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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO

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REINALDO CARCANHOLO
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Aspetti teorici della crisi capitalista

REINALDO CARCANHOLO

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1. Attualmente, la società capitalista vive una profonda crisi economico-finanziaria, il cui elemento detonatore è scaturito dai crediti subprime nordamericani, anche se si tratta solo di una delle manifestazioni della crisi strutturale del sistema. Insieme ad essa, noi conviviamo con altre manifestazioni: quella della disoccupazione, quella energetica, quella ecologica, quella degli alimenti che porta con sé l’aumento della miseria per enormi contingenti della popolazione mondiale. Perché siamo in condizioni di sostenere scientificamente che il capitalismo attuale soffre una crisi economica strutturale? Qual è la teoria su cui si basa la nostra convinzione? Quali sono gli elementi essenziali di questa teoria? A premessa, ci preme dire che pretendiamo situarci all’interno di una prospettiva rigorosamente marxista, utilizzando la teoria dialettica del valore. In primo luogo è nostra convinzione che il sistema capitalista è unico e globale. Così come l’economia tedesca e quella statunitense sono due dei suoi elementi, e in questo caso, elementi fondamentali, anche le realtà economiche dell’Etiopia e di Haiti sono suoi elementi indispensabili affinché si possa comprendere meglio il sistema come un insieme unico. Le caratteristiche economiche dell’Etiopia e di Haiti, in linea generale, non sono il risultato di un mancato sviluppo capitalista o di un sottosviluppo. Al contrario, esse sono conseguenze dirette e inevitabili del pieno sviluppo del regime mondiale del capitale; esse sono essenziali affinché la Germania e gli USA siano quello che sono. Sviluppo economico di alcuni e sottosviluppo di altri sono due facce dello stesso processo globale. In questo senso ci identifichiamo totalmente con la prospettiva della teoria della dipendenza, rappresentata nella sua tendenza soprattutto nei lavori di Ruy Mauro Marini. Quali sono gli aspetti centrali di questa teoria? In essa si mette in luce il problema del trasferimento di ricchezza-valore dai paesi dipendenti, tramite vari meccanismi, tra i quali il sistema internazionale dei prezzi. Intimamente connesso a questo si trova il concetto di supersfruttamento, fenomeno caratteristico della dipendenza. È importante sottolineare qui che la teoria della dipendenza è rilevante non solo per la comprensione del “sottosviluppo” dei paesi periferici ma anche per l’interpretazione dell’insieme del sistema capitalista contemporaneo e, pertanto, della ricchezza degli stati centrali. La dipendenza e l’imperialismo sono due facce della stessa moneta, due aspetti complementari di una stessa teoria. Ora anche la prospettiva della dipendenza è solo un aspetto della teoria che stabilisce la base della nostra interpretazione del capitalismo contemporaneo. Noi crediamo che l’aspetto decisivo della nostra prospettiva teorica sia l’adesione incondizionata ai principi scientifici della teoria dialettica del valore lavoro. In verità, la teoria della dipendenza, se intesa correttamente, presuppone quella visione dialettica del valore e della ricchezza economica. Contrariamente a quanto molti pensano, la teoria del valore non è una teoria della determinazione dei prezzi in condizioni di equilibrio. Essa possiede un significato molto più grande. La teoria dialettica del valore, in primo luogo, considera il lavoro umano come concetto centrale nell’analisi del sistema capitalista; un tale concetto è determinante per ciò che concerne l’origine della ricchezza economica in qualsiasi analisi economica, sia congiunturale che strutturale. La tecnologia, o meglio, l’avanzamento tecnologico, non è un aspetto da eliminare, ma si riferisce soprattutto al contenuto materiale della ricchezza capitalista e meno alla sua forma sociale che ne costituisce l’aspetto decisivo. Così il guadagno è il risultato dello sfruttamento del lavoro.

