarono però solo cinque anni ed ecco che una ventata d’odio si abbatté nuovamente su Terra di lavoro e dintorni, un incendio doloso devastò il “ghetto” di Villa Literno, un non luogo fatto di baracche e rifiuti dove erano stipati fino a 2000 extracomunitari senza fissa dimora; non ci furono vittime ma solo per caso. Nel campo infatti erano presenti 50 persone, il resto si era spostato temporaneamente in Puglia per la stagione della raccolta dell’uva. Unico movente: l’intolleranza razziale.

2. La strage di San Gennaro Diciotto anni e nel settembre 2008 la storia sembra ripetersi, ma se possibile con una ferocia ancora maggiore. Castelvolturno, km 43 della strada Domiziana, sartoria Ob Ob exotic faschions: a cadere sotto un’interminabìle gragnola di colpi sono sei africani, loro unica colpa avere la pelle nera. Autori della strage il camorrista Giuseppe Setola ed i suoi accoliti, nelle loro menti criminali quella voleva essere solo una lezione da dare ai “negri” per rimettere in chiaro le gerarchie sul territorio. A nulla valse la consapevolezza che quei sei caduti niente avevano a che fare con il traffico di droga. Serviva soltanto un messaggio da lanciare agli spacciatori africani che si erano in qualche modo ribellati alle richieste estorsive del clan, solo un’intimidazione; e poi cosa vuoi che importasse sparare nel mucchio, la morte di un “negro”, per loro, valeva l’altro.

3. La situazione, oggi Ma qual è la situazione oggi? Per rendersene conto basta andare nuovamente a Castelvolturno. A dare il benvenuto la via Domiziana, una lunga striscia d’asfalto tagliata al centro da un imponente spartitraffico. Ai lati tutto ciò che avrebbe potuto essere e che non è mai stato: monoliti di cemento rosicati dall’incuria e macchie verdi stuprate dai rifiuti. «Tu vuoi parlare... io avere fame, dai soldi e io racconto tutto». A dirlo in un italiano biascicato è Daniel, 26 anni, nato nel Togo e qui in Italia da meno di un anno. «Ho freddo, non lavoro da giorni, lasciatemi stare». Controverso anche il rapporto che c’è oggi tra extracomunitari e gente del posto: «Più che una pacifica convivenza, attualmente parlerei solo di tolleranza, e nel senso peggiore della parola»: a dichiararlo sibillino è Antonio Casale, direttore del Centro Fernandes di Castelvolturno, una struttura da anni impegnata nella prima accoglienza agli immigrati. «La vita qui tra la popolazione italiana e quella africana si snoda in maniera separata, non c’è alcun tipo d’integrazione». Per averne contezza basta ascoltare Salvatore, 20 anni, occhiali scuri cerchiati di bianco e capelli gelatinati. «Il lavoro nero degli immigrati? Almeno loro ce l’hanno, io sono ancora in cerca di uno. Gli extracomunitari mi sono totalmente indifferenti, certo qualche volta litigano ma capita sempre tra di loro». Toni senz’altro diversi, invece, per Nico, 28 anni del Ghana. È seduto su un muretto assieme ad altri compagni a pochi passi dalla sartoria dove avvenne la strage di San Gennaro: «Voi italiani siete tutti razzisti - esordisce con voce alta e rotta dalla disperazione - sai dove vivo? In una casa abbandonata qui vicino, nessuno vuole affittarmi nulla». Non va certamente meglio per ciò che concerne l’occupazione. «Lavoro solo quando capita, e quando riesco promettono di pagarti 50 ? ma poi ti danno sempre 20 euro». Decisamente allarmato per la situazione appare Lorenzo Marcello, ex vicesindaco: «Qui c’è una realtà esplosiva. Un numero di immigrati assolutamente incompatibile per quelle che sono le capacità del territorio». Situazione non del tutto dissimile a Pianura, estrema periferia nord di Napoli. C’è una strada, lì, dal nome sinistramente evocativo: via dell’Avvenire. Ciò che la caratterizza, oltre all’agglomerato informe delle sue pseudo-abitazioni fatte di lamiere e cemento, è l’altissima concentrazione di immigrati africani che occupano in maniera del tutto abusiva dei ruderi di proprietà del Comune. La corrente elettrica è data da allacci abusivi alla rete pubblica ed i servizi igienici sono del tutto assenti. Percorrere quella strada è come catapultarsi in certi quadri metafisici di De Chirico. Scorci di paesaggi senza tempo che vivono solo attraverso gli incubi che li governano. Ad aggirarsi in quel non-luogo sono uomini di colore dagli occhi spenti e dalle mani logore di fatica. Fame e lavoro, è l’unico mantra mille volte urlato che feroce ti penetra nella mente sino a ossessionarti e a maledire la fortuna di non esser nato povero. A volte l’impotenza ad aiutare è ancor più frustrante del non aver nulla. «Con i pochi soldi che riesco a guadagnare non posso permettermi di pagare 400 euro al mese di affitto. Ho una moglie e due figli in Africa che hanno bisogno dei miei soldi». A dichiararlo con forza è David, un ragazzone di un metro e ottanta di 33 anni, proveniente dal Burkina Faso. Gentile nei modi e dignitoso nell’aspetto, ci invita ad entrare nella sua baracca, quattro materassi accostati gli uni agli altri formano un giaciglio per la notte. «Siamo in quattro - afferma - ma se ci stringiamo un po’, andiamo bene lo stesso». All’interno, in un piccolo spazio adibito a cucinino, troviamo Iaia, un quarantenne del Ghana: «Sono stato otto anni a Torino, poi ho dovuto andar via perché ho perso il lavoro. Qui a Pianura è più facile sopravvivere perché la polizia ci lascia stare. A Torino non sarebbe potuta esistere una situazione come questa, con case occupate e utilizzo abusivo della corrente elettrica delle strade». Situazione anche questa non semplice e con equilibri precari. «Noi non siamo razzisti. Il problema è che abbiamo paura di averli come vicini di casa - ad urlarlo quasi è Manuela, una ragazza italiana del posto, che poi continua: «Vivono in condizioni igieniche molto precarie e spesso litigano anche tra loro». La colpa tuttavia non è degli extracomunitari, secondo la ragazza, ma delle autorità: «Il Comune e il Governo dovrebbero intervenire per aiutarli». Del medesimo avviso Fabio Tirelli, presidente della Municipalità di Pianura: quello di via dell’Avvenire, spiega, «è un problema che andrebbe risolto all’origine. Offrendo a questa gente la possibilità d’integrarsi, dando loro alloggi decorosi e la possibilità di lavori regolari. I soldi arrivano - sottolinea - ma spesso sono mal utilizzati. Purtroppo - conclude Tirelli - noi della Municipalità possiamo fare ben poco. I fondi sono gestiti dal Comune». Vent’anni dopo la morte di Jerry Masslo tutto è cambiato affinchè nulla mutasse. Continuano a cercare bestie da lavoro e giungono uomini.

* Giornalista indipendente