2. In partenza, questa prospettiva teorica esige la risposta a due fondamentali interrogativi: da un lato, chi produce, e in che modo, la ricchezza; dall’altro, chi e in che modo si appropria di quella ricchezza prodotta. Dette domande, come è ovvio, presuppongono la distinzione fondamentale tra i concetti di produzione e di appropriazione della ricchezza economica prodotta dal lavoro ed esigono che siano identificati i meccanismi del trasferimento da coloro che producono a coloro che alla fine si appropriano o si approprieranno di essa. In realtà, radicalizzare la prospettiva dialettica sul valore economico implica di intendere che la ricchezza capitalista esige un’attenzione speciale tanto nel suo contenuto materiale quanto nella sua forma sociale, vale a dire, che essa presuppone che la si consideri nella sua doppia determinazione. Per quanto riguarda il contenuto materiale, sarebbe del tutto al di fuori di ogni proposito disconoscere il ruolo dell’avanzamento tecnologico nella produzione della ricchezza capitalista contemporanea. Indubbiamente, l’avanzamento tecnologico è responsabile della crescita eccessiva di quella ricchezza materiale, ma nello stesso tempo è anche responsabile, per la sua controparte, dell’espansione, del radicamento e dell’esacerbazione della miseria in molte parti costitutive della struttura mondiale del sistema. Dal punto di vista del contenuto materiale, negli spazi dove si presenta lo sviluppo tecnologico il lavoro è altamente produttivo; mentre, al contrario, in quegli spazi del sistema di poco o nessun avanzamento tecnologico il lavoro, inteso come creatore di ricchezza materiale, risulta poco effettivo. Tuttavia, dal punto di vista della forma sociale, la cosa è molto diversa. Se radicalizziamo la prospettiva dialettica della teoria del valore e riconosciamo, così, che la ricchezza economica è un rapporto sociale di dominio tra gli esseri umani, dovremo forzatamente sostenere che non importa il grado differenziato di sviluppo tecnologico della regione o del settore in cui si trovi, il fatto è che qualunque lavoro sussunto al sistema capitalista produce, in un determinato tempo, la stessa quantità di valore e pertanto di ricchezza capitalista. Se questo lavoro è o meno sussunto direttamente al capitale poco importa; è sufficiente che esista qualche forma o tipo di sussunzione. L’unica condizione perché quanto detto precedentemente sia corretto è che quel tipo di lavoro sia necessario al sistema e non sia totalmente marginale. Marx è molto chiaro riguardo a questo aspetto, anche nel capitolo sulla merce de Il Capitale. Così, la conclusione dialettica della questione possiede due facce, ossia: per un verso, dal punto di vista del contenuto materiale, il lavoro meno produttivo - come conseguenza del livello tecnologico in cui opera - produce in un determinato periodo meno ricchezza rispetto al lavoro che opera con tecnologia superiore, e ciò sembra più o meno ovvio; per l’altro, tuttavia dal punto di vista della forma sociale e all’interno dei limiti necessari al sistema, quel lavoro “meno produttivo” nello stesso tempo produce - ciò che può sembrare un assurdità - la stessa quantità di ricchezza del lavoro “più produttivo”. Questa apparente contraddizione in termini si spiega nella misura in cui stiamo trattando di due punti di vista distinti: produce meno ricchezza dal punto di vista del contenuto materiale (valori d’uso), ma dall’altra parte, produce la stessa quantità di ricchezza dal punto di vista della forma sociale (valore). Va sottolineato un aspetto essenziale: nell’attuale capitalismo, ampiamente sviluppato, il polo dominante è la forma sociale. Così, quando consideriamo il tasso di guadagno o, in particolare, la tendenza all’abbassamento, per esempio, del tasso di guadagno ciò che interessa è il punto di vista della forma e non quello del contenuto materiale. Anche per quanto riguarda la tecnologia è importante affermare, in questa sede, che, sebbene essa non abbia significato diretto dal punto di vista della forma sociale sulla quantità della ricchezza prodotta, essa arriva a determinare la quantità di plusvalenza attraverso la plusvalenza relativa e, inoltre ha un’importanza significativa come strumento di appropriazione per colui che la detiene; essa opera, per mezzo del sistema dei prezzi, come elemento che impone trasferimento di ricchezza. La plusvalenza straordinaria e la rendita di monopolio costituiscono i meccanismi fondamentali di quella appropriazione. In tal modo, all’interno di una prospettiva della teoria dialettica del valore, come interpretare l’attuale fase capitalista?

3. La nostra prospettiva privilegia la contraddizione produzione/appropriazione di valore al fine di interpretare l’attuale fase del capitalismo. È condivisa l’opinione che il capitalismo, fin dagli anni ’70, viva una nuova tappa, molto diversa dalla precedente, che potremmo definire come capitalismo speculativo, a causa del predominio delle “finanze” sulle attività realmente sostanziali del capitale, ossia quelle che realmente producono ricchezza. Di conseguenza, per poterla comprendere è indispensabile la categoria marxista del capitale fittizio. Se tale categoria è intesa in modo soddisfacente la conclusione deve essere, in primo luogo, che il capitale fittizio è al contempo fittizio e reale, secondo la dimensione osservata. Inoltre, si deve concludere che quel tipo di capitale esige remunerazione e nessuno contribuisce, diversamente dal capitale di interesse, alla produzione dell’eccedente economico, all’estrazione della plusvalenza. In tal modo, il capitale fittizio è parassitario; così, inevitabilmente, ci imbattiamo nelle suddette domande fondamentali della teoria dialettica del valore, che partono dalla distinzione tra la produzione e l’appropriazione della ricchezza capitalista, quest’ultima dal punto di vista della forma sociale. Di conseguenza, se è certo che la “finanziarizzazione” è una delle caratteristiche significative dell’attuale fase capitalista e se la natura del capitale dominante è il capitale fittizio, si prospetta la domanda fondamentale: chi produce e in che modo la plusvalenza sufficiente a soddisfare le esigenze di remunerazione del capitale, compresa quella del capitale fittizio? In verità, a nostro avviso, la contraddizione principale e basica dell’attuale fase del capitalismo, che penetra sempre di più, è quella tra la produzione e l’appropriazione del valore, dell’eccedente mercantile, della plusvalenza nelle sue diverse forme. È proprio per questa ragione che la categoria di lavoro produttivo (inteso come quello che produce plusvalenza o eccedente nella forma mercantile e appropriabile dal capitale) acquista molta rilevanza teorica nell’attualità. Senza negare l’esistenza di contraddizioni tra gli interessi di settori proprietari e gestori del capitale, si può affermare che è un errore considerare che l’opposizione tra il capitale sostanziale e il capitale fittizio ha come controparte l’esistenza chiaramente differenziata di settori rappresentanti di quelle forme distinte di capitale. Senza ombra di dubbio, i gestori sono anche proprietari di capitale e di entrambe le forme di capitale. La verità è che pensare l’esistenza di interessi chiaramente contraddittori e perfino antagonisti tra tali frazioni sociali proprietarie e manageriali del capitale e la considerazione del fatto che si tratta della contraddizione principale del sistema porta alla possibilità di proposte di soluzioni riformiste per il superamento delle difficoltà del capitalismo attuale. Facciamo ora una sintesi della nostra interpretazione dell’attuale tappa del capitalismo, interpretazione già presentata in altri lavori. Possiamo dire che la tendenza all’abbassamento dei tassi di guadagno ha avuto un’accentuata manifestazione negli anni ’70 e fino all’inizio degli ’80, soprattutto negli USA e in Europa. Le nuove inversioni sostanziali, vale a dire nel capitale industriale (produttivo e commerciale), si presentavano con una prospettiva di ridotta remunerazione e, per questo, i capitali, di considerevole quantità, cercarono come via d’uscita la speculazione. Questa circostanza si è vista favorita ed è stata sanzionata dalle politiche neoliberali (politiche che esprimono direttamente gli interessi del capitale speculativo), avendo come controparte indispensabile l’instabilità cambiaria e il crescente debito pubblico degli stati (sia nel primo mondo sia nelle periferie). In tal modo, il capitale ha creduto di aver trovato il suo paradiso: rendimento senza necessità di sporcarsi le mani con la produzione. E questo, di fatto, è quello che è avvenuto; sfortunatamente, per il capitale, per poco tempo. È vero che le remunerazioni del capitale, a partire dall’inizio degli anni ’80, tendevano a crescere; e qui, per questa interpretazione, pare esista una difficoltà. Come è stato possibile ciò? Se, da un lato, il ritmo dell’accumulazione di capitale sostanziale si è ridotto e se, contemporaneamente, si è ampliato spaventosamente il tasso di crescita della massa di capitale fittizio, speculativo e parassitario nel mercato mondiale, come è stata possibile la crescita dei tassi di remunerazione dei capitali, tanto quella dei capitali sostanziali quanto quella dei parassitari? Quali fattori sono riusciti a contrastare la tendenza all’abbassamento del tasso generale di guadagno? La spiegazione di questo fatto, per essere coerente con la teoria dialettica del valore, può essere trovata, come fattore principale, solo nell’aumento dello sfruttamento del lavoro a livelli senza precedenti, sia mediante la plusvalenza relativa, della plusvalenza assoluta (prolungamento della giornata, giornate multiple, intensificazione del lavoro), sia mediante il supersfruttamento dei lavoratori, oltre allo sfruttamento dei lavoratori non salariali. Non bisogna dimenticare, ai fini della suddetta questione, la significativa crescita dei trasferimenti di valore dalla periferia e anche il fatto che, nel periodo, ha potuto contribuire, in maniera significativa, l’aumento della rotazione del capitale. Questo ultimo aspetto è fondamentale se teniamo in considerazione il concetto di tasso annuale di profitto. Senza dubbio, tutto questo non ci sembra sufficiente per spiegare il significativo incremento del tasso generale di remunerazione del capitale globale (includendo la crescente parcella speculativa e parassitaria), osservato a partire dell’inizio degli anni ’80. La nostra spiegazione per tutto questo è che nello stesso momento in cui lo sfruttamento del lavoro si è ampliato in tutto il mondo (paesi centrali e periferici) ed è aumentata la rotazione del capitale, è nato, in modo considerevole, qualcosa di nuovo, nuovo per lo meno nei termini della sua grandezza e della sua persistenza. L’aspetto nuovo nel capitalismo attuale è la grandezza che i guadagni fittizi acquisiscono nella totalità della remunerazione del capitale. I guadagni fittizi, nella logica capitalista, non sono qualcosa sui generis. Naturalmente emergono nei periodi di speculazione esacerbata, per poi scomparire rapidamente alla fine di questi. Inoltre, non riescono ad ottenere quantità elevate. Nella fase attuale del capitalismo, la situazione è differente. Per un lungo periodo, hanno persistito e hanno presentato volumi mai osservati, come conseguenza del dominio del capitale speculativo e dell’estensione di questa fase, garantita, prima e dopo, dalla politica degli stati più importanti del pianeta. Per questo, giustamente, visto che non hanno avuto rilevanza nei periodi precedenti, i guadagni fittizi non sono stati inseriti, fino ad ora, come categoria all’interno della teoria dialettica del valore. In verità, questo di tipo di remunerazione del capitale, con dimensione fittizia, non si differenzia, nella pratica, dai profitti derivati dallo sfruttamento del lavoro, anche se non ha questa origine. Per lo meno questo è certo dal punto di vista dell’atto isolato e individuale, ossia, dal punto di vista del mercato. Non è possibile sapere quanto, di una determinata massa di profitti di un capitale, sia fittizio o reale. Inoltre, da questo punto di vista, non c’è, in pratica, la minima differenza. Non ha alcun senso mettere in discussione la dimensione fittizia. La quantità dei profitti è assolutamente omogenea. La distinzione tra ciò che è eccedente reale appropriato come profitto per il capitale e i profitti fittizi è comprensibile e significativa solo dal punto di vista globale, da una prospettiva molto ampia. Questo significa che, dal punto di vista individuale, tutto il capitale può dare ai suoi guadagni, se vuole, un destino effettivamente reale, sia il consumo o l’investimento. Però questo non è possibile per l’insieme del capitale. Quella parte della sua remunerazione che ha una origine fittizia non può essere convertita in qualcosa di sostanziale. Si può aumentare solo la grandezza totale del capitale fittizio. E qui sta il problema.

4. In questo modo, riassumendo, per noi, la fase attuale del capitalismo speculativo è caratterizzata dal fatto che cresce come risultato di un periodo di manifestazione acuta della tendenza al basso tasso di profitto. I capitali, fuggendo dai salari bassi, trovano una uscita nella speculazione, che si rafforza grazie alle politiche economiche adottate dai diversi paesi. Paradossalmente questa uscita, che incrementa il capitale parassitario a discapito di quello produttivo, favorisce i meccanismi che permettono di contrastare il basso tasso generale dei profitti. Questo perché risulta come conseguente crescita dello sfruttamento dei lavoratori di tutto il mondo, come incremento della rotazione del capitale produttivo e commerciale e, specialmente, come emersione di grandezze molto elevate dei guadagni fittizi. Senza dubbio, in economia non ci possono essere soluzioni miracolose. Il problema è ovviamente nel modo in cui i guadagni fittizi risolvono, circostanzialmente, le difficoltà del capitale, ampliando la parcella speculativa del capitale globale, parcella che, essendo crescente, esige continuamente costi maggiori per ciò che riguarda i salari che si destinano al capitale e, come detto precedentemente, non contribuisce affatto alla produzione dell’eccedente, della plusvalenza. In tal modo, risolvono il problema sul momento, però riescono a farlo solo amplificando la contraddizione principale (produzione/appropriazione), pertanto, amplificando il problema per il futuro, una volta che i profitti fittizi possono tradursi solo in ulteriore incremento del capitale speculativo e parassitario. Per tutto questo, la nostra conclusione è che la crisi economica strutturale del sistema ha come sfondo la tendenza al basso tasso di profitto e che la fase speculativa del capitalismo che viviamo è l’intento del capitale di darle una risposta. La suddetta risposta è il dominio del capitale parassitario, l’incremento a livelli sorprendenti dello sfruttamento e il mantenimento di grandezze elevate e crescenti di profitti fittizi. Questa fase evolutiva può avere solo una vita breve. È vero che l’inserimento significativo di nuovi spazi destinati allo sfruttamento capitalista ? un esempio è il caso della Cina e dei paesi dell’ex blocco sovietico ? garantisce, per un certo tempo, un’ulteriore sopravvivenza. E, in questi spazi, i livelli di remunerazione del salario sono sufficientemente bassi per garantire quantità significative di eccedente capitalista prodotto. Comunque, e nonostante questo, la breve durata è determinata dal fatto che, ad un certo punto, la crescita sproporzionata del capitale fittizio, come conseguenza della rilevanza di anno in anno, dei profitti fittizi, deve fermarsi. L’attuale fase speculativa del capitalismo, sopravvive e continuerà a sopravvivere solo nel corso del tempo sulla base di un incremento addizionale dello sfruttamento del lavoro; però tutto ciò ha un limite. E non ne siamo tanto lontani.

5. Ovviamente la fine di questa fase speculativa del capitalismo non deve necessariamente significare la fine del capitalismo e, di conseguenza, neanche la sua sostituzione con una forma sociale nuova. Il capitalismo potrà sopravvivere sostituendo questa fase con una nuova, ricostruendo il predominio del capitale sostanziale. Però ottenere tutto questo non avverrà per mezzo di un processo facile e indolore. Il processo presupporrebbe livelli insospettabili di sfruttamento del lavoro, molto più alti dei livelli attuali, non solo come metodo per contrastare il basso livello del tasso generale di profitto, ma anche come risultato di una crisi capace di provocare la sparizione del capitale fittizio, almeno in larga misura. Come si produrrebbe questo processo? Per mezzo di una crisi finanziaria ed economica esplosiva a livello mondiale, come conseguenza della crisi strutturale? L’attuale crisi dei crediti subprime è forse il punto di partenza di questa crisi finanziaria esplosiva? Oppure il processo può tradursi, come sta succedendo, in un lungo processo di stagnazione economica che semina crisi un po’ ovunque di entità variabili? Qualsiasi sia la risposta, una cosa è certa, la tragedia umana che stiamo già vivendo si manifesterà ancora di più nel futuro. Credere nella possibilità di un ritorno a un capitalismo più umano, se mai fosse esistito, o comunque non così violento come quello attuale, è pura illusione. La prospettiva riformista non è mai stata così ingannevole.

Professor do Mestrado em Política Social Universidade Federal do ES Brasil